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L’Italia tra continuità e discontinuità

di Franco Di Giorgi

Tutte le forze politiche italiane in campo oggi sostengono a viva voce che vogliono salvare il Paese dalla grave malattia che da troppi anni l’affligge e dalla quale non riesce a riaversi completamente.

Quelle forze sono tante quante sono le diagnosi e le relative cure.

Sta di fatto, però, che il malessere permane e nessuna di queste terapie si è dimostrata finora all’altezza della situazione, cioè adeguata ed efficace.

Il rischio di questa specie di accanimento terapeutico è di perdere definitivamente il Paese, paziente e confuso.

Troppe volte si è infatti indugiato irresponsabilmente attorno ai pilastri della Costituzione e ogni volta l’Italia tutta tremava nel temere che potesse verificarsi l’irreparabile.

Il fatto è che alle ultime e alla nuova generazione di politici è mancato e manca il senso della vera responsabilità, quella a cui essi stessi si appellavano al recente impegno elettorale: a quelle mancava perché volevano salvare il Paese sulla base del principio liberista “arricchitevi a tutti i costi”, pur non avendone le reali possibilità; a questa manca perché a tutti i costi vuole riparare i danni commessi da quegli altri, senza avere l’effettiva competenza politica.

Il risultato, che resta sotto gli occhi stupefatti di tutti, è che le condizioni del paziente, del Paese ammalato, si sono andate ulteriormente aggravando, non solo in termini di debito pubblico.

L’unica possibilità per salvarlo, si può ben dire l’ultima ratio, l’ultima chance, pare essere ora un consulto incrociato, una collaborazione terapeutica tra i medici: così infatti oggi sono percepiti i politici italiani, cioè come dei primari, ognuno dei quali ritiene di avere in tasca la terapia salvifica.

Solo che alla luce della realtà patologica ognuna di esse, malgrado le prime avvisaglie, si dimostra alla lunga insufficiente e infine peggiorativa.

Come al solito, tuttavia, anziché operare in maniera coordinata e collaborativa, si crea quello spirito competitivo che purtroppo ci appartiene, simile ad esempio a quello che prevalse tra i generali durante la prima guerra mondiale, il quale finì con il creare la disfatta.

Non siamo tuttavia a una nuova “Caporetto”, vale a dire nel nostro caso a un ‘auto-Caporetto”, ma poco ci manca.

A fronte dello stato semi-comatoso in cui purtroppo ci troviamo, alla paziente Italia non possono pertanto che far male i toni da ultimatum che qualcuno dei nuovi dottorini adotta.

Nel caso specifico si tratta peraltro di quello stesso medicuzzo che poco più di un anno e mezzo fa aveva addirittura avanzato l’idea di impeachment.

E, alla luce di quanto assistiamo, risulta del tutto evidente che così facendo si è perso solo del tempo prezioso, perché la formula chimica, il farmaco, la mistione, insomma l’alleanza che in questi giorni è stata proposta doveva già essere avanzata dopo l’esito del 4 marzo dell’anno scorso.

Allora questa formula venne scartata a causa della testardaggine di un altro medicuzzo livoroso, per via del rancore che ancora lo avvelenava dopo la sonora bocciatura a un esame referendario.

Il rischio è che tra i due litiganti possa goderne alla fine il terzo escluso, il quale pensava di proporre per il Paese la sua ricetta sovranista, e che ora si sta preparando da par suo a manifestare pubblicamente il suo netto dissenso a quella alleanza.

Tutto ciò per dire che in questa sterile e dannosa disputa tra continuità e discontinuità, il Paese corre davvero il rischio di rimanere pietrificato dalla sua cronica malattia, la quale si manifesta certo con la crisi della rappresentanza parlamentare, ma solo perché ha la sua infezione originaria nel generale e incontenibile desiderio di fascismo.

1 settembre 2019

Marcello Martini

In memoria di Marcello Martini

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In memoria di Marcello Martini

Franco Di Giorgi

 

Il 14 agosto si è spento a Castellamonte Marcello Martini, uno degli ultimi martiri e testimoni della Shoah, uno dei pochi sopravvissuti allo sterminio razionalmente programmato dal nazismo.

Nato 89 anni fa a Prato, figlio di un partigiano e staffetta partigiana egli stesso già all’età di 14 anni, venne catturato il 9 giugno del 1944 (era nato nel 1930).

Dapprima trasportato nel campo di smistamento italiano di Fossoli (vicino a Carpi), poi deportato in Austria, a Mauthausen (immatricolato col numero 76430), assegnato ai sotto-campi di Wiener Neustadt e di Hinterbrühl (nei dintorni di Vienna), conobbe e superò la terribile prova della marcia della morte (250 km in 7 giorni) e fu infine liberato dalle truppe americane il 5 maggio 1945.

La sua testimonianza si trova raccolta in Un adolescente in Lager. Ciò che gli occhi tuoi hanno visto (Giuntina, 2007).

Tre mesi fa, in occasione dell’incontro per la cittadinanza onoraria che l’amministrazione dello stesso comune canavesano di Castellamonte (nel quale risiedeva da circa cinquant’anni) ha voluto conferirgli (cfr. il nostro articolo: https://www.sergiodalmasso.com/09/05/2019/cittadinanza-onoraria-martini/), dopo aver avvertito i numerosi giovani (sempre presenti alle sue testimonianze) della pericolosità insita nell’indifferenza, ha aggiunto con un mezzo sorriso che avrebbe voluto cancellare dal vocabolario almeno tre parole: odio, violenza e vendetta.

Dopo l’esperienza disumana dell’annientamento progettato vissuta nei campi di lavoro, di concentramento e di sterminio nazisti ogni scampato a quel programma nutriva nel proprio animo offeso l’intenzione di abolire alcune parole nelle quali credeva si potessero individuare e sintetizzare le cause di quel male assoluto.

Anche per un’altra testimone, per Liana Millu (deportata ad Auschwitz), ad esempio, le parole erano tre: l’indifferenza, la violenza e il disprezzo.

«Oggi – ammoniva qualche anno prima della sua scomparsa, nel 2005 – sono rimasti l’indifferenza, la violenza e il disprezzo. E in mezzo a questo mondo terribile cresce la nostra gioventù.

Io oggi posso dire di avere l’autorità e il diritto di parlare dell’indifferenza, della violenza e del disprezzo, poiché ho visto tutto questo e pertanto metto in guardia perché, di nuovo, noi oggi vi acconsentiamo».

«Non si tratta di parlare di storia – ammoniva Liana, cogliendo l’essenza del nostro squallido presente –, quanto piuttosto di indicare cosa di essa è rimasto e ciò contro cui noi oggi dobbiamo ancora lottare».

Come si vede, ricorrono le stesse parole sia in Marcello sia in Liana.

L’odio è un sinonimo di disprezzo. Per quanto riguarda la vendetta, anche Liana (in un’intervista alla Rai del 2003 ma registrata nel 2002) ad essa preferiva la giustizia dagli occhi freddi.

Si deve purtroppo constatare che, anche facendo a meno delle parole che le designano, la violenza, l’odio, la vendetta e l’indifferenza restano inclinazioni costitutive dell’uomo, e non c’è testimonianza culturale, religiosa, letteraria, storica o politica che non lo sottolinei ogni volta, in ogni epoca, seppur in modalità differenti.

