IL LAVORATORE

Pubblicato nel periodico di Trieste Il Lavoratore il mio scritto sul volume Lucio LIBERTINI.


In “Il Lavoratore”, dicembre 2020, Trieste.

Sergio Dalmasso, LUCIO LIBERTINI, lungo viaggio nella sinistra italiana, Milano, ed. Punto rosso, 2020.

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Nei suoi ultimi anni, Lucio Libertini (Catania 1922- Roma 1993) aveva intenzione di scrivere la propria biografia politica, Lungo viaggio nella sinistra italiana.Libro di Sergio DALMASSO su Lucio Libertini

I pressanti impegni politici (tutt* ricordano la sua generosità) e la morte improvvisa (agosto 1993) hanno impedito che il testo andasse oltre le prime pagine ed un schema, scritto a mano.

Il mio libro non è una tradizionale biografia. Mancano totalmente dati sulla vita personale (ambiente famigliare, studi, adolescenza, gioventù…).

Inoltre, la chiusura di biblioteche ed archivi, causa Covid, mi ha impedito, al momento della stesura definitiva, di accedere ad alcuni documenti che avrei voluto consultare.

Ho tentato di scrivere una “storia” interamente politica seguendo lo schema e l’impostazione che lo stesso Libertini avrebbe voluto offrire.

Libertini ha fatto parte, dal 1944, di molte formazioni. La prima è, per brevissimo tempo, quella dei demolaburisti (Bonomi, Ruini) di cui parlava con molta reticenza e da cui esce, dopo pochi mesi, con i giovani, vicini alle posizioni, europeiste e federaliste, del socialista Eugenio Colorni.

Quindi, nel PSI, la corrente di Iniziativa socialista, che tenta con mille difficoltà e contraddizioni, di non appiattirsi sulle due opzioni maggioritarie, quella filosovietica e frontista e quella tradizionalmente riformista.

L’equilibrio è difficile, contraddittorio, proprio di giovani privi di esperienza politica e schiacciati dalla morsa della bipolarizzazione del mondo e, conseguentemente, degli schieramenti politici nazionali.

L’approdo è la scissione socialdemocratica di Saragat (gennaio 1947) nel tentativo di costruzione di una forza socialista autonoma fra i due blocchi.

La scelta governista e atlantista di Saragat e il suo progressivo abbandono dell’ipotesi di “socialismo dei ceti medi” e di un “umanesimo marxista”, proprio del suo pensiero negli anni ’30, produce una diaspora nel gruppo di Iniziativa.

Libertini, dopo una battaglia interna che tenta di rilanciare una ipotesi autonoma, ma che è sconfitta dall’apparato socialdemocratico, lascia (1949) il nuovo partito.

Dal 1951 al 1957, la partecipazione all’Unione socialisti indipendenti (USI), la formazione di Magnani e Cucchi, usciti dal PCI sulle posizioni di una “via nazionale”, considerata tradizionalmente una sorta di eresia “titina”, ma capace di posizioni originali sulla politica internazionale, l’autonomia sindacale, il rifiuto dei blocchi.

Nel 1957, dopo i fatti del 1956 (denuncia del culto di Stalin, repressione dei moti ungheresi …) l’USI confluisce nel PSI.

E’ la scelta per la sinistra del partito, contraria all’accordo di governo con la DC, ma soprattutto del rapporto organico con Raniero Panzieri che produce la migliore stagione della rivista “Mondo operaio” e le Sette tesi sul controllo operaio,

il documento più organico di una sinistra diversa da quella maggioritaria (Togliatti e Nenni), che vede nella centralità operaia e nell’”uscita a sinistra” dallo stalinismo, il cardine per la costruzione dell’egemonia del movimento operaio,

in una fase di profonda modificazione della struttura economica nazionale (inserimento dell’Italia nel capitalismo avanzato, crescita industriale, migrazione interna…).

Le sue capacità giornalistiche lo portano ad essere direttore del periodico della sinistra “Mondo nuovo” (lo era stato anche del settimanale dell’USI, “Risorgimento socialista”).

