Dieci anni di Rifondazione Comunista raccontati da Sergio Dalmasso

di Franco Ferrari

24/11/2021

Sergio Dalmasso prosegue da anni il suo prezioso impegno di ricostruzione di aspetti più o meno noti delle vicende della sinistra italiana con una particolare attenzione a tutte quelle correnti che vanno dal socialismo di sinistra al dissenso comunista e alla nuova sinistra sorta negli anni sessanta.

Lo sguardo è quello di chi, pur essendo anche militante, riesce ad osservare gli eventi, le idee, i personaggi con il giusto distacco critico, senza farsi coinvolgere dal desiderio di tifare per l’uno o per l’altro.

Morto Paolo PietrangeliUn addio a Paolo Pietrangeli

Tra gli “oggetti” a cui ha dedicato la propria attenzione vi è anche il Partito della Rifondazione Comunista.

Dopo un precedente lavoro (Rifondare è difficile) (ndr, ripubblicato nel quderno CIPEC numero 31) nel quale aveva seguito le premesse della nascita del PRC, maturate già nella storia finale del Partito Comunista Italiano, fino all’emergere del movimento “altermondialista” all’inizio del nuovo millennio, ora ne riprende la storia e la ricostruisce per un ulteriore decennio.

Download “Quaderno CIPEC Numero 31 (Libro sul primo decennio di Rifondazione di S. Dalmasso)”

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Il nuovo libro, pubblicato da RedStarPress (pp. 303, € 22,00) si intitola semplicemente Rifondazione Comunista ed è aperto da due interventi di Roberto Musacchio e Giovanni Russo Spena.

(ndr, Gratis il primo capitolo sulla storia di Rifondazione Comunista:)

Download “Capitolo 1 storia di Rifondazione Comunista”

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Se l’inizio si riallaccia alla fine del testo precedente, Dalmasso ha scelto come termine quel 31 dicembre 2011 che sancì, dolorosamente, la chiusura del quotidiano Liberazione.

Nella ricostruzione di vicende ancora aperte (non quella del quotidiano, ma quella del Partito) scegliere un punto di finale è necessario, ma pone anche qualche limite, nel momento in cui alcuni degli eventi raccontati hanno prodotto conseguenze anche in una fase che fuoriesce dall’arco temporale del libro.

D’altronde è questo uno degli effetti ineliminabili nel fare storiografia di eventi ancora così vicini e (fortunatamente in questo caso) non ancora conclusi.

rifondazione comunista storia sergio dalmasso

La scelta di far concedere la fine della storia raccontata con la cessazione del quotidiano del PRC è forse legata (supponiamo) al venir meno del principale strumento di lavoro, grazie al quale l’autore ha potuto ricostruire le prese di posizione del partito ed anche gran parte del suo dibattito interno che poi, in Rifondazione, tanto interno non è mai stato.

Dalmasso dichiara apertamente, nel capitoletto conclusivo, di aver voluto innanzitutto “raccontare i fatti specifici” del decennio, lasciando ad altri esprimere posizioni critiche, interpretative o “ricette per l’avvenire” (che tutti vorremmo avere ma che forse, in questo momento, nessuno ha).

Un lavoro più ampio avrebbe forse richiesto di ricorrere, per quanto le testimonianze vadano sempre prese con la dovuta prudenza, alla memoria diretta dei protagonisti e avrebbe forse aiutato ad arricchire la valutazione dei passaggi nodali del decennio, un utilizzo più ampio degli studi di taglio politologico o sociologico che, pur non abbondanti, sono comunque disponibili.

Alcuni citati dall’autore, come i lavori di Bertolino e De Nardis, altri no, forse perché inseriti in testi non specificamente dedicati al PRC (come Damiani e Ignazi) o non disponibili in italiano come i capitoli dedicati a Rifondazione all’interno di ricerche che esaminano l’insieme della sinistra radicale in Europa (Chiocchetti, Newell, Hudson, Broder tra gli altri).

Il decennio ricostruito da Dalmasso è stato largamente dominato dalla leadership di Fausto Bertinotti, che è stato segretario del PRC fino al 2006, al momento in cui ha assunto il ruolo di Presidente della Camera dei Deputati.

Anche da questa postazione istituzionale ha continuato a influire sulla politica del partito fino alla rottura provocata dalla sconfitta della Sinistra-l’Arcobaleno e poi la divaricazione incomponibile prodottasi con il successivo Congresso di Chianciano del 2008.

Quali sono stati i tratti caratterizzanti la direzione di Bertinotti? Innanzitutto un tentativo molto forte di rinnovare la cultura politica di Rifondazione Comunista.

Questo obbiettivo si è espresso con la decisione di sostenere e partecipare attivamente al cosiddetto “movimento dei movimenti”, la prima mobilitazione di massa a livello mondiale che ha messo in discussione l’egemonia liberista e la sua proiezione globale.

Questo movimento, da Seattle a Genova a Firenze, si è poi innestato con la netta collocazione contro la guerra in Irak e si è dato una forma organizzativa nello schema dei Social Forum.

Sul piano teorico Bertinotti ha cercato di individuare un asse nell’adozione della teoria della nonviolenza, vista come passaggio per una revisione dell’idea del potere, all’interno di una sostanziale archiviazione di gran parte dell’esperienza storica del movimento operaio e comunista del novecento.

Veniva in sostanza individuata la necessità di mettere in atto delle cesure ideologiche e simboliche (non solo nei confronti dello stalinismo) e di costruire una nuova strumentazione per rilanciare una forza politica antagonista a partire dai due punti cardine: l’opposizione al liberismo e alla guerra.

Per far questo era necessario rivedere anche la struttura organizzativa del partito introiettando alcuni degli elementi apportati dalle teorie elaborate dai “nuovi movimenti sociali” (femminismo, ambientalismo, ecc.).

Questa revisione ha portato la direzione di Bertinotti a considerare inevitabile un superamento di Rifondazione Comunista, come ricostruisce Dalmasso, prima attraverso la cosiddetta “sezione italiana della Sinistra Europea” e poi, sull’onda dei mutamenti in atto nel sistema politico (formazione del PD veltroniano con “vocazione maggioritaria” e superamento della coalizione di centro-sinistra) per dar vita ad un nuovo soggetto di sinistra. Questa nuova formazione veniva sollecitata dalla confluenza elettorale dei vari soggetti politici esistenti a sinistra del PD ma veniva azzoppata dal catastrofico risultato elettorale del 2008.