Tutti abbiamo appreso, a scuola e nella nostra stessa esperienza di vita, che, diceva Hegel, il Negativo è il motore della storia, intesa sia in senso fattuale e storiografico sia in senso artistico e immaginario.

Non ci sarebbe storia biblica senza il dubbio e il peccato di Adamo, l’odio di Caino e soprattutto senza la vendetta di Dio stesso.

Né ci sarebbe stato cristianesimo senza l’atto empio della crocifissione, nessun libero culto senza le guerre di religione, alcuna acquisizione dei diritti umani senza le rivoluzioni e le guerre mondiali. Impastata d’odio e di vendetta, la violenza è dunque il substrato della storia umana.

L’istinto ferino dell’«animale politico» è anteriore, predomina e condiziona la ragione e quindi l’etica; nello stesso e identico modo in cui l’inconscio, l’irrazionale, precede il conscio e il razionale. Anche questo, specialmente dopo Freud, è ormai un dato acquisito. Yahweh, tra l’altro, crea prima gli animali (e quindi il serpente) e poi l’uomo.

Il dominio umano su di essi è solo nominale, anche perché per esercitarlo deve eccitare la propria animalità.

A fare da cornice a tutto ciò è l’indifferenza di coloro che, per timore di essere stritolati da questa costitutiva mostruosità umana, si fanno da parte, assumendo in tal modo il ruolo di semplici spettatori, preferendo continuare la loro vita quotidiana anche nei pressi del luogo in cui si consuma la violenza, il sacrificio, l’olocausto o la stessa Vernichtung.

A tal riguardo, a proposito del campo di Mauthausen, si veda Gordon J. Horwitz, All’ombra della morte.

La vita quotidiana attorno al campo di Mauthausen (Marsilio, 2004, 1994).

Poiché, però, la tendenza della ragione, specie nella sua declinazione positivistica, vale a dire nella sua illimitata volontà di potenza, è, dice Hermann Broch, di tendere o di estendere all’infinito le sue possibilità conoscitive, divenendo in tal modo «ultrarazionale», finisce viceversa con l’auto-abolirsi come ragione e quindi con il convertirsi «nell’irrazionale, nel non-più-intelligibile» (I sonnambuli, Einaudi, 1997, 19601, III, p. 685).

L’unico rimedio per non far cadere la ragione nell’irrazionale sarebbe pertanto quello di evitare questo suo trascendimento nell’ultrarazionale, il quale non corrisponde affatto all’idea del sonno della ragione.

Ma l’attuale rivoluzione tecnologica, a cui volenti o nolenti partecipiamo, a cosa tende se non proprio all’ultrarazionale?

E questo, implicando e coincidendo con l’auto-abolizione della ragione, non ci riapre forse, come è sempre accaduto, la via verso l’irrazionale e l’inintelligibile, verso una nuova “morte di Dio”?

A che cosa, se non a questo irrazionale proprio della violenza diede vita ad esempio la spinta ultrarazionalista, cioè universalista e imperialista, della ragione al tempo delle crociate, delle conquiste dei nuovi continenti, dell’imperialismo colonialistico, dei totalitarismi?

Se quindi, come in un ciclo sovrarazionale, è di nuovo l’irrazionalità della violenza e dell’odio quella che ci attende con l’ultrarazionalità in corso, ben vengano i calorosi moniti dei due sopravvissuti allo sterminio pianificato, consapevoli però che sarà ben difficile eliminare sia i nomi di quegli impulsi umani sia a maggior ragione quegli stessi istinti ferali.

I fatti di questi giorni, divenuti ormai fatti di semplice cronaca, la fredda indifferenza nei confronti di esseri umani considerati solo come scarti o rifiuti, ne sono l’amara conferma.

Pur manifestando il vivo desiderio di disfarsi di quei sostantivi, il vago sorriso con cui sia Marcello che Liana accompagnavano le loro testimonianze era forse segno di quella difficoltà.

Lunedì, 19 agosto 2019

Infedeltà

icona pdfGIURAMENTO DI INFEDELTÀ ALLA COSTITUZIONE

di Franco Di Giorgi

FRANCO DI GIORGI

Alla luce della fiducia posta dal Senato al governo sul decreto ‘sicurezza bis’ (con 160 voti favorevoli, 57 contrari e 21 astenuti), sarebbe stata del tutto inutile la proposta che i padri costituenti avevano avanzato (e poi definitivamente cassato) in merito all’estensione del giuramento di fedeltà alla Costituzione anche ai deputati della Repubblica.

Alla fine si decise infatti che “I deputati, per il solo fatto dell’elezione, entrano con la proclamazione immediatamente nel pieno esercizio delle loro funzioni.

Tale immissione non è più subordinata alla condizione del giuramento”.

A questo giuramento rimasero invece vincolati il capo dello Stato, i membri del governo, i magistrati e le forze armate. Ecco la formula protocollare: “Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione”.

Ora, è del tutto evidente (tranne a quelli che non la conoscono e non l’hanno mai letta – ma, nel caso in specie, anche a quei ministri e a quei deputati che su di essa hanno solennemente giurato) che quel decreto (approvato dal Consiglio dei ministri a giugno e dalla Camera a luglio) non è affatto fedele alla Costituzione, poiché viola manifestamente almeno l’articolo 10, il quale al terzo comma suona: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge”.

Un decreto che, sul classico modello della carota e del bastone, serve solo ad alimentare e in parte anche ad appagare l’inestinguibile sete d’odio che aumenta nella maggioranza delle persone con il delinearsi sempre più netto e sconfortante del dissesto economico, sociale e politico del Paese; un decreto pertanto che sa solo parlare alla pancia degli Italiani, sempre tanto desiderosi di un uomo (e mai di una donna, almeno in questo senso) che, in qualsiasi modo, sappia assicurare loro, come un buon padre, il cibo. Un alimento, a proposito di pancia, che ha la medesima ingannevole consistenza di quello che ogni giorno viene ammannito sulla mangiatoia virtuale dalle televisioni.

Un provvedimento, pertanto, non solo illegale (non sono bastati due mesi alla Corte costituzionale per rilevarne l’illegittimità?), ma anche immorale, perché del tutto contrario al principio etico della solidarietà cui si ispira sia quell’articolo sia tutta quanta la nostra Carta costituzionale, la quale da questo punto di vista si può considerare un vero e proprio trattato di etica – così, cioè come un articolato di valori etici universali e sovrastorici, essa dovrebbe essere studiata nelle scuole.

Un provvedimento inoltre del tutto inutile, perché non risolve affatto il problema degli sbarchi (tra l’altro in diminuzione proprio in questi mesi), e utile solo come pretesto per dimostrare quanta parziale e limitata verità vi sia nell’idea dei partiti di governo.

Ma proprio in tal modo gli esponenti al governo di questi partiti derogano e hanno derogato sia al testo del giuramento di insediamento sia al comma dell’articolo 10, perché se da un lato svolgono solo in apparenza le loro funzioni “nell’interesse esclusivo della Nazione”, dall’altro anziché creare le condizioni per la realizzazione della legge enunciata da quell’articolo ne creano viceversa delle altre che rendono impossibile l’espressione dello spirito solidaristico.

La questione dei migranti, poi, per l’Italia è del tutto relativa se si pensa che nel 2018, secondo i dati dell’Unhcr, vi sono sbarcate un po’ più di 23 mila persone (il nostro ministro in una lettera a Giuseppe Conte vi fa cenno in termini di “soggetti irregolari presenti nel territorio nazionale”), mentre in Grecia le persone salvate sono state 33 mila e in Spagna 64 mila.