L’ingresso del PSI nei governi di centro-sinistra produce una nuova scissione e la formazione del PSIUP, di cui è fondatore, dirigente e in cui assume posizioni di sinistra, critiche verso le opzioni maggioritarie (Due strategie), sia sulle ipotesi nazionali (critica frontale al centro-sinistra,

alla socialdemocratizzazione, ai progressivi spostamenti del PCI), sia su quelle internazionali (critica al socialismo realizzato, attenzione alle esperienze rivoluzionarie nel “terzo mondo”).

Alla scomparsa di questo (1972), la scelta è per il PCI, formazione che maggiormente esprime istanze operaie e popolari.

Non rinnega le esperienze passate, ma ne coglie criticamente, il minoritarismo, l’inefficacia.

Dopo un ostracismo iniziale, in cui paga le posizioni eterodosse lungamente espresse, è vice-presidente della Giunta regionale piemontese, parlamentare, responsabile nazionale della commissione trasporti.

Negli anni dell’”unità nazionale” è continua la sua preoccupazione di un progressivo distacco rispetto alle istanze di base, ai bisogni popolari che non possono essere immolati sull’altare degli accordi politici.

Tra il 1989 e il 1991, l’opposizione alle scelte di Occhetto (la Bolognina) e la fondazione di Rifondazione.
E’ il primo capogruppo al Senato, instancabile organizzatore.

Può sembrare contraddittorio il suo avvicinamento a Cossutta, nello scontro interno che porta alla sostituzione, come segretario, di Sergio Garavini (luglio 1993).

Al di là delle banali accuse di “scissionismo”, di “globe trotter” della politica”, stupidamente presenti in molti commenti seguiti alla sua scomparsa e colpevolmente al centro di un comizio di Occhetto ai cancelli della FIAT (1992),

Libertini ha sempre rivendicato una linearità e una coerenza, segnata dal rifiuto dei blocchi, dalla critica allo stalinismo, dalla ricerca di una sinistra popolare ed autonoma.

Rifondazione esprimeva la continuità di un impegno, la certezza nel futuro della prospettiva comunista, oggi minoritaria,

ma storicamente vincente, la possibilità di ricostruire un rapporto di massa con i grandi settori popolari, davanti al ritorno della destra e alla semplificazione autoritaria portata dal sistema elettorale maggioritario.

Il libro ricostruisce questo percorso, i suoi molti scritti, “eresie” dimenticate, dibattiti, scelte generose,

anche se minoritarie, figure della sinistra maggioritaria e di un’altra, spesso emarginata (Magnani, Codignola, Maitan, Panzieri, Ferraris…),

sconfitta, ma capace di contributi e di analisi sulla realtà nazionale e internazionale, le sue trasformazioni, le prospettive.

In appendice, i suoi scritti sulla rivista “La Sinistra” (1966-1967) che sarà oggetto di un mio prossimo opuscolo e una testimonianza di Luigi Vinci.

Attraverso una figura lineare e coerente, il testo ripercorre mezzo secolo della nostra storia, di successi, errori, scacchi, potenzialità, occasioni mancate dell’intera sinistra italiana.

Non è un caso che, in un supplemento di “Liberazione”, a lui dedicato, poco dopo la sua morte, il grande storico Enzo Santarelli, ne ripercorresse soprattutto le pagine meno note, ormai perse nel tempo, forse quelle, che pur non maggioritarie, meglio delineano questa personalità che il mio libro tenta di riportare all’attenzione

Spero che i mesi prossimi permettano presentazioni, discussioni, critiche, ad oggi impedite dal Covid, su queste pagine.

Sergio Dalmasso

 

Indice dei nomi

 

Addio Lidia Menapace

di Sergio Dalmasso

Ho incontrato, per la prima volta Lidia Menapace a Roma, nel luglio 1970, ad una delle prime assemblee nazionali del Manifesto.

Eravamo partiti da Genova, viaggiando di notte (le cuccette erano un lusso impossibile) in treno, Giacomo Casarino ed io, arrivando a Roma, morti di sonno, in una giornata caldissima di luglio.