Questa prospettiva strategica, che si sviluppava con una certa coerenza di fondo, si intrecciava con una svolta politica tale da determinare la partecipazione del PRC all’Unione (vasta ed eterogenea coalizione di centro-sinistra) e poi al governo diretto da Romano Prodi. L’idea portante era che lo sviluppo dei movimenti anti-liberisti dell’inizio del nuovo millennio richiedesse una rappresentanza politica in sede istituzionale (Parlamento e Governo) e che a loro volta, la presenza di questi stessi movimenti potesse modificare i rapporti di forza all’interno della coalizione tra forze moderate e forze radicali.

La decisione di partecipare al governo costituiva un indubbio ripensamento rispetto a quanto veniva detto da Bertinotti in occasione del quinto Congresso del 2001 (e citato da Dalmasso a pag. 42) sulla natura “rifondativa” della precedente rottura con Prodi.

Una cesura anche con quella che veniva considerata come “l’eredità togliattiana”. Interpretata questa (in modo riduttivo, a mio modesto parere) come individuazione del terreno del governo come ambito prioritario dell’agire politico mentre si doveva puntare a spostare l’attenzione “dal piano politico parlamentare a quello politico-sociale”.

La scelta di partecipare al governo Prodi è stata quella su cui più si sono appuntate le critiche e le autocritiche successive, sia interne che esterne al PRC.

Un altro elemento sul quale è stata rivendicata da Bertinotti una rottura con la tradizione dominante del PCI ha riguardato il cosiddetto metodo del “rinnovamento nella continuità”, considerato inadeguato a far fronte ai mutamenti della società e del rapporto tra società e politica che richiedeva invece delle rotture radicali.

La fase della leadership di Bertinotti è quella che, essendosi conclusa, permetterebbe una riflessione complessiva più approfondita e anche meno condizionata dai conflitti del tempo. Il libro di Dalmasso offre molti elementi di fatto su cui poterla costruire.

Un bilancio non dovrebbe essere solo misurato sull’esito della sconfitta della lista elettorale del 2008 ma misurarsi con i diversi aspetti della direzione di fondo perseguita dall’ex leader di Rifondazione.

A me pare che alcune scelte mantengano una loro validità: 1) la netta rottura con lo stalinismo; 2) la decisione di essere pienamente interni al movimento altermondialista dei primi anni 2000; 3) l’impulso determinante a dar vita al Partito della Sinistra Europea.

Mentre vedrei molto più criticamente un eccesso di foga liquidatoria verso le esperienze politiche del Novecento come anche, nella gestione del partito, una personalizzazione molto spinta della leadership (pur in presenza di una indubbia dotazione di carisma spendibile nel dibattito pubblico) che non ha aiutato a radicare nel senso collettivo alcune acquisizioni positive di cultura politica.

Lo stesso rapporto con i movimenti dai quali sarebbe dovuto emergere una nuova leva di dirigenti politici tale da rinnovare ed allargare il partito è rimasta una vicende irrisolta e nella quale si sono evidenziati anche non pochi limiti e contraddizioni.

Congresso di Chianciano del 2008

Dalmasso ricostruisce con molto scrupolo le vicende successive alla sconfitta elettorale, con il Congresso di Chianciano del 2008 che portò ad una spaccatura verticale di Rifondazione Comunista aprendo una lunga crisi non solo di quel partito ma dell’intera sinistra radicale.

Le ragioni del conflitto fra la componente raccolta attorno a Vendola e le varie anime e correnti che poi si raccoglieranno nell’elezione di Ferrero a Segretario, si concentravano su un punto principale: se la costruzione di un’aggregazione della sinistra radicale dovesse portare al superamento di Rifondazione Comunista per dar vita ad un nuovo soggetto politico o dovesse assumere una forma federativa.

Una scelta che implicava anche un problema di identità, presumendo da un lato la necessità di un partito che si definisce “comunista” dall’altro la possibilità di far confluire e diluire questa identità in un partito che non sia più tale.

Successivamente alla divisione tra PRC e SEL si è andata anche consolidando una diversa visione rispetto alla partecipazione o meno ad una nuova coalizione di centro-sinistra.

La parte finale del libro di Dalmasso è quindi dedicata alla scissione “al rallentatore” che portò alla fuoriuscita di chi diede vita a SEL (“ancora una scissione” è il titolo sconsolato del capitolo che ne ricostruisce i passaggi) e poi alla formazione della “Federazione della Sinistra”, per la quale l’autore prende atto che “non decolla” e tutti sappiamo quale ne sia stato l’esito finale.

Il Partito uscito da Chianciano fortemente indebolito, individuava tre assi principali:

1) quello della costruzione federativa di un soggetto unitario di sinistra, in piena autonomia dal PD;

2) l’idea del “partito sociale” attraverso il quale si è ritenuto di poter spostare il centro dell’azione dalla rappresentanza istituzionale alla costruzione di forme di solidarietà e di mutualismo;

3) il passaggio da una gestione di maggioranza degli esecutivi del partito ad una condivisa tra tutte le correnti o frazioni.

La fase avviata con il Congresso di Chianciano, che è poi una fase di crisi e frammentazione della sinistra radicale, è ancora aperta e quindi va molto oltre l’arco temporale trattato dall’autore.

Anche in questo caso sarebbe necessario provare a tracciare un bilancio adeguato che non sia né liquidatorio, né consolatorio.

E’ fuor di dubbio che il contesto sociale e politico complessivo non abbia certo aiutato una ripresa della sinistra ma è anche vero che non tutto può essere messo in carico alla situazione nella oggettiva.

Ho già provato in altri occasioni su questo sito ad esprimere qualche opinione in merito e non ci ritorno.

La lettura del libro di Dalmasso non che può stimolare un bilancio che è ancora in larga parte da tracciare.

