L’eticità di una partita

di Franco Di Giorgi

 

l'etiticità di una partita Mancini e Vialli

Italia-Inghilterra: l’abbraccio tra Mancini e Vialli, in lacrime a fine partita (FOTO Antonio Sepe)

L'eticita' di una partita. Italia Inghilterra

In un suo interessante saggio, lo storico Emilio Gentile, attraverso un’amplissima base di fonti, conduce un’analisi dettagliata delle ragioni che hanno condotto alla Grande Guerra e con essa, come suona il titolo stesso dell’opera, all’«apocalisse della modernità»:

ragioni non soltanto politiche e militari, ma soprattutto culturali.

Tra queste emerge su tutte quella che egli sintetizza nel concetto di «eticità della guerra», consistente nella convinzione che l’idea o la realtà della guerra contengano in sé inseparabilmente un momento etico-formativo.

In effetti, considerando i gravi strascichi che quel conflitto mondiale lascerà, e riprendendo una tesi di Simone Weil sulla guerra, non si può non constatare, dice ancora lo storico in un altro saggio (Contro Cesare.

Cristianesimo e totalitarismo all’epoca dei fascismi), un’intrinseca parentela della statolatria fascista con la guerra, «proclamata e venerata come fondamentale esperienza di vita».

Ora, vista l’assurdità di questa credenza, non si può non essere d’accordo con la critica che la Arendt ne fa ne Le origini del totalitarismo, definendola un’interpretazione sofistico-dialettica della politica, un’acrobazia dialettica, addirittura una superstizione. L’enormità però non consiste tanto nell’eticità della guerra in sé, poiché ogni azione, persino la più brutale, nel bene o nel male (lo apprendiamo dalle testimonianze dei superstiti), è in grado di generare un momento etico-formativo.

L’irragionevolezza dialettica risiede piuttosto nell’idea illogica e innaturale che un momento etico-formativo, e quindi pedagogico,

non possa che generarsi dall’azione violenta, dalla guerra, e che proprio per questo essa verrà assunta dall’ideologia fascista come una fondamentale esperienza di vita propedeutica all’incontro fatidico con la bella morte.

Sicché, da questa assurda prospettiva bellicista, la guerra, il pólemos, come ritenevano a loro modo Eraclito, Lutero, Hegel e Nietzsche, risulterebbe necessario o indispensabile: in ogni caso un evento imprescindibile se si deve rivelare o salvare l’anima dell’uomo, se si intende giungere a quel momento formativo, se si vuole rafforzare la coscienza e il corpo degli individui.

Se assumiamo questo momento pedagogico come il “positivo”, allora l’evento guerra, per essenza “negativo” a causa della sua terribilità, non potrà che essere conditio sine qua non del positivo.

E questo è assurdo, oltre che inaccettabile.

La storia del XX secolo ci ha insegnato a sufficienza l’infondatezza di una tale convinzione, rivelandola, appunto, una superstizione.

Ebbene, la finale degli Europei di calcio giocata a Wembley, la partita vinta dall’Italia contro la baldanzosa Inghilterra della Brexit, proprio in quanto forma sublimata di una battle, suggerisce che anche l’esultanza, la gioia e la festa possono rappresentare un momento eticamente rilevante, un’occasione di autenticità, di identità e di appartenenza altrettanto profonda e viva quanto quella che si dà con lo stato nascente nel sentimento amoroso, o con l’angoscia della morte durante la guerra.

Si pensi solo all’esperienza rigenerativa vissuta da Novalis dinanzi agli occhi infiniti della sua giovane fidanzata, o a quella del principe Bolkonskij sotto il cielo immenso di Austerlitz in Guerra e pace di Tolstoj.

Non c’è pertanto alcun bisogno di ricorrere necessariamente alla guerra per garantirsi l’esaltante esperienza di vita auspicata dal fascismo.

Concezione, questa della necessità del negativo, le cui radici si possono rintracciare in quell’«ideologia della morte» che Domenico Losurdo scopre nel cuore tenebroso dell’Occidente, nell’Europa imperialista e colonialista.

Nella sua forma speculativa essa è rilevabile soprattutto in Heidegger, come pure, andando a ritroso, in Patmos di Hölderlin, nella pedagogia delle dittature, ossia nel Drill, nella teologia luterana della croce come unica possibilità di salvezza, nelle Predigten di Meister Eckhart, in Agostino, in Paolo, in Gesù stesso, che doveva necessariamente sacrificarsi per il bene dell’umanità, e infine in Giobbe, nel giusto per antonomasia, la cui salvezza però non poteva essere ottenuta senza aver prima subito l’ingiusto patimento, secondo la logica tutta occidentale della necessaria priorità del negativo.

Anche il gioco, dunque, in quanto forma di contesa sublimata dall’impegno culturale, anche il ludus – come vediamo in questi giorni di genuino entusiasmo sportivo, in cui la gente, in barba alla variante delta, festeggia esultante per le strade di tutte le città italiane (e non solo italiane) –;

anche il gioco può dunque suscitare entusiasmo vitale, affratellamento, senso di unità, di collettività, sentimenti che i totalitarismi sanno imporre solo con il terrore e con la coercizione.

Tuttavia, a voler essere pessimisti, anche se questo ludere, se questo festeggiare, si risolvesse solo in un’illusione, non ha importanza.

L’importante è che si possa continuare a giocare, a prendere sul serio il gioco e a rispettare le sue regole.

Tutto, purché non si ritorni, per usare ancora qualche espressione della Arendt, a scambiare il cinismo per saggezza, a covare l’odio indefinito per tutto e per tutti, cioè il nietzscheano odio profondo e impersonale, purché insomma non si continui a pensare alla superstizione della guerra e al suo inevitabile carico di morti come sola modalità per esperire più a fondo la vita.

Ivrea, 17 luglio 2021

Giò. Giobbe

Cari amici,

ho  il piacere di segnalarvi la pubblicazione del mio libro “Gio’. Un Giobbe del nostro tempo”. Già da ora è reperibile e ordinabile sul sito della casa editrice (Caosfera) e sul catalogo online ai seguenti link:

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Giò. Giobbe

Proprio come il Giobbe biblico, anche Giò si trova nel nostro tempo a dover fronteggiare in prima persona un’inattesa piaga maligna, una fragilità mortale, un destino crudele e inesorabile.

Con alcuni amici dibatte sulle imperscrutabili ragioni del destino e su altri temi filosofici come il morire e la morte, la vocazione e la verità.

E come nel testo veterotestamentario, gli amici mettono Giò, il malato terminale, dinanzi alle responsabilità del proprio passato, al tempo in cui erano gli altri a subire in silenzio un destino avverso.

Ritorna anche qui, infine, quella domanda, quel perché intrattenibile che né Giobbe né Giò seppero mai pronunciare a favore del dramma vissuto dagli altri.

Un caro saluto.

Franco Di Giorgi

Ivrea, 15 luglio 2021

PS.
Franco Di Giorgi (1954) è laureato in Filosofia all’Università di Torino e per più di vent’anni ha insegnato Storia e filosofia al Liceo scientifico “Antonio Gramsci” di Ivrea.

Ha sempre fatto interagire la memorialistica concentrazionaria e resistenziale con la normale didattica e con i suoi studi personali (confluiti in parte su articoli apparsi in diverse riviste), convinto che nessuna forma di cultura possa esimersi dal confronto con le questioni e con i valori fondamentali scaturiti dalla Resistenza e dalla Deportazione.

La sua riflessione si pone infatti alla ricerca di interferenze tra filosofia, memorialistica, esegesi biblica, estetica letteraria, artistica e musicale.