Paesi che, come si sa, si trovano in una situazione economica non certo migliore della nostra.

In ogni caso, lo stupore rispetto a quel decreto nasce più che altro dal fatto che nessun organo dello Stato abbia saputo constatarne tempestivamente l’illegittimità, abbia saputo in altri termini ravvisare ed eventualmente sanzionare in maniera efficace ed esemplare, nelle forme consentite dalla legge, la conclamata infedeltà di ministri e deputati alla Costituzione.

Una di queste forme, anzi la forma etica per eccellenza prevista per questa legge è contenuta nell’articolo 54, al cui spirito etico si ispira esplicitamente il testo del giuramento al momento dell’insediamento, e nel quale si dice in maniera limpida: “Tutti i cittadini [oprattutto coloro che, in quanto ‘eletti’ dovranno esserlo in modo ‘esemplare’] hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi.

I cittadini [si ribadisce infatti nel secondo comma] cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge” (i corsivi sono nostri).

All’interno di uno Stato laico e repubblicano un siffatto giuramento (jus), ossia un tale senso della justitia, non può che fondarsi dunque sul dovere richiamato in questo articolo, dovere che obbliga a una fedeltà alle leggi previste dalla Costituzione e non a quelle divine che discenderebbero dalla Beata Vergine Maria (spesso evocata dal nostro ministro per rafforzare i suoi interventi e per far breccia nell’animo dei suoi fedeli).

L’assenza di decise reazioni istituzionali di fronte a questo molteplice e sfrontato atto di infedeltà costituzionale genera un vuoto surreale che amplifica l’eco di quelle evocazioni.

Ebbene, quando si tradisce la Costituzione fino a questo punto – in quel decreto si legge ad esempio che dovrà essere punito non colui che si astiene ma colui che si impegna a salvare la vita altrui – allora sì, non si può che dar ragione al presidente di Magistratura democratica, Riccardo De Vito, il quale avverte che in tal modo si ripropone, sebbene con procedure differenti, la medesima antilogica che vigeva nei Lager, in cui il mondo, come testimonia Levi, girava ‘alla rovescia’; non si può non condividere inoltre la convinzione della presidente dell’Anpi nazionale, Carla Nespolo, secondo la quale, così facendo, con quel decreto non solo si disattende il dettato costituzionale, ma viene altresì svuotato il significato della democrazia, che ha nell’eguaglianza uno dei diritti umani fondamentali.

Rispetto a ciò, ogni minimo allontanamento da questo valore prelude a una simmetrica approssimazione al razzismo, anche quando questo si presenta nella sua declinazione suprematista. “Quando si tradisce la Costituzione – afferma in particolare la presidente Nespolo – è il momento della Resistenza”.

Anche perché, come un buon nazionalsuprematista, il ministro degli Interni (che non è ancora premier, ma così lo vedono e lo chiamano già alcuni network amici) si serve dei suoi collaboratori (come ad esempio la sindaca di Monfalcone) per mettere il bavaglio a giornali (quali Manifesto e Avvenire) e a riviste (come Civiltà cattolica) che si mostrano restii ai suoi diktat e ai sui sermoni, spesso corredati da rosari e da vangeli, e fatti di battute sarcastiche tanto care alle masse sempre così bramose di divertente semplicità.

Già, di nuovo è il momento della Resistenza.

Perché l’Italia è un Paese in cui la Resistenza non si è mai potuta considerare un capitolo chiuso della storia.

Un Paese in cui alla guerra civile degli anni ‘40 è stata opportunamente applicata la sordina.

Nonostante la memoria storica e l’esperienza acquisita in passato (la storia per gli Italiani non è mai stata maestra di vita), incapaci di migliorare se stessi, sempre suscettibili di un odio vivo, preda di uno schietto entusiasmo per la violenza contro l’altro, contro lo straniero, contro il diverso, essi vivono nella costante attesa di un uomo, di un ‘duce’ scriveva già agli inizi degli anni Trenta Hermann Broch nei suoi Sonnambuli, anche solo di un ‘capitano’, che possa fungere in qualche modo da motivazione, ma anche da comoda giustificazione per possibili azioni che, “senza di lui”, sottolinea lo scrittore austriaco (che ha conosciuto la realtà del carcere nazista), risulterebbero senz’altro folli.

In tal senso non ha tutti i torti Rino Formica quando, a fronte dell’attuale “decomposizione” delle istituzioni italiane, del “deperimento anche delle ultime sentinelle, l’informazione, la magistratura”, in una recente intervista asserisce che “si sta creando il clima degli anni ‘30 intorno a Mussolini” (manifesto 8/8).

Ma come organizzare questa Resistenza, senza far cadere i manifestanti nelle trappole dissuasive preparate ad hoc dal ministero degli Interni con quel decreto?

Questo il compito che attende i movimenti di opposizione democratica nei prossimi giorni.

Due comunque sembrano essere le strategie per affrontare questo nuovo pericolo per la democrazia e per la Costituzione.

Una è quella che sollecita una nuova politica ‘frontista’, cioè quella che, ispirandosi allo spirito della Resistenza, pone come obiettivo primario la nascita di un fronte comune della sinistra: una sorta di “fronte umanitario” che, davanti a questa emergenza delle nuove destre, sappia riunire i partiti della sinistra o del centro-sinistra mettendo da parte le asfittiche differenze.

L’altra è quella che si pone come meta la rifondazione di un nuovo e più moderno soggetto politico che, pur non disdegnando i valori della tradizione della sinistra, sappia confrontarsi con i problemi posti dalla realtà digitalizzata e globalizzata, in cui quel pericolo si radica e si sviluppa.

Considerato il convulso precipitare degli avvenimenti, la prima auspica di raggiungere il proprio obiettivo nel breve e nel medio tempo; la seconda, con l’elaborazione di un nuovo progetto politico, prevede naturalmente tempi più lunghi.

Le due strategie sono poi reciprocamente critiche, perché mentre l’una, avendo a che fare con l’immediato e con le emergenze incalzanti del presente, non ha certo tempo da perdere nelle lunghe ed estenuanti analisi, in cui alla sinistra piace cullarsi, l’altra sottolinea il fatto che ogni tentativo di un mero assemblaggio delle forze è immancabilmente destinato al fallimento.

Per quanto metodologicamente opposte e sebbene ideologicamente convergenti, tutte e due le posizioni contengono elementi di verità.

Vero è che il pericolo è immediato e che la pianta andrebbe recisa prima del suo abbarbicarsi; ma è altrettanto vero che il problema può essere affrontato alla radice non politicamente ma culturalmente, cioè invitando gli Italiani, non solo i giovani, a studiare meno cucina e più etica, a partire soprattutto dalla lettura della Costituzione.

Perché solo così essi, non solo i cittadini comuni, ma anche quelli che essi eleggono al governo del Paese, potranno apprendere il valore etico del giuramento davanti alla Costituzione e capire cosa vuol dire, quali oneri comporta adempiere una funzione pubblica con disciplina ed onore.

Suvvia, dunque, ognuno secondo le proprie possibilità e le proprie inclinazioni, anche sull’esempio dei rilievi posti al decreto dal presidente della Repubblica, dia il proprio contributo in questo compito indifferibile, in questo nuovo progetto per un’Italia migliore.