Fonte Transform! italia

Tranform Italia

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Storia di Rifondazione comunista

di Diego Giachetti

Rifondazione Comunista Dalmasso

Se le memorie, i “mi ricordo” e i “secondo me” spesso non si conciliano e Libro Sergio Dalmasso sulla Storia di Rifondazione Comunistaannullano la costruzione di una conoscenza condivisa e attendibile, la storia e la storiografia possono impegnarsi a chiarire l’andamento dei fatti in tutti i loro risvolti. Non è cosa da poco, anzi è essenziale ed è ciò che Sergio Dalmasso ha fatto con questo libro sulla storia di Rifondazione comunista (Redstarpress, Roma 2021) nel decennio compreso tra l’ascesa del movimento dei movimenti e la chiusura del giornale «Liberazione» nel 2011. Una storia ancora in farsi, difatti Rifondazione comunista vive ancora e se ne trova anche traccia nelle molteplici anime sparpagliate della diaspora di quel settore della sinistra. Trent’anni di vita di Rifondazione comunista sono la sofferta verifica empirica delle difficoltà a fare i conti col fallimento dei tentativi novecenteschi dell’uscita dal capitalismo. È un problema che riguarda tutti, sia quelli “dentro” che quelli “fuori”, a testimonianza che la difficoltà non è stata superata cambiando strumento e sigla.

L’autore affronta il secondo decennio di vita di questo partito sfuggendo con eleganza alla lusinga ingannatrice del presentismo storico che ipoteca il passato nell’odierno senza divenire. Non ha voluto fare il “tifo” per questa o quella posizione, né impugnare la bacchetta del maestro che giudica e interpreta. Uno sforzo di avalutatività ammirevole da parte di chi ha partecipato alla storia narrata, per lasciare il posto ai “protagonisti” con le loro analisi, interpretazioni, strategie e tattiche politiche, così come sono emerse nel corso del farsi degli eventi raccontati.

Rifondare è difficile

Il libro si pone in continuità col precedente lavoro, pubblicato nel 2002, nel quale aveva ricostruito la storia dei primi dieci anni di vita di Rifondazione comunista, con un titolo premonitore circa le difficoltà che l’impresa incontrava e avrebbe incontrato: Rifondare è difficile (Centro di documentazione di Pistoia-Cric editrice). In quel lavoro aveva ricostruito i passaggi politici più importanti della vicenda inserendola nella cornice nazionale e internazionale: crollo del muro di Berlino (1989), fine dell’Unione Sovietica (1991), scioglimento del Pci, nascita del Partito democratico di sinistra e, per reazione contraria, costituzione del Prc. Si avviò la rifondazione mentre la storia voltava le spalle e procedeva sulla via della restaurazione neoliberista, della globalizzazione capitalistica, con la lotta di classe rovesciata dall’alto verso il basso.

Il termine “rifondazione” connotava l’intenzionalità del disegno politico. Non si trattava di ricostruire il partito comunista, ma di rifondarlo, considerando conclusa l’esperienza cresciuta in un arco storico del secolo Novecento. La fine per scelta presa a maggioranza del Pci segnava la cesura con una parte importante della storia contemporanea italiana. D’altro canto, chi non si rassegnò al progetto dei democratici di sinistra, intraprese un percorso di rifondazione in un contesto nazionale e internazionale segnato da una netta inversione dei rapporti di forza tra le classi a tutto vantaggio di quelle dominanti. Col senno di poi si può dire che allora era già in corso l’offensiva neoliberista, ma non era ancora paragonabile alla “sfacciataggine” assunta con la crisi del 2007-2008, con le relative politiche di austerità decise e invasive. Anche il movimento operaio, i suoi sindacati e la sinistra stavano mutando pelle, tuttavia ancora rimanevano parti consistenti di strutture organizzate della classe lavoratrice e la frattura tra la sinistra e vasti settori sociali non aveva ancora le dimensioni odierne. Rifondazione poteva quindi proporsi di operare per riorientare le forze del movimento operaio e rilanciare le lotte in una prospettiva antisistema, combinando resistenza e offensiva politica, costruire il partito nella pratica quotidiana delle lotte e produrre ricerca teorica più che mai necessaria per orientarsi in un contesto nuovo rispetto agli assetti geopolitici che avevano regolato il mondo dopo la Seconda guerra mondiale.

La storia continua

Il libro appena pubblicato racconta di un partito che ha dovuto rapportarsi con sedimentazioni di culture politiche non sempre omogenee tra loro, perché provenienti da forme organizzative e ideologiche diverse. Un processo di ricostruzione che ha comportato, in determinati e difficili passaggi, rotture, lacerazioni nei gruppi dirigenti e nella base, che l’autore indaga e descrive così da consentire, per chi vuole farlo, una riflessione sulle vicende accadute, trarre un bilancio e “rifondare” una memoria collettiva del proprio passato, che recuperi solidarietà e appartenenza.

Alle soglie del nuovo millennio Rifondazione comunista è partecipe e protagonista del movimento altermondialista, presente nel corso delle giornate di protesta genovesi dell’estate 2001. Si intravvede la possibilità di fare un salto di qualità e quantità nella partecipazione ai movimenti contro le politiche neoliberiste e dell’Unione europea, per dare linfa a un soggetto rivoluzionario che integri le nuove forze movimentiste giovanili, nelle quali Rifondazione si qualifica per credibilità e presenza con la sua organizzazione giovanile radicata dentro il movimento dei movimenti. Partecipa attivamente ai successivi movimenti contro la guerra e non solo. Il sindacato metalmeccanici della Fiom-Cgil manifesta contro le politiche di concertazione con le scelte padronali e governative; la stessa Cgil, attaccata dal governo di centro destra presieduto da Berlusconi, organizza nel 2002 una grande manifestazione (si disse di tre milioni di manifestanti a Roma) per la difesa dello Statuto dei lavoratori. Sull’onda di queste mobilitazioni il partito promuove un referendum per l’estensione ai lavoratori delle piccole aziende delle tutele dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che non ottiene un risultato utile perché solo il 25% degli aventi diritto va a votare.

L’insieme di questi eventi consolida nella maggioranza del gruppo dirigente la convinzione che i movimenti in atto possano giocare un ruolo nel rapporto tra il nuovo centro sinistra (Ulivo) e Rifondazione a livello programmatico e di governo. Si ripropone a livello di tattica elettorale il “vecchio” tema della scelta tra presentazione autonoma o in coalizione. Una scelta coatta, imposta da un sistema elettorale bipolare con la partecipazione ad alleanze di centro-sinistra e a governi, dimostratisi poi incapaci di produrre trasformazioni reali e sempre condizionati dai poteri economici. Scelta che si rivela inefficace, quanto quella di un posizionamento politico estraneo allo scontro fra i due poli, che porta all’esclusione dalla rappresentanza parlamentare.