Morta Lidia Menapace 7 dicembre 2020Ci era stata consegnata la prima stesura delle “Tesi sul comunismo”, in una assemblea che si sarebbe dovuta svolgere a piazza del Grillo, ma data la partecipazione, si svolse a Montesacro.

Lidia era la più simpatica, la più disponibile fra i/le dirigenti che, a noi ventenni, sembravano di altra età, generazione, formazione e incutevano rispetto (Natoli, Rossanda…).

Quando si telefonava a Roma per chiedere che qualcun* partecipasse a dibattiti, incontri… arrivava sempre Lidia, puntualissima, precisissima.

Decine di riunioni della commissione scuola (ricordate le critiche ai “decreti Malfatti”?, poi il referendum per difendere il divorzio.

Ancora lei, dappertutto.

Ai temi usuali, il Manifesto aggiungeva tematiche insolite e originali, riprendendo riflessione dell’UDI sulla famiglia, il ruolo della donna; Lidia, per la sua formazione cattolica e democristiana era anche tramite con comunità di base, settori allora attivissimi su questo e altri temi.

Rimase stupita quando ad Alba (Cuneo), la sala prenotata si dimostrò troppo piccola per la partecipazione enorme e fummo messi in una palestra. Lo racconto sul “manifesto”.

Poi l’ennesima scissione, DP e PdUP, il suo ruolo di consigliera regionale nel Lazio, i suoi articoli e libri, le migliaia di assemblee, incontri su scuola, pace/guerra, il no al servizio militare per le donne, l’originalità e centralità della tematica di genere che spesso, a sinistra, veniva ridotta a servizi sociali, maternità, asili…

Nei primi anni di questo secolo, l’avvicinamento e poi l’iscrizione a Rifondazione. Incontri dappertutto, pur in una situazione difficilissima, partecipazione a convegni, direttorA (non voleva il termine direttrice che le ricordava le scuole elementari) della prima “Su la testa,” rivista mensile, consigliera provinciale (dopo due consigli regionali e il Senato!) a Novara, città in cui era nata.

A più di 90 anni era sempre in moto, in treno, dalla sua Bolzano nell’Italia intera per collettivi di donne, associazioni pacifiste, ambientaliste, per l’ANPI di cui era dirigente nazionale: “Sono ex insegnante, ex senatrice, ma sempre partigiana”.

Tre aneddoti:

– 2004. Abbiamo un incontro pubblico con lei, a Cuneo. Leggo su “Liberazione” della morte del marito. Le scrivo dicendole che possiamo annullarlo, che non si faccia obblighi con noi. Risposta: “Arriverò. Alla mia età, se ci si ferma, non si riparte più”.

– 2010: per le elezioni regionali piemontesi, nostra assemblea a Bra, città sede di uno dei più attivi e capaci circoli del vecchio PdUP. Era convinta che tant* sarebbero venuti a rivederla, salutarla, dopo una militanza comune, di anni. Neppure un*. Il deserto. Era rimasta molto addolorata e colpita. Non uso aggettivi e tristi considerazioni antropologiche sul settarismo di “sinistra”.

– 2016. per il compleanno di Rosa Luxemburg, a Cuneo, viene fondato un circolo Arci che prende il suo nome. Mi viene chiesta una relazione su vita ed opere. Al dibattito partecipa anche Lidia (per me un onore).

Al termine mi dice di mettere per scritto quanto ho detto. Lei avrebbe aggiunto un suo testo e ne sarebbe nato un libro, a quattro mani, per l’editore Manni. Altro onore per me. Scrivo, diligentemente il mio compitino. Il suo testo non arriverà mai, nonostante, lettere, e-mail, telefonate…

Dopo due anni e mezzo alla “critica roditrice del computer”, “Una donna chiamata rivoluzione” uscirà presso la Redstarpress che ancora ringrazio.

Mesi fa se ne è andata Rossana Rossanda. Prima di lei Natoli, Pintor, Magri, vinto anche dalla sconfitta politica e da un mondo in cui non si riconosceva più. È il nostro passato che ci lascia, in una realtà sempre più drammatica.

Lidia Menapace negli anni Sessanta

Essere stato amico di Lidia e avere condiviso tratti di percorso con lei è stato per me (e non solo) molto bello ed importante.

Con affetto.

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Ibsen Mimesis

 

 

Intervista a Franco Di Giorgi

di Domenico Capano

FRANCO DI GIORGI, Il dramma dell’esistenza mancata. Dell’esser sé stessi e della falsificazione. Saggio su Ibsen (Mimesis, 2020, 316 pagg.).

Professor Di Giorgi, dopo il suo corposo lavoro su Giobbe (Giobbe e gli altri, del 2016), dopo il saggio in cui ha avuto modo di riflettere sul vangelo apocrifo di Tommaso (Il Luogo della Vita, del 2018) e quello su San Paolo, Hodòs eirènes. Il “sentiero della pace” nelle lettere paoline (del 2019), ora è uscito per Mimesis questo nuovo saggio su Ibsen, Il dramma dell’esistenza mancata. Dell’essere sé stessi e della falsificazione. Ce ne vuole parlare? A cosa si deve il titolo?

Ibsen Mimesis di Franco Di Giorgi Il titolo di questo mio saggio – Il dramma dell’esistenza mancata – trae spunto in generale dai drammi di Ibsen e in particolare dal titolo di un’opera di Ludwig Binswanger, Tre forme di esistenza mancata, del 1956. Nel 1949 però Binswanger aveva già pubblicato un altro scritto, sempre sull’autore norvegese: Henrik Ibsen. La realizzazione di sé nell’arte. Binswanger è uno psichiatra svizzero che ha sviluppato un’antropoanalisi ispirandosi all’analitica esistenziale svolta da Heidegger in Essere e tempo, nel 1927. La tesi di questo studioso è che forme di esistenza mancata come la stramberia, la fissazione e il manierismo non si debbono necessariamente ridurre solo a semplici patologie, ma si possono anche considerare come delle possibilità esistenziali, dei modi di vivere. Egli ravvisa infatti la fissazione in uno dei personaggi di Ibsen più rappresentativi, più noti e più rappresentati, Il costruttore Solness (1892), uno dei drammi della maturità ibseniana, scritti in patria, in Norvegia, dopo aver vissuto e lavorato per molti anni, per 27 anni, all’estero, in Italia (Roma) e in Germania (Dresda e Monaco).

In che cosa consiste esattamente l’esistenza mancata?

L’esistenza mancata è una categoria esistenziale che, secondo una certa gradualità, si attaglia a molti dei personaggi ibseniani, il cui travaglio, la cui condizione costituisce la sostanza della drammi di Ibsen. L’esistenza mancata viene vissuta come imperfezione, errore ed erranza, come vita deviata, sbagliata, non colta appieno, non vissuta in modo autentico. C’è un termine paolino che la definisce bene, l’hamartía, il peccato.

Per poter comprendere la condizione esistenziale travagliata di questi personaggi – nei quali si riflette anche la nostra attuale condizione – occorre distinguere il concetto di esistenza in ex-sistenza e in vivere. Nella prima vi è la consapevolezza dell’essere nel mondo, nel secondo no.

Il dramma dell’esistenza mancata prorompe nei personaggi ibseniani quando prendono coscienza della loro condizione. Questa consapevolezza è presente solo in alcuni di essi: ad esempio in Skule ne I pretendenti al trono (1864), in Bernick ne I pilastri della società (1877), nella stessa Nora de La casa di una bambola (1879); ma la maggioranza di essi vive e si lascia vivere senza preoccuparsi della propria vita, anzi cerca in tutti i modi di non preoccuparsene, come ad esempio Hjalmar nell’Anitra selvatica (1886). I più coscienti sono quelli che vogliono instaurare un rapporto veritativo con sé stessi; gli altri, pur di vivere o di sopravvivere, cercano in tutti i modi, come già osservavano Pascal e Kierkegaard, di dimenticarsi del sé stessi, cioè della propria vita.

Occorre distinguere infatti anche tra propria vita, che è quella autentica del Sé stesso; vita propria, che è la vita in sé, intesa come processo; e vita impropria, che è quella vissuta falsamente e in modo inautentico dai più, e quindi una non-vita, una vita falsa.