Giuriamolo dinanzi alla Costituzione!

Venerdì, 9 agosto 2019

Sinistra

FERRARIS, DE MONTICELLI E LA CRISI DELLA SINISTRA

 

                      di Franco Di Giorgi

 

La «razionalità ambivalente del progresso (..) soddisfa nel mentre esercita il suo potere repressivo, e reprime nel mentre soddisfa» (H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, p. 130).

 

1. – Per uscire dalla crisi in cui oggi si ritrova, la sinistra, secondo Maurizio Ferraris, non dovrebbe più tanto occuparsi della «socializzazione del plusvalore del capitale industriale» – questo compito, secondo l’ontologista torinese, essa lo avrebbe già pienamente assolto nel ventesimo secolo –, quanto piuttosto impegnarsi a socializzare il «plusvalore del capitale documediale», ossia quello cui mettono capo i Big Data, vale a dire quelli che rilasciamo (consapevolmente o no) ogni volta che ci colleghiamo al web o usiamo lo smartphone (cfr. il manifesto 19/4).

Non si pensi però che la differenza “industriale-documediale” corrisponda al rapporto “materiale-immateriale”, perché l’epoca della documedialità – ossia l’epoca «che ha reso possibile la postverità» e in cui la documedialità consiste nell’«unione tra la forza normativa dei documenti e la pervasività dei media nell’epoca del web» – non è affatto “liquida” come supponeva Bauman, ma «è al contrario», scrive il filosofo nel suo ultimo saggio, «l’epoca più granitica della storia, anche quando il granito prende la forma, apparentemente più lieve, del silicio» (Postverità e altri enigmi, il Mulino, Bologna 2017, pp. 13, 100).

Né d’altronde tale differenza epocale (produzione industriale-produzione documediale) si potrebbe far corrispondere al rapporto “reale-virtuale”, giacché il “virtuale”, da questa prospettiva ontologica “neorealista”, ha acquisito pienamente il valore di “reale” e quindi, in stretto senso hegeliano, anche di razionale.

Con la proposta di un neorealismo filosofico, pertanto, lo studioso non intende affatto prendere le distanze dal materialismo tout court: intende solo prendere congedo dal materialismo industriale e tentare di comprendere il nuovo realismo documediale, che ha il suo ontos on, la sua cosa in sé, il nocciolo duro e inemendabile nel silicio.

Con la sua proposta neo-modernista e post-industriale egli vuole dunque contrapporre la sua ontologia realista e documediale all’ontologia irrealista ed ermeneutica che caratterizzava il postmodernismo nell’era ancora industriale. Cerca insomma di confutare, ribaltare e modificare l’assioma nietzscheano “non ci sono fatti ma solo interpretazioni” con “non ci sono interpretazioni ma solo fatti”.

Una tale proposta critica viene inoltre avanzata sulla base di una semplice percezione, secondo cui i lavoratori, intesi come produttori industriali «sono una minoranza in via di estinzione», così come lo sono la fabbrica e il lavoro inteso come attività produttiva industriale.

Si tratterebbe tuttavia di vedere fino a che punto tale constatazione sia attendibile, giacché lo studioso riporta solo tre esempi di lavoratori manuali: i rider, i raccoglitori di pomodori e i magazzinieri di Amazon; i quali, s’affretta a concludere, svolgono un lavoro che ben presto verrà svolto dai droni.

D’altro canto, secondo certi guru creativi della comunicazione come Mooly Eden, anche l’istruzione già oggi sembra essere rimasta al Medioevo a fronte delle ignote new frontiers che le nuove tecnologie spalancano per il futuro (La Stampa 17/7).

Ma se, appunto, ci atteniamo alla realtà dei fatti, ai fatti nudi e crudi, se guardiamo cioè all’oggi del nostro Paese, ci accorgiamo che – almeno, secondo il parere di alcuni studiosi – la sinistra è in crisi proprio perché è stata troppo attenta alla realtà documediale, perché ha trascurato la realtà industriale, è stata troppo incline alla finanziarizzazione del lavoro e non al lavoro in cerca di solidi finanziamenti. Se proviamo ancora a calarci nelle “tiepide” acque di quella cruda realtà, ci avvediamo con sorpresa che i lavoratori esistono ancora, e come!

Così come esistono le industrie.

Il faticoso lavoro dei sindacati è quello di attestarne l’esistenza appellandosi a uno Statuto che la sinistra cool e digitalizzata (la sinistra del modello blairiano) si è premurata irresponsabilmente di archiviare, proprio per sostenere quella digitalizzazione e quella finanziarizzazione.

A creare disoccupazione e a determinare la chiusura delle fabbriche non è poi soltanto la digitalizzazione documediale e l’automazione in generale, ma anche, come si vede ogni giorno che passa, la più rude e selvaggia delocalizzazione (si pensi solo, fra gli ultimi casi, alla Pernigotti di Novi Ligure).

A partire dagli anni ’90, proprio con le politiche ispirate alla deregulation, il concetto di operaio e l’idea stessa di fabbrica sono stati brutalmente raschiati non solo dal vocabolario della destra, ma anche sorprendentemente in quello della sinistra.

E questa sistematica abrasione ha finito con il creare quel terreno comune, traballante e insidioso, in cui cominciò a dissolversi ogni differenza tra destra e sinistra.

Dopo l’89 (con crollo del muro di Berlino) e il 1991 (con la svolta della Bolognina), il saggio di Bobbio su Destra e sinistra, che è del 1994, scorgeva ancora nel valore dell’eguaglianza la «stella polare» della sinistra.

Ma intanto durante il faccia a faccia tra Prodi e Berlusconi in occasione delle elezioni politiche del 2006 si erano potute vedere in tutta la disarmante evidenza (specie nel candidato del centro-sinistra) gli effetti deleteri di quella abrasione concettuale.

Ora, mentre per Ferraris, come si è detto, la sinistra nel ventesimo secolo ha già assolto con successo i suoi compiti, per Bobbio, essa, specie sul fronte dell’eguaglianza, «non solo non ha compiuto il proprio cammino ma lo ha appena iniziato» (Destra e sinistra, Donzelli 1994, p. 86).

E ciò, alla luce delle attuali problematiche sociali e migratorie, non può che essere vero.

Così come non può che risultare vero anche alla luce dell’idea di Ricoeur, secondo cui occorre compiere l’incompiuto della storia, facendo non storia, ma la storia, idea che ha sviluppato in un intervento del 1994 (L’Europa e la sua memoria) e che rielaborerà successivamente anche in un più ampio saggio, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, del 1998.

Ci sembra di capire, insomma, da quanto scrive Ferraris, che se la sinistra vuole recuperare il consenso perduto in questi anni, anche nelle regioni cosiddette “rosse” a favore della Lega, dovrebbe smettere di criticare l’alienazione sociale (che, per quanto detto, non avrebbe più ragion d’essere) e farsi apertamente, ossia realisticamente sostenitrice del più cieco consumismo.

Un consenso che la politica neoliberista ha spostato a destra e del quale si tratta, appunto, di comprendere bene le cause di siffatto spostamento, tra le quali compare certamente quella relativa all’allontanamento della sinistra dal suo terreno naturale, cioè dai lavoratori, dal lavoro umano e materiale.

Giacché ciò che, nonostante tutto, deve continuare a contraddistinguere la sinistra è la tutela del lavoro e dei lavoratori soprattutto in epoche di profonde trasformazioni dell’attività produttiva, mentre tipico della destra è mettere da parte quella tutela al fine di una sempre maggiore e accelerata produzione, e ciò al punto di poter fare a meno anche della componente umana del lavoro, con tutto quello che ne consegue sul piano sociale, della disuguaglianza sociale e della disparità dei diritti.

Nella delocalizzazione industriale, infatti, ai proprietari d’azienda non interessano affatto i dipendenti né tanto meno il mantenimento degli stipendi del personale, ma solo la commercializzazione dei prodotti attraverso la terziarizzazione della produzione.

Una volta riconquistato il consenso perduto e con esso quindi anche il potere, la sinistra, si arguisce dal discorso di Ferraris, dovrebbe impegnarsi a fare dei provvedimenti legislativi che abbiano come obiettivo principale la socializzazione dei Big Data e soprattutto (ecco la chiave di volta dell’idea del filosofo) la tassazione delle grandi compagnie di raccolta dei dati.

La cui conservazione o registrazione consentirebbe di poter accumulare un capitale e un nuovo plusvalore, tassando il quale si potrebbe essere in grado di finanziare il welfare del XXI secolo o di coprire, almeno in parte, il costo delle manovre finanziarie.

Ecco, dunque, l’intuizione di fondo di Ferraris per un «welfare digitale», sostenibile, ad esempio, con i 250 milioni di euro che l’Ue chiede ad Amazon non tanto e non solo per i prodotti venduti al dettaglio sulla propria piattaforma, quanto per i market place, ossia per i rivenditori terzi che utilizzano tale piattaforma…. CONTINUA

Interventi

È stato recuperato il file (grazie alla gentilezza degli operatori del Consiglio regionale del Piemonte) degli interventi in Consiglio regionale di Sergio Dalmasso nella VIII legislatura che è stato inserito nella seguente pagina: Interventi Consiglio.

Questi interventi potrebbero divenire un nuovo quaderno CIPEC, qualora continuassero.

Fra i tanti interventi si riporta di seguito l’intervento sulla proposta di legge contro le delocalizzazioni delle imprese, tema oggi molto attuale cavalcato da alcune forze politiche.

Esame proposta di legge n. 495, inerente a “Norme in materia di delocalizzazioni, incentivi alle imprese e sviluppo dell’autoimprenditorialità collettiva”

Grazie, Presidente.

Non intervengo sulle questioni elettorali, perché anche noi vorremmo capire che cosa succederà: ogni giorno ce n’è una nuova e chi ne sa più di noi dovrebbe spiegarcelo.

Questa proposta di legge sulle delocalizzazioni è stata presentata nell’anno 2007, sostanzialmente a metà legislatura.

La Presidenza ci darà atto che, a livello di Capigruppo e non solo, abbiamo chiesto cento volte di portarla all’o.d.g. in Commissione prima e quindi in Aula.

Se questo non è accaduto, è perché molto comunemente l’iter delle leggi è soggettivo e non sempre segue tempi che dovrebbero essere più oggettivi e legati ai tempi di presentazione o a criteri chiari.

Oggi siamo in un mondo sempre più diseguale. Ce ne rendiamo conto solamente quando capita qualche catastrofe, come ad Haiti, o quando il Terzo Mondo – come lo si chiamava impropriamente un tempo – ci giungono in casa: barconi di disperati rispediti a morire (ci sono filmati drammatici su quanto avviene nel deserto libico e africano).

I diritti sindacali sono molto differenziati; i salari sono molto differenziati; ancor di più i livelli di vita.
In molti Paesi non esistono i diritti sindacali; i salari medi si aggirano su cifre risibili, a parte il fatto che, anche in Italia, una percentuale sempre maggiore di lavoratori viene esclusa da tutti i diritti sindacali, come quelli sanciti dallo Statuto dei lavoratori, di cui spesso si è parlato in quest’Aula.

Ricordo, per inciso, che con le ultime norme sul processo breve – mi si dirà che sono fuori tema – i processi per morti sul lavoro vengono cancellati, non si terranno, tranne forse quello relativo alla Thyssen.

Ora siamo davanti ad un situazione in cui le imprese che intendono localizzarsi in un territorio hanno incentivi di vario genere: finanziamenti pubblici, patti territoriali, accordi di programma ed altro.

A fronte di questo, stiamo assistendo, in misura profondissima, ad una crisi che non cade dal cielo, ma è derivata da errori estremamente gravi compiuti negli ultimi anni: quel neoliberismo di cui abbiamo parlato e che a volte viene citato anche impropriamente, ma che è stato lodato in modi in termini e in forme estreme per tanti anni, ha fatto sì che in Italia non ci sia alcun strumento che riesca a cancellare e a prevenire il fenomeno della delocalizzazione.

Avvengono spesso contrattazioni in cui si limitano i danni: 500 esuberi, magari ridotti a 300 o a 250, utilizzo di ammortizzatori sociali, qualche prepensionamento ed altri espedienti di questo tipo.

A differenza di molti, non pensiamo che il confronto, a livello internazionale, con Paesi dove non esistono diritti e dove i salari sono da fame, debba avvenire riducendo i diritti e i salari di chi lavora in Italia, cosa che oggettivamente, soprattutto nel primo caso, ma parzialmente anche per il secondo, sta accadendo sempre di più.

Vorrei ricordare tanti casi che abbiamo avuto nella nostra zona, ma mi fermo ad uno: la Lactalis di Moretta.

Quante volte siamo andati, non solo i Consiglieri di Cuneo ma anche altri (la Presidente Bresso compresa) in questa fabbrica.

C’è stato l’interessamento di molti.

Si tratta di un’azienda che è arrivata dalla Francia, che ha comprato a raffica, nel nostro Paese, caseifici che appartenevano a ditte differenti, che ha mantenuto marchi come Invernizzi, Galbani e Cademartori… (quelli a cui siamo legati fin da quando eravamo ragazzini), ma che ad un certo punto ha chiuso una serie di fabbriche per andarsene dopo aver avuto forti incentivi, dopo aver avuto piani regolatori modificati, dopo aver avuto Comuni che hanno fatto salti mortali perché il lavoro potesse rimanere sul loro territorio.

Centinaia di persone sono state cacciate dopo anni di lavoro, si sono trovate in mezzo alla strada da un giorno all’altro nonostante le varie promesse fatte.

Ho sentito con interesse gli interventi del collega Giovine, del collega Vignale e del collega del Partito Democratico, Larizza.

Credo che il Consigliere Giovine parlasse di procedure e di regolamenti, tutte cose che possono essere avviate se questa legge passasse, cosa della quale purtroppo dubitiamo tutti.

Sulle considerazioni che il Consigliere Larizza ha svolto e che rispetto molto, è chiaro non sono mai le leggi scritte che di per s determinano le questioni, ma sono i rapporti di forza, le mobilitazioni, le spinte, la coscienza collettiva e la cultura in senso lato che esiste intorno alla difesa dei diritti civili e sociali, cosa che negli ultimi tempi sta scomparendo notevolmente.

Chiaro che anche nel 1970, quando si approvò lo Statuto dei lavoratori, di cui abbiamo parlato, furono fatte alcune osservazioni – il collega Larizza sicuramente le ricorda, perché era in fabbrica in quegli anni – che dicevano che questa legge sostanzialmente avrebbe congelato i rapporti di forza così come erano e sarebbe servita a poco.

Noi pensiamo che potrebbe essere uno strumento utile e lo pensiamo anche alla luce di tre fatti.
Innanzitutto la Regione Marche, ha una legge più semplice di questa e meno articolata, fatta di tre o quattro articoli, che però contiene sostanzialmente lo stesso principio contenuto nella nostra legge.

Se alcuni ritengono la legge delle Marche una bizzarria, com’è stato detto non in questo Consiglio, ma a livello politico, vorremmo sapere perché una Giunta simile come formazione alla nostra ha compiuto un atto di questo tipo.

In secondo luogo, abbiamo avuto la presenza di alcune fabbriche davanti a questo Consiglio.

Tutti i martedì ci troviamo davanti a casi drammatici: oggi, ad esempio, le persone che hanno avuto uno sfratto, altre volte le persone licenziate, fabbriche in crisi oppure i genitori che volevano una legge che è stata poi fortunatamente fatta e mille altri.

I genitori separati chiedevano sostanzialmente che questa legge passasse, perché la vedevano come uno strumento utile.

Come terza questione, vi sono anche alcuni Consigli comunali – e noi purtroppo, come sapete, non abbiamo maggioranze in Consigli comunali e provinciali – che hanno chiesto che questa legge o una legge che contenga questi principi possa passare.

Sono queste le motivazioni e rinunceremo alla dichiarazione di voto, a meno di fatti nuovi, che fanno sì che noi speriamo ed auspichiamo che non solo ci sia una discussione, ma che alcuni Consiglieri votino liberamente al di là dei vincoli elettorali e delle “discipline di partito”.

Da parte nostra, l’abbiamo presentata tre anni fa, quindi non credo che sia una manovretta o una marchetta elettorale.

Sergio Dalmasso

Noa

 

Noa, la violenza e la forza della vitaNOA, LA VIOLENZA E LA FORZA DELLA VITA

 

di Franco Di Giorgi

 

La violenza è all’origine e quindi a fondamento della civiltà.

Essa veniva esercitata dal padre che possedeva tutte le donne che desiderava imponendo il proprio dominio all’interno dell’orda primitiva.

Noa Pothoven suicida

Se, nonostante il progresso dell’umanità, abbiamo ancora a che fare con essa, persino nella stessa forma arcaica, vuol dire che la violenza è inemendabile.

Gli stupri, anche quelli sistematici, sono ancora all’ordine del giorno.

Basta guardarsi attorno.

La storia è piena di abusi, di abusati e di abusanti.

Da ogni parte si moltiplicano le vittime e i carnefici.

In tutte le sue possibili manifestazioni, la violenza prolifica sotto i nostri occhi.

Attecchisce sotto i nostri piedi come erba infestante di cui i figli più odiosi di quei lontani dominatori posseggono i semi.

Essa si è talmente rarefatta e assottigliata che si può persino respirare nell’aria.

Difficile, per non dire impossibile, riuscire a non assimilarla.

Ci viene subdolamente servita attraverso il web e somministrata a dosi massicce dai media, in ogni istante della nostra giornata.

I nostri sensi e la nostra mente vengono continuamente offesi, aggrediti, assediati.

Non sembra esserci via di scampo alla violenza.

Ciò malgrado, l’umanità non si è mai arresa alla violenza.

Anzi, per limitarla e per limitarne l’inevitabile distruttività, e con essa anche l’insostenibile portata di dolore, ne ha fatto il racconto base della sua storia, il basso continuo della sua tragedia, il comune denominatore di tutti gli ambiti del sapere, di tutta la cultura.

Giacché quella che chiamiamo “cultura” altro non è che “coltura”, ossia coltivazione dell’animo umano per poter meglio gestire la violenza.

Come non c’è violenza senza umanità, così non c’è umanità e cultura umana senza violenza.

Da questa prospettiva l’umanesimo si configura come una tendenza della cultura umana il cui fine è il perfezionamento dell’arte di raccontare la violenza e dei modi mediante cui essa può venire sublimata.

Il teatro e le arti erano sorti proprio per questo scopo catartico.

La civiltà dei diritti e dei doveri si afferma per evitare la violenza, lo stesso cristianesimo nasce con un atto di estrema violenza, con la crocefissione.

La sostanza dei miti, anche di quelli biblici, è violenza allo stato puro.

Eppure, questa innata tendenza degli esseri umani all’autodistruzione e alla reciproca violazione non potrebbe essere arginata se non intervenisse la vita con i suoi miracolosi rimedi.

La misteriosa potenza della vita risiede nel fatto che, anche quando viene violentata in uno dei suoi esseri più puri, riesce sempre in qualche modo a sopravvivere.

Anche quando risulta impossibile vivere, la forza della vita si impone sulla morte e, se non le si impedisse di esprimere una tale forza, essa continuerebbe ad affermarsi malgrado tutto; troverebbe sempre delle vie per sopportare il dolore, anche quello più cupo e insoffribile che ogni ferita, visibile o invisibile, comporta.

La vita infatti si afferma anche quando assume le sembianze di un processo irreversibile che conduce l’essere, più o meno rapidamente e comunque inesorabilmente, alla consunzione e all’estinzione; oppure quando viene inspiegabilmente ricoperta, ottenebrata e soffocata da un male oscuro.

Anzi, paradossalmente, talvolta si rileva che proprio in questi casi estremi, proprio quando sta per estinguersi e per esaurirsi in un corpo annichilito nella sua forma sostanziale, la vita si rivela al vivente, all’ancora vivente, in tutta la sua enigmatica pregnanza.

Nell’essere vivente umano, infatti, essa raggiunge uno dei gradi più alti della coscienza di sé. L’uomo, che è vita cosciente, si sente vivere e si sente quindi anche morire.

E in ciò prova il piacere del vivere e il dolore del morire.

Ma quando viene violentato, offeso, torturato, umiliato, questa duplice esperienza della vita viene sconvolta e mutata: egli prova allora solo dolore nel vivere e piacere nel morire.

È il caso di Noa Pothoven.

Nel suo caso la violenza ha turbato in profondità non solo la sua vita personale, ma anche la vita in sé. “Respiro, – diceva la diciassettenne olandese – ma non sono più viva”.

È come se la violenza avesse in lei, attraverso lei, non spenta, ma solo attenuata per un istante la forza propria della vita, a causa di cui anche tutti noi avvertiamo di essere più deboli, meno vitali, più inclini alla morte, ancora meno pronti nella sua attesa e al suo sempre imprevedibile sopraggiungere.

Tuttavia, più che la decisione eutanasica della singola persona, ancorché giovane – una scelta particolare la sua, resa però possibile da una scelta generale che ha portato nel 2002 e poi nel 2004 in Olanda a una legge che la consente – quello che in questo caso ci ha maggiormente impressionati e turbati è stata propriamente l’attenuazione dell’energia vitale universale.

Come se, attraverso la decisione di quella ragazza, avessimo appreso che la vita, a causa di quella violenta ferita subita da entrambe, si fosse per qualche momento arresa, avesse perso ancora una parte di quella forza originaria che le è intrinseca.

Una forza che, sebbene diminuita, le rimane comunque coessenziale, e grazie alla quale riesce quasi sempre a trasformare la liberazione della morte in liberazione dalla morte; riesce insomma assieme a tutti noi e a tutti gli esseri che vivono sulla Terra, non a cedere o a desistere, ma a incedere e a resistere, a contrapporsi e a convivere con la morte.

Attraverso quella decisione di Noa, infine, è come se la potenza della vita avesse perso anche parte del suo mistero, del suo fascino enigmatico con cui da sempre, come un’eterna amata, ci attrae e ci lega ad essa, al punto che non vorremmo lasciarla mai.

13 giugno 2019

Analisi voto europee

Analisi a caldo del voto europeo della lista “la sinistra”

Un (lungo) ragionamento sull’ennesima sconfitta politica- sociale- elettorale.

 

Non ho mai avuto alcuna speranza su un risultato positivo della lista alle europee.

– Costruita tardi.

– con rottura in una piccola area.

– con candidature belle e ricche, ma del tutto sconosciute.

– con un programma ampio, ma privo di una idea forte, centrale, che permetta di identificarsi in un progetto (Salvini: ordine, migrazione, Silvio: Tasse, Grillo: onestà, PD opposizione al sovranismo, Verdi: ambiente…).

Ricordo che gli animalisti hanno la metà dei nostri voti e in Francia sono pari al PCF.

– con assenza di una figura centrale, in una politica stupidamente personalizzata (si guardi il dato di Bonino).

A questo si aggiungono errori frontali:

– assenza di un lavoro comune nel periodo (non un mese) precedente le elezioni

– proposta di “ingresso, fusione, federazione(?) con PaP, con invito, per settimane, ad iscriversi e poi improvviso “Contrordine compagni”.

– polemiche inutili e incomprensibili. La lettera di Acerbo su PaP era corretta formalmente, ma errore frontale perché ha accresciuto l’immagine di formazioni rissose che discutono su temi del tutto incomprensibili ai comuni mortali.

– Modificazione di simbolo ad ogni scadenza, almeno dieci diversi negli ultimi anni, con totale disorientamento anche dei/delle più fedel* e volenteros*.

– Assenza, in questo, di elementi di identità, legati alla nostra storia.

Lo avevo detto, lo scorso anno per PaP (simbolo e nome che ripeteva- per i vecchi- gli errori di NSU), lo ho proposto quest’anno chiedendo che nella parte bassa fossero inseriti i simboli di Rifo, SI, Altra Europa.

Si rifletta, vedendo anche il risultato del PC di Rizzo.

– L’errore totale di formazioni e gruppi che sono rimasti sull’Aventino e non hanno compreso il peso di una ennesima sconfitta, non cancella errori e logiche gravissime.

Resta il dato drammatico – che ha colpito anche il PC francese – di una campagna elettorale non egualitaria, con giornali e TV asserviti alle forze maggiori.

Il 90% di chi ha votato non ha neanche saputo della nostra esistenza.

Non ne abbiamo la forza, ma la prima questione sarebbe chiedere una reale “par condicio” su tutte le reti TV.

E’ difficile, ovviamente, reggere dopo una ennesima sconfitta e la depressione che produce.

Piccole ipotesi:

– non sfasciare quella parziale unità che si è costruita (tardi e male), ma allargarla e proiettarla sulle prossime scadenze.

– proporre un accordo sui temi centrali (lavoro, questione sociale, ambiente, difesa degli spazi democratici, questioni internazionali) alle formazioni politiche, sociali, culturali che non intendono cancellare una storia e una presenza che tanto ha dato al nostro paese.

– non ripetere l’errore letale di cinque anni fa, quando dopo il 4% miracolosamente raggiunto e le speranze suscitate, l’unità si è spezzata (credo che SEL- SI dovrebbe battersi il petto).

Avere il discorso dell’unità e di una discussione aperta, ma non paralizzante, come centro di tutte le nostre iniziative, a cominciare dalle piccole feste (anche se nulla abbiamo da festeggiare).

Occorre, in loco, cominciare subito con una assemblea aperta.

– Non disperdere, come troppe volte si è fatto, le poche energie raccolte, a cominciare dai firmatari dell’appello.

La realtà che viviamo è tremenda: in Francia è in testa l’erede della repubblica di Vichy, nell’est Europa dominano le forze reazionarie, razziste, antisemite (qualcun* dovrebbe riflettere sui danni indotti da 40 anni di socialismo reale), in Spagna, forze nostalgiche del franchismo spingono a destra la destra classica, in Italia la Lega interpreta le peggiori tendenze e paure del paese (una nuova “autobiografia della nazione”), raccogliendo egemonicamente il voto popolare, il fascismo è sdoganato, in una divisione di compiti tra governo e opposizione (Casa Pound).

Senza una sinistra capace e propositiva , che riparta dai fondamentali, la necessità di opporsi alla destra non uscirà dai limiti di esperienze precedenti.

Il fallimento del centro- sinistra in Italia, dei governi socialisti in Francia (per non parlare della Grecia) ripropone questa necessità di cui parliamo da anni.

Credo che ogni volta sia più difficile e faticoso, ma occorrerebbe discuterne.

Chiedo scusa se lo sproloquio è troppo lungo e ringrazio chi ha avuto la forza e il coraggio di arrivare sino in fondo.

Sergio Dalmasso

Facebook, 27 maggio 2019

 

 

Attentati Sri Lanka

Gli attentati in Sri Lanka e la damnation dell’autodistruttività umana

 

di Franco Di Giorgi

Ieri (manifesto del 20 aprile 2019), con la cattedrale di Notre Dame ancora in fiamme, abbiamo espresso tutto il nostro stupore per l’ingente profferta subito sopraggiunta da tutto il mondo per la ricostruzione del tetto di quel luogo sacro: quel gesto ci aveva turbato perché ci era parso significasse che per gli uomini le cose sacre abbiano un valore superiore a quello delle stesse vite umane.

Oggi, a pochi giorni da quell’“incidente” parigino, dopo gli attentati in Sri Lanka, in luoghi altrettanto sacri ma certo meno carichi di valore simbolico, siamo costretti a rivedere e anzi a ribaltare il nostro giudizio.

Oggi crediamo che il significato di quel gesto generoso non sia del tutto infondato, proprio in ragione della distruttività e soprattutto dell’autodistruttività umana.

Infatti, mentre da un lato l’uomo, con la sua capacità distruttiva e colpevole svalorizza sia le sue stesse creazioni sia il mondo e la natura che le accoglie, dall’altro lato i luoghi del mondo, che l’uomo stesso ha reso sacri proprio in virtù delle sue credenze e delle sue creazioni, ebbene questi luoghi, in tutta la loro meravigliosa e silente innocenza, cercano al contrario di testimoniare nei secoli il valore dell’uomo.

Anche il senso della damnation a questo punto muta.

Diviene molteplice: non riguarda più soltanto l’inferiorità dell’uomo rispetto alle cose, né solo la distruzione delle cose o solo l’autodistruzione dell’uomo; riguarda anche il fatto che con la sua innata distruttività, distruggendo le sue stesse opere, esso non fa altro che distruggere se stesso.

Ciò pertanto induce a rivedere anche la teoria spinoziana del conatus, secondo cui l’essenza di ogni essente consiste nello sforzo di mantenersi nel suo essere.