L’éclatement

Nell’immediato la scelta della coalizione nelle elezioni politiche del 2006 ha un successo elettorale rilevante: 2 milioni e mezzo di voti, pari al 7,4%, 41 eletti alla Camera e 27 al Senato per Rifondazione. Un’altra volta l’esito dimostra che il partito ottiene risultati elettorali migliori quando unisce la sua partecipazione alle lotte in corso con la presenza elettorale della sinistra nel centro sinistra; era già accaduto ai tempi della desistenza. Funziona la combinazione di diversi settori di elettorato della sinistra che sottostanno alla spinta unitaria mossa dallo spauracchio del centro destra, al governo con presidenza Berlusconi. Un’esigenza avvertita che ha il suo limite nel “meno peggio”, cioè il chiudere più di un occhio verso politiche antipopolari, interne ed estere, adottate dalle forze di maggioranza del centro sinistra. Nel secondo governo Prodi che si forma, Rifondazione vi entra a pieno titolo, ma ben presto le contraddizioni tra aspettative e provvedimenti governativi stridono. È che ormai si è dentro un sistema che non nega i conflitti e le tensioni, ma li risolve al suo interno, cancellando ogni possibilità di trovare soluzioni trasformative del contesto sociale dato.

Alle elezioni politiche del 2008 la lista Arcobaleno, che riunisce Rifondazione, il Partito dei Comunisti Italiani, i Verdi ed altre forze, non supera lo sbarramento del 4%. Né vanno meglio altre due liste di fuoriusciti: Partito comunista dei lavoratori e Sinistra Critica, rispettivamente allo 0,5 e allo 0,46%.

Per la prima volta nella storia del dopoguerra la sinistra non riesce ad eleggere alcun rappresentante in Parlamento. Le ricadute sono pesanti e di lungo periodo in Rifondazione e non solo. Il gruppo dirigente si divide e il congresso del luglio 2008 conta un disaccordo quasi paritario del partito. È il tempo della demoralizzazione dei settori militanti che si erano impegnati nel progetto politico organizzativo. Calano gli iscritti: 87 mila nel 2007, 71 mila nel 2008, 37 mila nel 2009. Si prospetta una unità federativa con altre forze della sinistra radicale, si cerca di tenere assieme quel che resta dopo la sconfitta. Una parte del gruppo dirigente regge, si oppone allo scioglimento del partito, prova a ricostruire un tessuto di militanza e di partecipazione in una situazione più difficile di quella già non facile degli anni precedenti. Con la chiusura del quotidiano «Liberazione», sul finire del dicembre 2011, si conclude anche la storia di Sergio Dalmasso. Non la discussione su che cosa fare e come organizzare un soggetto politico alternativo indipendente e autonomo dal polo del centro sinistra, che prosegue e attraversa quest’ultimo decennio, per trovare una via d’uscita da una società bloccata nel cambiamento di indirizzo sociopolitico e culturale.

21 Novembre 2021

Fonte dallapartedeltorto

Franco Di Giorgi

NOTE A MARGINE DELLA PANDEMIA

Da circa due anni a questa parte, ogni giorno, alla solita ora, con la scadenza e la precisione monotona di una medicina, gli speaker televisivi diffondono le notizie sulla pandemia, quasi nello stesso modo in cui il mal’àkh, il messaggero, le comunica a Giobbe. A pensarci bene, tuttavia non è tanto il loro contenuto nefasto (il numero dei morti o i ricoverati in terapia intensiva) che viene immediatamente recepito e che alla lunga infastidisce, quanto piuttosto la strana accentatura, quasi una vera e propria inflessione, con cui alcuni giornalisti le divulgano. Questo singolare accento fa pensare a una lezione impartita da maestri impettiti, quasi come un rimprovero, una ripetizione risentita per discepoli poco attenti. La monotona prosodia ricorda una cantilena lamentosa e annoiata. Il tono risuona risentito, monitorio, quasi sdegnato, colpevolizzante, offeso, infantile. Ma la cosa che più colpisce e indispone di questa specie di cantilena letargica, di cui peraltro ci si rende conto solo dopo averla quasi inconsciamente registrata, è accorgersi che sia proprio essa, questa accentazione eccipiente ad impedire di comprendere appieno il contenuto, il nucleo delle notizie stesse, specie se date velocemente una dopo l’altra, una sopra altra, senza soluzione di continuità. In tal modo rimane solo il peso, ma non il senso della gravità dei comunicati.

Dati Covid-19 del 15 novembre 2021

Inoltre, per suggerire ancora qualche nota a margine, sembra che oltre ai fragili e agli estremamente vulnerabili, questa pandemia abbia rivelato anche l’esistenza dei non catalogabili, di quelli che sono talmente fragili e vulnerabili da non poter essere sussunti in nessuna categoria, perché pare che per loro qualsiasi vaccino “potrebbe” essere deleterio. La medicina infatti non sa ancora come prendersene cura. Sicché, per essi l’unico rimedio per sopravvivere, più che il distanziamento, rimane l’evitamento, l’asocialità, vale a dire il lockdown permanente; e ciò non solo per il virus e per la paura del contagio, ma soprattutto per quei prodotti chimici che tutti gli altri (parenti compresi) usano normalmente proprio per ragioni igienico-sanitarie.

Ciò premesso, bisognerebbe a questo punto dire in tutta chiarezza che il reale pericolo di morte che pandemie come quella generata dal Covid-19 comportano dovrebbe necessariamente costringere alla temporanea messa in mora del libero arbitrio, vale a dire della facoltà che più contraddistingue l’individualità dell’essere umano, e della quale esso va maggiormente fiero. L’attuale epidemicità è tale infatti che, fatta eccezione per i non catalogabili, la libera scelta anti-vaccinale di un singolo è in grado di mettere a rischio la vita di molti altri, se non addirittura di un’intera comunità. Se, nonostante questa fondamentale esigenza etica, si continua ugualmente a voler esercitare il proprio libero arbitrio, è perché in coloro che lo pretendono l’individualismo non è più solo un’esigenza personale, quanto piuttosto una convinzione ideologica. Infatti, per quanto profonda possa essere l’influenza che un’ideologia può esercitare in una persona, un’esigenza è tuttavia tanto meno personale quanto è più ideologica. E in effetti, quelli che lo scorso 9 ottobre – a perfetta imitazione della preannunciata irruzione del 6 gennaio al Campidoglio degli Stati Uniti (e non sbagliava di certo chi allora pensò subito che una tale irruzione costituiva un buon precedente per altri trumpiani che intendessero reagire al cosiddetto establishment) –, quelli che allora, sfruttando l’individualismo sordido manifestato dalla nebulosa dei No green pass, dei No vax e degli Io apro, hanno (ri)dato l’assalto alla sede della Cgil di Roma, ebbene costoro sono proprio quelli che non sanno cosa farsene della responsabilità sociale. Viceversa, in quanto simbolo del socialismo operaio, la Cgil è da più di un secolo il sindacato sorto dalle società operaie di mutuo soccorso, le quali, esattamente un secolo fa vennero chiuse durante il periodo fascista proprio in ragione della loro connotazione sociale. In questo gesto violento dei neonazifascisti italiani, dai quali quella nebulosa di individualisti No vax non è riuscita a prendere nettamente le distanze – un gesto che prende solo a pretesto il disagio sociale generato dalla pandemia e che ha nell’azione violenta la propria cifra storica –, ecco questo gesto si può leggere come una sorta di kairós, di momento propizio – ricercato, pur in tutta la sua casualità – in cui si intersecano e si intrecciano sorprendentemente due delle direttrici fondamentali della storia del Novecento, costitutive di un Dna, di un ordito storico in cui, come punto e contrappunto, si contrappongono dialetticamente socialismo e individualismo, solidarismo ed egoismo, internazionalismo e nazionalismo, come pure, traslandolo all’oggi, europeismo e sovranismo populista. Con la formula del nazional-socialismo, peraltro, a cui quei facinorosi ancora si ispirano, Hitler seppe in effetti sintetizzare “a suo modo” gli opposti, generando in Germania quel Reich dal quale, grazie a una politica biologica radicale, venne definitivamente eradicata ogni forma di socialismo solidale e internazionale, forma nella quale, com’è noto, si riconosceva buona parte degli ebrei occidentali emancipati e assimilati. Sicché se da un lato, a fronte del fatto che allora, per paura che gli ariani perdessero la loro purezza, l’ebreo (solo a causa della sua ebraicità) venne visto, ridotto, trattato e combattuto dal regime nazionalsocialista come un virus letale, oggi, dall’altro, risulta davvero altrettanto delirante il parallelismo o l’idea di chi pensa che i governi di tutto il mondo invitino le persone a vaccinarsi non per salvarle dal contagio del nuovo virus, ma per costringerle a un totalitarismo politico-sanitario.

Per fortuna, però, al di là di ciò, l’adesione della maggioranza degli italiani alla vaccinazione non sembra affatto il frutto di una semplice costrizione, della cieca obbedienza, del conformismo o dell’allineamento passivo, ma l’espressione di un senso eticamente attivo e partecipe di responsabilità per sé, per gli altri e per tutto quanto il Paese. Per questo, infatti, pur avendone costituzionalmente la facoltà, il governo non ha voluto imporre l’obbligo del vaccino e ha optato per il green pass, per uno strumento giuridico che mira più alla persuasione che all’obbedienza. Il rifiuto dei No vax, pur non essendo questi per la maggioranza non vaccinabili come i non catalogabili, nasce da un anticonformismo di maniera, da una disobbedienza assunta come presupposto infondato e desideroso di produrre una distanza, se non addirittura una distinzione ideologica tra sé e gli altri. Ora, proprio da questo punto di vista, non è forse ingenuo, superficiale, irresponsabile e in definitiva pericoloso scavare e approfondire ulteriormente, con il proprio prendere le distanze dagli altri, il distanziamento sociale e interpersonale che il contenimento del contagio purtroppo richiede? A chi giovano, a cosa servono le tesi complottiste di una tale minoranza disobbediente, se non, appunto, ad alimentare la violenza sociale che contraddistingue storicamente la destra nazifascista? Certo, l’esito del putsch di Monaco serve da monito per tutti; ma non si può continuare a riflettere su una questione (la chiusura di Forza Nuova) su cui, per quanto complessa e delicata, la Repubblica democratica italiana avrebbe dovuto decidere già da tempo, a partire almeno dal 1946, cioè a meno di un anno dalla liberazione dal nazifascismo, a partire dalla fondazione dell’Msi. Ciò induce a ritenere che proprio come allora, cioè dopo la terribile esperienza della guerra, specie quella civile, e soprattutto dopo Auschwitz, ci si era illusi di essersi definitivamente liberati dal fascismo e dal razzismo (con tutto il loro brutale armamentario di muri e di filo spinato), così anche ora, nel tempo penoso del lockdown, ci si andava illudendo che dopo l’esperienza della lotta contro il Covid-19 saremmo diventati migliori o quantomeno più consapevoli dei nostri errori. Ma ce ne hanno appena dato un’amara smentita – ahinoi! – sia il G20 di Roma che il Cop26 di Glasgow. Resi miopi da pressanti esigenze di sopravvivenza immediata, non riusciamo infatti a mettere bene a fuoco che sia i cambiamenti climatici sia la pandemia hanno ormai irreversibilmente crepato i pilastri, i fondamenti della nostra esistenza. Sicché ci è assai comodo a questo punto, sebbene non rassicurante, dire che il futuro verso cui stiamo procedendo ci è sconosciuto, perché dicendo questo ne neghiamo almeno intimamente l’angosciosa pericolosità. Ed è ovviamente difficile se non impossibile giungere a una tale consapevolezza per quei partiti che attingono molti dei loro consensi proprio dall’area dell’estrema destra.

Ben più complesso del semplicistico confronto tra queste due esperienze di lotta (quella contro la pandemia e quella contro la peste nazifascista) è dunque il loro intrecciarsi, il loro riannodarsi proprio in occasione dell’attacco vandalico alla sede della Cgil. Il problema a tal proposito non consiste solo nel chiudere l’acqua ai pesci più agitati, ma nel rendersi conto che nella vasca la tensione sociale può creare un effetto luciferino tale da agitare anche la variegata popolazione di pesci pacifici e pacifisti. Paradossalmente, infatti, i movimenti di estrema destra che hanno vandalizzato la sede della Cgil non sono altro che il frutto amaro del tentativo di defascistizzazione, di normalizzazione e di sdoganamento storico-politico operato da Gianfranco Fini nel 1995 con la svolta di Fiuggi e con la relativa nascita di Alleanza Nazionale, grazie all’occasione d’oro offertagli da Berlusconi l’anno precedente per farne una legittima componente del suo governo delle “libertà”. Anche la svolta della Bolognina, nell’89, causò l’allontanamento dei contrari alla proposta di Achille Occhetto, ma, pur posizionandosi a sinistra del Pds, del neonato Partito democratico della sinistra, non hanno mai manifestato il proprio dissenso violentemente contro i simboli della destra.

A tal proposito non si deve trascurare di aggiungere che l’attuale situazione pandemica costituisce un banco di prova per il nostro altruismo, cioè di quel senso etico che difetta nella mente dei complottisti e che certo fa difficoltà ad esprimersi in tutte quelle persone che per quasi mezzo secolo sono state nutrite con il latte nero dell’individualismo competitivo – una sorta di vaccino, questo sì, approntato ad hoc da stregoni della politica per combattere lo spirito solidaristico.

Comunque sia, al contrario di quanto credono i No vax, l’assalto alla sede di quel sindacato è invece la prova che confuta i loro dissennati confronti con il regime nazista. È del tutto evidente infatti che sono proprio quei facinorosi di destra – troppo disinvoltamente spalleggiati dagli stessi No vax – che si ispirano al nazifascismo, e non la maggioranza dei cittadini italiani vaccinati, i quali, proprio perché rispettosi della legge, vengono considerati dai negazionisti come tanti ubbidienti Eichmann, mentre loro, gli oppositori, oggi si sentono perseguitati come ieri lo sono stati gli ebrei. È inoltre un’evidente assurdità anacronistica quella di assimilare l’attuale governo a un regime dittatoriale, e ciò al solo scopo di giustificare la propria disobbedienza e la propria astensione, spacciandosi come una specie di minoranza eroica. A differenza dei partigiani, però, cioè di coloro che nel recente passato hanno davvero saputo dire di no, con la vita e con la morte, al male dei regimi totalitari, quelli che ora si oppongono alla politica vaccinale dell’attuale governo non possono dire di no al male, al virus, giacché per loro esso semplicemente non esiste, ma possono invece dire di no al bene, cioè ai vaccini, dal momento che, per la ragione premessa, risulterebbero del tutto inutili. In tal modo è chiaro che nemmeno la morte dei 150 mila connazionali potrà servire da prova contraria alle loro costruzioni mentali.

Pur sostenendo quindi contro ogni intuizione che non esiste nessuna pandemia perché semplicemente non c’è alcun virus, i No vax tuttavia continuano a considerarsi come il Covid, cioè come un virus che i governi, con il supporto di volenterosi medici specialisti, stanno cercando di debellare con il vaccino. Da qui nasce il loro avvilente paragone con gli ebrei vissuti sotto il Terzo Reich e la loro assimilazione dei premier, dei capi di stato e dei ministri della sanità a tanti Himmler o Hitler, i quali avevano pur detto che il mondo avrebbe riguadagnato la salute solo liberandosi degli ebrei. Al posto del vaccino è però utile ricordare che i nazionalsocialisti fecero ricorso al Zyklon B, all’ingrediente attivo dell’acido prussico, al gas asfissiante. In tal modo si dovrà perlomeno ammettere che mentre i nazisti volevano eliminare più ebrei possibile, viceversa scopo degli attuali governi (anche se purtroppo non di tutti) è quello di vaccinare, ossia di salvare più persone possibile, anche i No vax. L’obiettivo dei governi è l’immunità di gregge, quello dei nazisti era un Reich judenrein, purificato dagli ebrei. Il progetto dei primi è di salvare tutti, o quanti più esseri umani possibile; quello dei secondi era di salvare non tutti, ma solamente gli ariani, quelli che, secondo loro, erano degni di vivere; non quindi gli ebrei, non tutti gli altri indesiderabili, non gli oppositori, non gli zingari, non gli omosessuali (nemmeno pertanto tutti quelli che oggi si riconoscono nell’acronimo Lgbt), non gli affetti da gravi malattie rare ed ereditarie, i fragili, i vulnerabili, i non catalogabili, poiché per il fatto di essere ritenuti impuri, contagiosi e quindi pericolosi (un tempo qualcuno li definiva “malriusciti”), erano considerati unwertes Leben, vita indegna, cioè esseri la cui vita non aveva assolutamente alcun valore. Proprio come quella, diremmo, degli attuali migranti, rappresentativi di un dato a cui noi stessi ci siamo ormai abituati ascoltando le diuturne nenie lamentose dei cronisti. Gli attuali governi di buona parte del mondo mirano alla guarigione di tutti; per i nazionalsocialisti la Gesundung, la guarigione prevedeva una imprescindibile Judensäuberung, una epurazione degli ebrei razionalmente attuata dai freddi automatismi della burocrazia. I primi cercano in tutti i modi di sfuggire alla morte; i secondi, rendendola moralmente utile sotto forma di eutanasia, ne facevano invece uno strumento di Reinigung, di purificazione.

Inoltre, a differenza degli ebrei, che allora venivano isolati e ghettizzati in vista della loro eliminazione, i No vax, per esprimere il loro dissenso nei confronti della vaccinazione, si auto-isolano. E certamente la loro ostilità nei confronti del green pass sarebbe ben poca cosa rispetto a quella che essi manifesterebbero se il governo italiano avesse adottato la pur legittima misura dell’obbligo vaccinale per tutti. In tal caso essi avrebbero sicuramente inteso questa obbligatorietà del green pass come un provvedimento simile a quello introdotto da Goebbels nel novembre del 1941, con il quale, scrive Zygmunt Bauman in Modernità e Olocausto, si costringevano gli ebrei a portare la stella di Davide come «una misura di “profilassi igienica” (il Mulino, Bologna 1992, pp. 101-108). In tal caso avremmo visto sfilare i contestatori con addosso una stella simile. E così in effetti è stato l’estate appena trascorsa in molte città italiane. Come se utilizzare a piacimento per il proprio tornaconto quei simboli del male assoluto fosse una cosa degna per un’umanità razionale che ha prodotto e conosciuto l’Olocausto. E ciò si deve forse al fatto che le nostre società hanno smarrito non solo il senso dell’indignazione, ma anche il valore stesso della dignità – come pure quello del semplice vivere in un pianeta che l’inappagabile nichilismo della modernità ha reso e rende sempre più inospitale.

Per il governo italiano, poi, i No vax non sono affatto gli “indesiderabili” di cui il Terzo Reich si era liberato con la politica della sterilizzazione e dell’estinzione. Essi sono coloro che, non volendo vaccinarsi e rifiutando mascherina e distanziamento, mettono a rischio non solo la propria vita, ma con essa inevitabilmente anche quella di tutti coloro con cui sono in contatto. Non è un caso, infatti, che in questi giorni di fine ottobre, si registra un aumento dei contagi e di ricoveri proprio nelle città in cui si è manifestato più a lungo il dissenso, in barba alle misure precauzionali. È esattamente per questo motivo che alcuni Stati stanno pensando di attuare un lockdown ad hoc solo per i non vaccinati, mentre altri avanzano addirittura l’ipotesi di far pagare a questi le spese per un loro eventuale ricovero in ospedale. Attraverso l’applicazione del piano vaccinale anti-Covid, l’obiettivo finale dei governanti non è quindi eugenetico, non prevede cioè la selezione di una maggioranza di cittadini vaccinati da cui escludere una minoranza di non vaccinati – anche se, come si è accennato, il perdurare degli assembramenti potrebbe spingere anche il nostro governo verso un lockdown per i No vax. Quando questi ultimi urlano “libertà”, forse non si rendono conto (o si rendono perfettamente conto, secondo lo spirito del “prima gli italiani”) che con ciò essi rivendicano egoisticamente la libertà e il diritto di infettare gli altri; forse non hanno capito che, in casi di emergenza pandemica come quello in corso, le libertà, il libero arbitrio e i privilegi, di cui in altri momenti si può costituzionalmente godere, debbono, come si è accennato, essere temporaneamente e responsabilmente sospesi, posti – non dai governi e dalla politica, ma dalla coscienza di ogni singolo individuo! – in secondo piano per il bene dell’intera comunità. Questo l’umile insegnamento resiliente della natura violentata da un’umanità irriguardosa e antropocentrica, la quale sin dall’inizio ha fatto del suo diritto uno strumento di dominio, vale a dire un elemento contro natura. Certo, in società da tempo strutturate sul diritto all’individualismo competitivo, per molti è ancora difficile applicare su di sé questa epoché, compiere questo temporaneo autoporsi fra parentesi, fare questo passo indietro. Sembra però che gli italiani (già vaccinati, peraltro, quasi al novanta per cento) stiano superando questo genere di difficoltà e siano disponibili anche per una terza dose. In sostituzione del vaccino, messo a disposizione gratis dallo Stato, ai riottosi viene data la possibilità del tampone, pagato giustamente a loro spese. Sicché, eccezion fatta per coloro che hanno seri e fondati motivi per non vaccinarsi, ad un operaio, ad esempio, converrebbe vaccinarsi, per non andare a intaccare con un tale esborso aggiuntivo la sua già leggera busta paga.

Ciò per dire che è del tutto fuori luogo fare ricorso ai paragoni con il dramma vissuto dagli ebrei e dagli altri deportati al solo scopo di dare maggiore rilevanza e legittimazione alla propria protesta. Si tratta, in realtà, per così dire, di stereotipi “rovesciati” di sinistra, nel senso che fanno il verso agli stereotipi antisemiti di cui si servono notoriamente gli oppositori dell’estrema destra per fomentare nelle masse impoverite l’idea del complottismo elitario, dietro cui opererebbe di nascosto un subdolo burattinaio, un manovratore occulto che nella percezione della folla esagitata, a seconda delle occasioni, assume l’aspetto ora del capitalista ora dell’industria farmaceutica. Non ci vuole nulla in tali situazioni a passare dallo stereotipo dell’ebreo-vittima a quello dell’ebreo-responsabile, dal filosemitismo all’antisemitismo, dal filoisraelismo all’antiebraismo. È bastato poco infatti a trasformare una protesta contro il green pass in un assalto contro la sede di un sindacato, l’antagonismo di sinistra, civile e pacifico, in un antagonismo di destra, incivile e violento. E bene hanno fatto a questo proposito gli organizzatori della protesta triestina ad annullare alcune manifestazioni per timore di infiltrazioni da parte di antagonisti filofascisti. «In effetti – non lo diciamo noi, lo diceva già Bauman in quel suo saggio del 1989 – sarebbe opportuno evitare la tentazione di utilizzare l’immagine disumana dell’Olocausto al servizio di un atteggiamento partigiano verso conflitti umani più o meno gravi» (op. cit., p. 129). Di recente, infatti, per ostentare la loro presunta e infondata condizione di vittime, i dimostranti No vax, oltre ai gilet gialli e alle stelle gialle, hanno indossato anche una specie di giubbotto che ricorda la divisa dei deportati. Ma proprio questa assenza di ritegno nei confronti delle vittime dell’Olocausto (si veda il caso di Anne Frank, o quello, ancora più recente, della senatrice Segre, costretta da due anni ad essere scortata solo per aver proposto una legge che contrastasse i fenomeni di razzismo, di antisemitismo, di istigazione all’odio e alla violenza), ebbene proprio una siffatta assenza di scrupolo fa pensare che questo loro movimento, così connotato, sia anche l’espressione di elementi che si ispirano ancora, purtroppo, alla politica razziale adottata dagli ex carnefici.

