Giobbe di Roberto Anglisani
Giobbe di Roberto Anglisani
di Franco Di Giorgi
Davvero commovente il Giobbe di Joseph Roth proposto al teatro civico di Chivasso dall’attore Roberto Anglisani nell’adattamento teatrale di Francesco Niccolini.
A proposito del “Giobbe” di Roberto Anglisani
Davvero commovente il Giobbe di Joseph Roth proposto al teatro civico di Chivasso dall’attore Roberto Anglisani nell’adattamento teatrale di Francesco Niccolini.
Stupefacenti anzitutto due cose.
La prima: la capacità sintetica del Niccolini, il quale è riuscito con maestria a ridurre quel meraviglioso romanzo dello scrittore ucraino-austriaco, nel quale si condensa una molteplicità poliedrica di vicende che riflettono in parte la vita di Roth vissuta quasi da “ebreo errante”.
La seconda: l’abilità narrativa dell’attore, il quale ha saputo raccontare l’essenza di ogni singolo personaggio, prestando ad essi la voce e adattandovi l’inflessione tonale, senza mai cadere nel banale e nel ridicolo.
Anche perché la storia che egli raccontava, pur riguardando persone umili e semplici come Mendel Singer – ulteriore pseudonimo di Giobbe, che nel testo sacro viene presentato come ‘ish tam veiashàr, uomo integro e retto –, tratta in realtà di una tragedia, ossia della banalità attraverso cui si insinua e si manifesta non solo il tragico e il male, ma anche la dolorosa insensatezza dell’esistenza.
Sia Giobbe di Uz, sia Mendel Singer di Zuchnov, infatti, sono la simbolica attestazione del fatto che dinanzi alle dure prove che la vita riserva, l’uomo è tentato di negare un senso a ciò che invece, seppure difficile a vedersi, un senso ce l’ha e come.
Sono la rappresentazione del tentativo di voler ridurre e ricondurre, anche inconsapevolmente, il senso solo all’umano e non al divino, come se la dimensione del senso dipendesse solo dall’agire dell’uomo, ossia da un agire calcolabile e programmabile e non anche invece dall’intervento miracoloso del divino o del divino caso.
In fondo, malgrado la loro pur evidente e persino ostentata sottomissione al Signore, nonostante il loro timore e tremore dinanzi a Dio, i loro “perché?” – Làmmah? Maddùa’? – innalzati dai due sventurati come suppliche al loro Signore non esprimono altro che questa specie di hýbris ferita, ossia l’arroganza umana che si vede di punto in bianco privata della propria (illusoria) autorità in merito alla costituzione del senso.
Sia il dramma biblico sia la ripresa rothiana di esso, con modalità e con efficacia differenti, sono la drammatizzazione di questa specie di pólemos, di contesa sul senso: una drammatizzazione che gioca narratologicamente sulla possibilità del miracoloso e del sorprendente, capace di umiliare l’uomo (che è humus, polvere e cenere, è terra, adamàh) e di persuaderlo, malgrado la sua ostinata protervia, circa il fatto che non tutto dipende dalla volontà umana, e che quanto c’è di più importante per lui, vale a dire la sua vita e la sua morte, dipende sempre da altro.
Certo, sia Giobbe sia Mendel Singer sono profondamente devoti al Signore: la loro vita e la loro morte sono quotidianamente rimesse nelle sue mani.
Ma in virtù di questa assoluta devozione essi, ragionando con l’unica logica di cui possono disporre, ossia quella umana, che è quella del do ut des, del dare per avere, si aspettano con una certa pretesa che Dio li tratti diversamente dagli altri che sono meno fedeli di loro.
Quanto meno, dopo l’abbattimento su di essi dello spaventoso inatteso, dell’incalcolabile, dell’imprevedibile, insomma del disumano, essi si attenderebbero che Dio si abbassasse verso di loro e spiegasse per filo e per segno i motivi di cotanta durezza, mostrasse loro dove esattamente e cartesianamente hanno sbagliato per meritare questo castigo, questa pena insoffribile, questa assurda prova.
Come se l’essere umano, gettato in un mondo in cui tutto è destinato alla consunzione, potesse con i suoi pharmakoi, con i suoi cataplasmi medicamentosi sempre più efficaci, sfuggire alla distruzione e all’annientamento.
Eppure, non si avvede l’uomo che la vita altro non è che un diuturno sfuggire alle grinfie della morte?
Non si accorge Giobbe che molti dei miserabili che tenta di salvare scompaiono nel nulla?
Eppure egli, secondo il Job di Fabrice Hadjadj, non sembra essere così ipocrita come i suoi amici.
E poi, non si rende conto Mendel di quanto egli sia debole e impotente di fronte al destino dei suoi figli e di Menuchim in particolare?
Egli infatti non ha la forza dell’Abdia (altro nome per Giobbe) di Adalbert Stifter né quella di sua moglie Deborah, non sa comprendere la saggezza della femme de Job nella pièce di Andrée Chedid.
La speranza è l’ultima a morire: questo ci trasmette il mito giobbico, specie nella bella e luminosa versione di Joseph Roth.
Il messaggio che esso ci tramanda, pur in quest’epoca della postverità e dell’assenza del divino, ribadisce un principio che sembra essere inscritto nel dna dell’uomo, un principio che, proprio per questo, la dura realtà satanica non riesce a smontare e a cancellare, non riesce a farla passare come una fake news: il principio della necessaria priorità del negativo, secondo cui il senso si può rivelare all’uomo solo nel e attraverso il dolore.
28 febbraio 2019
GIOBBE Storia di un uomo semplice / Teatro d'Aosta 2017: