Qualche sospetto

QUALCHE SOSPETTO NELL’ATTUALE CRISI POLITICA

Franco Di Giorgi

Nella storia della politica la strenua intransigenza rivoluzionaria e riformista, l’amore per la coerenza a tutti i costi, pur non volendo, ha spesso consegnato, in modi, tempi e contesti diversi, il popolo di una nazione alle forze reazionarie.

Si pensi alla fine che, a partire dal 1794, il montagnardo Robespierre, l’Incorruttibile, ha fatto fare alla Repubblica francese.

Oppure, alle conseguenze che ebbe la scissione del partito socialista a Livorno nel 1921.

O ancora, più vicino a noi, la rottura di Bertinotti dal governo Prodi nel 1998.

Eppure oggi in Italia tutti possono vedere che si può ottenere il medesimo risultato anche con il contrario dell’intransigenza, cioè con l’inestirpabile trasformismo che, nel caso in specie, è anche impudico opportunismo politico.

E ciò fino al punto di indurre un’intera classe politica ad annientare sé stessa, fino all’auto-interdizione, alla resa, a un plateale harakiri.

Tuttavia, qui da noi, culturalmente poco avvezzi al senso del tragico, un Sansone non potrebbe morire mai con tutti i filistei, schiacciato sotto le colonne del palazzo del potere.

Quanto accade e si ripete con una certa frequenza dalle nostre parti, soprattutto a causa di una pessima legge elettorale, induce piuttosto a pensare non già al possente eroe giudeo, ma a figure viscide come quella dello Jago shakespeariano, capaci di muoversi a loro agio nei meandri di leggi come quella, capaci come un ragno di tessere trame in grado di suscitare sentimenti deleteri e distruttivi, tali che, com’è noto, condurranno alla morte sia Otello sia l’innocente moglie di questi Desdemona.

Ma proviamo a ripercorrere per grandi linee la vicenda, prendendo spunto da alcuni momenti significativi della travagliatissima gestione del secondo governo Conte, momenti che destano qualche legittimo sospetto.

Già al momento del suo concepimento, la maggioranza governativa si costituisce anzitutto grazie all’appoggio decisivo di Italia Viva.

In tal modo per il segretario di questo piccolo partito si profila l’irripetibile occasione tanto attesa di usare l’arma del ricatto per poter finalmente appagare la sete di vendetta del suo ego per le battaglie politiche precedentemente perdute.

In virtù di questo grimaldello, egli avanzava al governo richieste e critiche che, per quanto bizzarre, faceva discendere dal suo personale senso di responsabilità.

La sicumera che sgomitando ostentava destreggiandosi impettito in queste continue e diverse richieste lasciava supporre che in sé egli maturasse un’idea delirante, quella secondo la quale così come aveva fatto nascere il governo allo stesso modo non avrebbe avuto scrupolo alcuno nel farlo cadere.

E così è stato.

Il secondo sospetto riguarda l’opposizione. Anch’essa non si limitava più a porre critiche legittime al governo, ma si rifiutava di collaborare nella difficile gestione della pandemia, ostacolandone sistematicamente ogni provvedimento e assumendo platealmente posizioni persino negazioniste.

A fronte di quanto accadeva nelle altre nazioni, qui da noi i sovranisti impedivano l’azione di governo, sicché, ad esempio, quando si parlava di chiusura loro erano per l’apertura e viceversa.

In tal modo il governo doveva far fronte a due critiche contemporaneamente, una interna e una esterna.

Critiche che col passare del tempo assumevano curiosamente un’analoga forma se non addirittura la stessa tattica ostruzionistica.

Infatti, pur derivando da due fazioni opposte, queste due critiche ben presto finirono con il sommarsi, formando un fronte unico e assumendo la comune strategia tesa a far cadere il governo.

Come se entrambe avessero ben chiaro in mente l’obiettivo che intendevano raggiungere, avessero già in serbo una nuova figura di primo ministro.

E tutto ciò nel frattempo facendo finta che la crisi pandemica, con tutto il suo pesante carico giornaliero di morti, non esistesse.

Contrapposizione politica che finì inevitabilmente con il riflettersi non solo sul dolente fronte critico del rapporto Stato-Regioni, ma anche sul fronte epidemiologico, con la dialettica semiseria tra virologi ottimisti a favore dell’apertura e infettivologi pessimisti che propendevano per la chiusura, creando così ancora più incertezza nei cittadini.

Ma i sospetti cominciano a prendere corpo e a rendersi visibili dopo che il presidente ancora in carica Conte riesce a convincere l’Europa a concedere all’Italia un cospicuo fondo finanziario di 209 miliardi di euro per fronteggiare le crisi e per pianificare la ripartenza del Paese.

Solo dopo aver ottenuto questo fondo – cosa che a nessuno dei politici italiani e tanto meno ai leader delle due opposte opposizioni sarebbe mai riuscita, nemmeno nei sogni –, i due Mattei secondo il loro schema tattico, cominciarono di concerto a martellare, a chiedere altro, ancora e sempre altro: ora ad esempio volevano in coro il Mes.