A differenza che nel Terzo Reich, qui non c’è nessuna istigazione all’odio nei confronti dei No vax; c’è piuttosto un invito alla pazienza e alla resistenza, c’è una legittima campagna di convinzione per uscire quanto prima dall’emergenza della pandemia. È nei No vax, piuttosto, che, sentendosi esclusi, vittime di un nuovo totalitarismo politico-sanitario, si trovano espressioni di odio ingiustificato e irrazionale verso tutti coloro che promuovono la campagna vaccinale. Possibile che non provino alcun pudore quando esprimono il loro dissenso facendo ricorso ai simboli dell’Olocausto? Forse i No vax non conoscono abbastanza quel tremendo capitolo della recente storia europea. Possibile che non si rendano conto che questo loro gesto è un affronto verso tutte le vittime e verso gli ultimi superstiti di quella politica razziale? E se scopo di quei cosiddetti infiltrati fosse proprio quello di voler sporcare ancora una volta la memoria e l’immagine di quelle vittime, ebrei e non ebrei? Il sospetto non sarebbe ingiustificato se torniamo emblematicamente con la mente ancora una volta all’uso riprovevole che qualche anno fa (nel novembre 2017) alcuni tifosi di calcio hanno fatto dell’immagine di Anne Frank: gli stadi infatti (ma non solo) sono ormai diventati un po’ dappertutto pericolosi terreni di coltura. Ecco perché l’offesa arrecata alla memoria delle vittime non può provenire che da coloro che irresponsabilmente continuano a supportare la posizione dei carnefici. Ma questo contrasta con la critica che la maggioranza dei No vax rivolge al governo, la cui politica sanitaria, come si è detto, è da essa sentita come una forma attuale di totalitarismo. Perché delle due l’una: o si critica o si ha nostalgia del totalitarismo. Ciò lascia supporre che il movimento No vax sia composto da almeno due anime, le quali utilizzano impudicamente i simboli della Shoah per motivi contrastanti: la prima perché si sente una vittima e quindi accusa il governo di nuovo totalitarismo; la seconda perché può sfruttare questo uso del tutto improprio e indegno per sporcare a suo vantaggio il ricordo delle vittime e per rivalutare di riflesso l’immagine dei carnefici. Ad ogni modo, l’odio che entrambe le anime esprimono non è affatto a somma zero, ma, proprio come temeva Primo Levi, si esalta e talvolta, come nell’opaco episodio dell’assalto alla sede della Cgil, esplode in aperta violenza. Con le loro manifestazioni, insomma, specie con quelle del tutto inopportune nelle quali fanno ricorso ai simboli della deportazione nazista, i No vax vorrebbero dire che si sentono trattati come vittime della dittatura vaccinale, come dei “sommersi” rispetto a tanti “salvati”, e che questi si sarebbero piegati e omologati a quella politica totalitaria. È per tali motivi che essi credono di rappresentare anche una minoranza eroica, capace di resistere al potere che fa leva su una maggioranza prona e accondiscendente.

Una cosa in ultima analisi sembra tuttavia evidente: la benevola propaganda governativa anti-Covid ha creato suo malgrado nel Paese una spaccatura tra la maggioranza dei Sì vax e la minoranza No vax, tra positivisti e negazionisti. Una fenditura certamente nuova dal punto di vista epidemiologico, ma che è servita alla destra facinorosa come ennesima occasione per ritornare a rimestare nella ferita storica, della quale i suoi adepti auspicano non la guarigione, ma la recrudescenza. Il vasto fronte dei primi, sulla scorta delle indicazioni scientifiche, crede che per fronteggiare il Covid-19, oltre al distanziamento fisico, l’unica soluzione praticabile sia il vaccino – anche nella prospettiva di doverne fare annualmente il richiamo, alla stessa stregua del vaccino anti-influenzale (a cui sorprendentemente ricorrono anche molti No vax). I secondi, sulla base di indicazioni che essi reputano altrettanto scientifiche, sono convinti invece che il virus non esista, che sia solo una montatura, un’invenzione (comprese le stesse varianti) approntata ad hoc da potenti case farmaceutiche, dietro le quali (secondo il più classico dei modelli di complottismo) opererebbero forze occulte e poteri oscuri allo scopo di mettere in ginocchio e asservire ad essi il mondo intero. Per queste ragioni, essi ritengono che, pur ammettendo l’esistenza del virus, anche nella sua forma artificiosa o sintetica creata in laboratorio, l’infezione si possa curare con farmaci alternativi al vaccino, con una terapia da seguire comodamente a casa, senza andare necessariamente in ospedale. Ma il loro scetticismo radicale non riguarda solo l’efficienza o la realtà del vaccino. Esso ha di mira anche il numero dei deceduti nella pandemia, perché i No vax credono compatti a un’altra vulgata: sostengono che, tra gli oltre 250 milioni di contagiati nel mondo, molte dei 5 milioni di persone falciate dal virus in meno di due anni sarebbero decedute per altre malattie, solo che, dicono, vengono registrate come morti per Covid. E ciò, ribadiscono, perché si vuole imporre il vaccino, la cui diffusione frutterebbe ingenti guadagni alle multinazionali del farmaco e tanto potere alle forze politiche occulte. Rassicuranti queste teorie dietrologiche, ma è probabile che per essi saranno valide finché il mal’àkh non verrà a bussare anche alla loro porta.

Ivrea, 15 novembre 2021

 

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Un esemplare della Rivista LA SINISTRA

come riproposta nel 2008 al seguente link:

LA SINISTRA Prima serie
La Sinistra – Anno II n. 11/12
Luogo: Roma
Editore: Edizioni Samonà e Savelli
Stampatore: STA.TI.MA. – Roma
Anno: novembre/dicembre 1967
Legatura: N. D.
Dimensioni: 1 fascicolo 30×21 cm.
Pagine: pp. 51 (1)

Descrizione: copertina illustrata con una composizione grafica e titoli in bianco nero e rosso. Alcune immagini fotografiche in bianco e nero n.t. Numero che inaugura la nuova serie settimanale, pur mantenendo il formato della prima serie.

Bibliografia: AA.VV., «Passare il segno», Milano, Biblioteca di via Senato, 2008: pag. 138
Prezzo: € 100

Rivista diretta da Lucio Colletti. Redattore Capo: Giulio Savelli.

Numero 11/12 La sinistra

Testi di Lucio Colletti, Giulio Savelli («Cuba e noi»), Vittorio Strada, Ernest Mandel («Wilson svalutato»), Antonio Moscato («La guerriglia in Colombia»), Silverio Corvisieri, Argiuna Mazzotti, Niccolò Salanitro, Bruno Vitale («Contro il padrone bianco», lungo e importante articolo sul Black Power con varie illustrazioni, fra cui il modello di costruzione di una bomba molotov «La molotov dei ghetti», pubblicata sulla «New York Review of Books».

Questa immagine con una grafica diversa verrà ripresa nel n. 10 della seconda serie del giornale, del 16 marzo 1968), Keywan («La rivoluzione bianca dello Scià»), Beppe Fazio.

Una intervista a Carlos Rafael Rodriguez: «Fame e Rivoluzione in America Latina».

Una intervista di Silvio Corvisieri ad Alfonso Leonetti: «Gramsci e i Tre di fronte alla Svolta».

Un servizio sulla morte di Che Guevara: «Continuerà la guerriglia boliviana? – Dopo la morte di Che Guevara», con interventi di Livio Maitan e Sergio De Santis.

Una nota sulla condanna di Regis Debray da parte del Tribunale Militare boliviano. ”

È questa la rivista da cui Sergio Dalmasso ha parlato nel suo seguente opuscolo  publicato da Edizioni Punto Rosso:

La rivista la Sinistra

 

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