25 maggio 2019

 

Attentati Sri Lanka

Gli attentati in Sri Lanka e la damnation dell’autodistruttività umana

Libertà di insegnamento

La crisi delle istituzioni e la libertà di insegnamento

 

di Franco Di Giorgi

Libertà di insegnamento

Alle Istituzioni di un Paese alle prese con una crisi sistemica (propria cioè del sistema capitalistico) che non sa come fronteggiare e che non riesce strutturalmente a risolvere e a superare (una crisi che lo relega ormai da più di un decennio fra gli ultimissimi posti tra gli Stati membri dell’Unione europea), di un Paese che non sembra visibilmente capace di uscire dalla recessione in cui quella crisi l’ha gettata, soprattutto per l’enorme peso del debito pubblico accumulato e che continua ad accumulare;

a queste Istituzioni che, proprio a causa della loro inettitudine gestionale e soprattutto progettuale, vengono da tempo irrise e sbeffeggiate sia dalle loro omologhe europee sia dalla stessa cittadinanza mugugnante di cui dovrebbe occuparsi, specie quando si atteggiano e si incarnano in figure come quella del “cavaliere della libertà” o del “capitano di ventura” e in ogni caso in quella del “Robin Hood” al contrario;

ebbene, a queste Istituzioni così piene di livore verso se stesse in ragione proprio di questa loro inabilità, a cui non resta che fare i forti con i deboli, a queste Istituzioni, insomma, viene spontaneo punire la classe degli insegnanti.

Perché dopo aver ridotto quasi al silenzio operai e pensionati, con i loro rispettivi sindacati, depotenziata e impoverita la classe media, stanno tentando da un po’ di tempo a questa parte (almeno dall’inizio del nuovo millennio, piano piano, un po’ alla volta, per non lasciar intravedere il disegno demolitivo e disintegrante) di spegnere il libero pensiero critico nei giovani, nei cosiddetti “millennials”, e quindi, ovviamente, principalmente nelle scuole:

stanno in altre parole cercando di cancellare quella stessa libertà di insegnamento e di formazione che la nostra Costituzione sancisce all’articolo 33.

Giacché è qui, è solo qui, nelle scuole, che nonostante tutto, nonostante cioè il loro sfascio ormai manifesto, il loro lento ma inesorabile deragliamento, è soltanto qui, nelle scuole, che sopravvive a fatica la possibilità di progettare e costruire il futuro di un qualsiasi Paese, è solamente qui che si formano individui pensanti e cittadini consapevoli.

Senza dei quali non resta che la squallida miseria del presente, che è prodotto o dell’assenza atrofica o dell’eccesso ipertrofico di memoria, è prodotto dello svuotamento dei contenuti progettuali per il futuro, cioè della stessa possibilità di concepire e di immaginare un futuro.

Le Istituzioni sanno bene dell’esistenza e delle potenzialità insite in questa libertà che la Costituzione (frutto della Resistenza) prevede e conferisce all’insegnamento e alla scuola.

Ed è per questo che, anche con il pretesto spiazzante dell’inarrestabile rivoluzione tecnologica, vorrebbero spegnerla. C’è dell’incompiuto, diremmo con Paul Ricoeur, nella nostra Resistenza, nella nostra Costituzione, come pure nel nostro ’68.

Un incompiuto che andrebbe compiuto.

In questo senso, diceva, il filosofo francese, bisogna fare non solo storia, ma fare la storia: bisogna compiere la storia incompiuta.

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Articolo 33 della Costituzione italiana:

L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento.

La Repubblica detta le norme generali sulla istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi.

Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.

La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad essa piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali.

È prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale.

Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato.

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p.s. Su “Scenari di Mimesis” potete trovare invece un mio lungo commento (in due parti) alla serata eporediese che Cacciari ha dedicato al tema dell’Europa.

 

 

 

Cittadinanza onoraria Marcello Martini

cittadinanza onoraria Marcello Martini

Doverosa la cittadinanza onoraria a Marcello Martini

Franco Di Giorgi

 

Il 4 maggio il Comune di Castellamonte ha conferito a Marcello Martini – deportato nel Lager di Mauthausen – la cittadinanza onoraria.

Un tale conferimento a persone come lui andava fatto non solo in segno di rispetto per quello che, assieme a tanti altri innocenti, ha subito in quei luoghi di tortura e di morte che solo l’altro ieri infestavano ed erano attivi in diversi Stati dell’Europa civilizzata (compresa l’Italia), ma soprattutto per un senso del dovere, per quello che egli è e per quello che ancora rappresenta nella storia del vecchio continente.

Per questa storia Marcello è e rappresenta un mártyros, ossia colui che nella lingua greca incarna ad un tempo il “martire” e il “testimone”.

Come tale, egli è una di quelle numerosissime vittime che rappresenta o ri-presenta (nel senso che ci fa ricordare) quella deviazione o aberrazione che solo una settantina di anni fa una certa quota di esseri umani aveva impresso all’umanità nel segno dell’annientamento, della distruzione e dell’autodistruzione.

In una parola, nel segno della Vernichtung o della Shoah.

Più che di un errore si era trattato infatti di un erramento, di un’erranza da un solco che fino a quel momento l’umanità aveva tracciato e coltivato per cercare di dare un senso a una delle domande più originarie e più profonde: “verso dove andiamo?”.

Con i propri occhi egli ha visto e sulla propria pelle ha sentito la Gewalt, la violenza tremenda che era stata necessaria per fare deragliare l’umanità da quel solco e per farla precipitare nella più squallida abiezione.

Gli esseri umani, infatti, ricordava Liana Millu (un’altra deportata, ma nel campo di Auschwitz), una volta sfruttati, venivano gettati via come degli obiecta, come degli oggetti, come delle cose, come delle sedie che, una volta rotte, si buttano via.

Si facevano delle cataste e poi vi si dava fuoco.

Per questo motivo la martyría, la testimonianza degli scampati al Nulla, al Nicht, è sacra, perché il loro martýrion, la loro esperienza vissuta e patita, per quanta passione essi mettano nei loro racconti e per quanta attenzione facciano coloro che li ascoltano, lo rammentavano amaramente sia Wiesel sia Améry, è difficile da dire e quindi da tramandare.

Le parole infatti, confessava lo stesso Primo Levi, funzionano male sia «per cattiva ricezione», «sia per cattiva trasmissione».

Questa confessione compare nella Prefazione che Alberto Cavaglion ha scritto per la pubblicazione della testimonianza di Martini: Un adolescente in Lager.

Ciò che gli occhi tuoi hanno visto (Giuntina, 2007). Il significato di questo sottotitolo è equivalente al titolo della prima testimonianza di Levi, Se questo è un uomo.

Vale a dire: gli occhi del quattordicenne Marcello (nato a Prato nel 1930, catturato il 9 giugno del 1944 e liberato il 5 maggio 1945) hanno visto e vissuto tutto il valore dubitativo implicito in quel “Se”: se questo è un uomo, com’è allora che egli può compiere sugli altri uomini quello che ha compiuto?

Com’è che, sebbene in modalità diverse, continua ancora a compiere?

E inoltre, quanto doveva odiare se stesso se, per quanto in generale di formazione cristiana, aveva messo da parte il principio “Ama il prossimo tuo come te stesso”?

È su questo dubbio atroce che si dovrebbe riflettere in maniera adeguata, e non solo in occasione della Giornata della Memoria. L’attualità (non solo politica), poi, ce ne dà quotidianamente spunto.

9 maggio 2019

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Doverosa la cittadinanza onoraria a Marcello Martini:

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