Stupore dell’orrore

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Stupore dell’orrore

Per il centenario della nascita di Primo Levi

di Franco Di Giorgi

 

Stupore dell’orrore. Per il centenario della nascita di Primo Levi

 

 

Non aveva torto Pikolo (Jean Samuel) quando diceva che Primo Levi sarebbe divenuto lo stesso un grande scrittore anche senza l’esperienza concentrazionaria. Lo stesso Pikolo, fra l’altro, aveva ammesso di essere “diventato più sensibile alla musica dopo essere passato per Auschwitz” (Mi chiamava Pikolo, 2008).

E anche Levi ammetteva una cosa simile quando nell’Appendice a Se questo è un uomo osservava che il Lager era stato per lui una specie di università, poiché “vivendo e poi scrivendo e meditando quegli avvenimenti, h[a] imparato molte cose sugli uomini e sul mondo”.

Dal canto suo, invece, Jean Améry aveva confessato che lasciando Auschwitz non era diventato né saggio né profondo, ma solo più accorto (Intellettuale a Auschwitz, 1991).

Ora, è lecito pensare che un uomo possa definirsi ‘scrittore’ quando riesce ad esprimere il vero sé a se stesso e che ciò non dipenda tanto da quello che scrive, ma dal suo proprio stile letterario, che riflette e rivela a se stesso, come in uno specchio, quel sé.

Ammesso che una tale definizione sia condivisibile, essa senza dubbio si attaglia perfettamente allo stile, tra il sentenzioso e il profetico, dello scrittore torinese.

Questo stile si nota subito, già nel primo capitolo di Se questo è un uomo – un’opera scritta di getto, subito dopo il ritorno dal Lager, sotto l’impulso irrefrenabile del dover testimoniare.

Il capitolo s’intitola “Il viaggio”. In esso Levi ci parla del suo doppio viaggio: quello che, dopo l’arresto (13 dicembre 1943), lo portò da Torino a Fossoli (fine gennaio 1944) e quello che da Carpi (il 22 febbraio 1944) lo condusse ad Auschwitz (26 febbraio, esattamente 75 anni fa) assieme ad altri 650 deportati.

Di questi, ci informa Italo Tibaldi, in Compagni di viaggio, solo in 24 riuscirono a sopravvivere sino al momento della liberazione del campo (27 gennaio 1945).

Oltre Levi, sopravvisse anche la sua amica Luciana Nissim. Impressionanti i versi di una canzone del campo che la deportata ha posto come esergo ai suoi Ricordi della casa dei morti: O Auschwitz, ich kann dich nicht vergessen, weil du mein Schicksal bist (O Auschwitz, io non posso dimenticarti, perché sei il mio destino).

Due “vite parallele” le definisce tra l’altro Alessandra Ginzburg in un contributo per un convegno dedicato alla psicanalista (Luciana Nissim Momigliano, 2012), non solo perché entrambi furono per circa un mese nel campo di Fossoli, ma soprattutto perché pur dentro all’orrore di Auschwitz, catapultati nel mondo alla rovescia, tennero ugualmente viva la volontà di capire e di conoscere.

E poi anche perché entrambi furono “salvati dal loro mestiere”: lui chimico, lei medico.

Ad ogni modo, dopo aver appreso la testimonianza di Levi si è portati a ritenere che per ognuno di noi c’è un padre carnale e un padre spirituale. Pur ammettendo che è il primo ad averci, consapevolmente o meno, donato l’esistenza, è senz’altro al secondo che si deve il risveglio spirituale ad essa.

Non basta, infatti, il primo vagito, il primo pianto o il primo amore puro a destare l’essere umano alla vita, perché, proprio in quanto puri (e qui pensiamo esattamente al “dolore allo stato puro” provato da Levi nei suoi sogni d’angoscia subiti durante le notti di Auschwitz) essi mancano di consapevolezza.

A suscitare questa consapevolezza, a farci prendere atto dell’esistenza e del fatto che siamo coscienza, è la riflessione non già su una singola persona e nemmeno su un intero popolo, bensì sull’essenza umana.

A questa essenza si riferisce Piotr Rawicz, la quale, però, secondo lui, è rappresentata dal popolo ebraico: “il fato e la condizione del popolo ebraico – osserva lo scrittore ucraino – sono la vera essenza della condizione umana” (cfr. David Patterson, The Shriek of Silence, 1992).

Ecco, lo stile di Levi risulta sentenzioso e profetico perché è solo a quest’essenza che egli si riferisce nelle sue pagine: ad essa rivolge le sue angosciose domande con la stessa drammatica disperazione con cui Giobbe rivolge le sue a Yahweh, con essa si confronta e in essa cerca le risposte.

E quando, a causa dell’orrore e della violenza – certo più incisive della tenerezza e dell’amore – questa essenza viene destata dalla sua purezza, allora si genera quello “stupore profondo” che Levi – in sympátheia con quel “destino di massa” di cui parlava Etty Hillesum – credette di sentire assieme a tutti gli altri deportati già alla stazione di Carpi, prima di affrontare la seconda parte del suo viaggio verso Auschwitz.

Uno stupore analogo a quello che, nella sua essenza, provò Jean Améry: “Stupore per l’esistenza dell’altro che nella tortura si impone senza limiti e stupore per ciò che si può diventare: carne e morte”.

22 febbraio 2019

Manifesto affisso sul cancello del campo di Fossoli (2019)

Manifesto affisso sul cancello del campo di Fossoli (2019)

Se questo è un uomo – Primo Levi

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