Ma occorre distinguere altresì pure all’interno del medesimo in-dividuo, nel quale sono compresenti un Sé stesso, perlopiù relegato a utopia se non a atopia, e un Io, un’istanza che pur di sopravvivere, si rende disponibile a obliare il vero Sé stesso e ad assumere qualità e ruoli che non gli sono affatto propri. Da qui, da questa duplicità interiore vissuta nei consapevoli come lacerazione, il motivo per cui nel saggio il termine in-dividuo compare sempre con il trattino in mezzo. In molti di questi Io, ad esempio in Hjalmar, l’oblio del Sé stesso, diviene addirittura una seconda natura, in alcuni altri, invece, nei pochi, ad esempio in Skule, crea profondo disagio.

Una visione certamente pessimistica quella che emerge dall’opera di Ibsen. Ma c’è in questo drammaturgo una via per redimersi da un siffatto peccato, dall’hamartía, dall’esistenza mancata?

In Ibsen non c’è nessuna redenzione. C’è tuttavia una possibilità di risveglio al Sé stesso. Ma non dipende mai dalla volontà del singolo in-dividuo. Il risveglio è sempre il frutto del mero caso. Immerso nell’oblio, l’Io da solo non sarà mai in grado di ridestare il vero Sé stesso. Per giungere a questo risveglio è sempre necessario, per Ibsen come per Socrate, la semplice e casuale presenza di un Tu, il quale per ottenere quel risveglio, deve essere necessariamente pathico, deve cioè suscitare un pathos, un dolore nella coscienza addormentata dell’Io. Questo pathos, questo dolore, è l’effetto dell’in-essenzializzazione che il Tu pathico genera nell’Io, il quale raggiunge la sua essenzializzazione, e quindi il possibile recupero del Sé stesso perduto, solo mediante la sua inessenzializzazione, cioè solo attraverso la spoliazione delle sue innumerevoli maschere.

Ma ammesso che sia superabile, questo disagio esistenziale prevede solo la figura dell’Io e del Tu? Non c’entra per nulla la società in cui essi vivono?

È importante sottolineare che per Ibsen questo doloroso travaglio esistenziale, causato dalla lacerazione intima Io-Sé stesso, non riguarda solo l’individuo, la sfera individuale, riguarda anche la società, la sfera sociale, e quindi anche gli altri. La lacerazione individuale riflette quella sociale e viceversa. Se la società è malata è perché l’individuo è malato. E viceversa. È questa interrelazione tabifica che caratterizza i drammi di Ibsen, è un’aria mefitica che vi si respira.

Nella società la dialettica Io-Sé stesso corrisponde non solo e non tanto alla classica lotta di classe borghesia-proletariato, ma corrisponde soprattutto a quella contraddizione ancora più classica, quella esiodea, tra il bene e il benessere, a causa della quale il bene viene sistematicamente sacrificato per il benessere. Si vedano a tal proposito le ragioni del dottor Stockmann ne Il nemico del popolo, del 1882.

Non solo. Per garantire questo suo benessere la società deve creare la lacerazione nell’in-dividuo, affinché esso rimanga sempre disponibile per le esigenze di questa società unidimensionale, anche se ciò implica per ogni singolo il dover rinunciare al Sé stesso, il tradimento della propria vocazione, la repressione della propria predisposizione.

Da un lato, dunque, la società non può non falsificare la coscienza dell’in-dividuo, favorendone cin tal modo l’alienazione, l’estraneazione e la contraffazione del Sé stesso con l’Io; dall’altro lato, tuttavia, l’individuo, pur di non avvertire quel dolore, quel pathos che ogni vero risveglio comporta, finisce con l’assuefarsi a quel sistema sociale, cercando anzi di fare in modo che nulla cambi rispetto a quell’ordine delle cose.

Foto del Libro di Franco Di Giorgi su Ibsen

Il dramma dell’esistenza mancata. Dell’essere sé stessi e della falsificazione. Saggio su Ibsen, Franco Di Giorgi, 2020

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Torino, 3 dicembre 2020