E così, non potendolo evidentemente fare l’opposizione esterna – la quale, visti i sondaggi sul voto, continua imperterrita a chiedere elezioni anticipate –, ecco che a dare la spallata decisiva al governo è l’opposizione interna, nella persona del suo leader, che nella conferenza stampa del 13 gennaio annuncia il ritiro dei suoi ministri dal governo, aprendo così di fatto la crisi di governo.

Il 18 e il 19 l’attenzione dell’intero Paese viene pertanto deviata dall’emergenza Covid all’emergenza politica.

In effetti le due crisi si sommano, la pressione sull’Italia si raddoppia, assume un grave peso.

A causa dunque di una mossa troppo pericolosa per non suscitare qualche sospetto sulla sua arbitrarietà, compiuta da qualcuno la cui sicumera lascia sospettare che non si muovesse affatto al buio, l’Italia sta insomma per scivolare verso qualcosa di incerto (almeno per il popolo italiano), ritrovandosi dinanzi a problemi decisivi che ancora una volta dovranno essere affrontati e risolti dal Presidente della Repubblica, a un anno esatto dalla fine del suo mandato.

Due sono a questo punto i fattori che hanno reso evidenti lo scopo e la tattica assunta dalle due opposizioni, elementi che ormai vengono fatti propri dalla quasi maggioranza dei deputati e dei senatori: uno linguistico e uno, appunto, tattico.

Tranne le forze politiche che sostenevano il governo e qualche altra piccola componente parlamentare, il resto dei politici ha perlopiù adottato un linguaggio duro ed offensivo contro la figura del Presidente del Consiglio (definito “avvocato” in senso sminuente e spregiativo):

un linguaggio usato come un martello al solo scopo di demolirne la resistenza.

Caduto lui, a forza di martellare con parole sempre più pesanti, sarebbe caduto tutto il governo: ecco la tattica strategica.

Sicché, accecati dall’ira e rassicurati dalla loro vittoria dopo le dimissioni di Conte il 26 gennaio (l’esplorazione del Presidente della Camera Fico, dal 30 gennaio al 2 febbraio, sarà solo una proforma prevista dal protocollo), era inconcepibile da loro una pur minima idea di riconoscenza per un governo che, commettendo inevitabili errori, ha dovuto sobbarcarsi la fatica e il lavoro “sporco” che l’inatteso tzunami della pandemia ha comportato.

Ma a questo punto non si può non rilevare una contraddizione nell’azione dei demolitori.

Infatti, pur essendo per un governo “forte”, sostenuti in ciò sia dai media che di parte della intellighentia critica, essi vedevano nei Dpcm uno strumento di accentramento politico, l’espressione di un potere personale che non teneva conto del Parlamento.

E ciò dimostra ancora una volta che gli oppositori trasformavano ogni cosa in pretesto per chiudere definitivamente i conti con il Presidente del Consiglio in carica e con il governo tutto.

A proposito del sostegno dei media, questa fretta nel mettere fine alla coalizione di governo, nonché la sicumera e la sfrontatezza verbale degli oppositori risultavano a volte comprensibili dal fatto che ogni tanto, mentre il governo arrancava sotto il peso dell’impegno gravoso, qualche giornalista, con un sorrisetto presupponente, evocava il nome di Mario Draghi come di un possibile e auspicabile salvatore della patria, come di un condottiero valoroso che da qualche tempo attendeva alle porte della città per intervenire con il suo esercito nel caso fosse necessario.

Ora, a cose fatte, a crisi avvenuta, queste voci giornalistiche si possono leggere come un preannuncio, seppur vago, di quanto accadrà il 13 gennaio.

Come se tra queste voci dei media, la conferenza stampa del leader di Italia Viva e l’incarico conferito il 3 febbraio dal capo dello Stato all’ex presidente della Banca Centrale Europea vi fosse un legame sottile e quasi invisibile: un preaccordo, un “piano B” una volta fallito il “piano A” riguardante il possibile terzo governo Conte.

Come se il destino di quest’ultimo fosse simile a quello di Giobbe, perché, come si è detto, molti elementi lasciano sospettare che tale destino fosse già stato previsto nelle sfere iperuranie.

Scenario questo in cui Renzi appare come il Satana di turno, usato anche in questo caso da Yahweh o dai Signori dell’alta finanza per mettere alla prova non solo il governo giallo-rosso, ma anche per verificare la tempra dei singoli esseri umani, per giocare insomma con le loro vite, la cui qualità esistenziale scompare ogni sera dietro l’annuncio quantitativo del numero dei morti per Covid (il cui totale ammonta ormai a quasi cento mila).

Al contrario dell’Avversario biblico, che non si arroga il merito di aver messo in crisi l’Uzita e con lui l’intera città di Uz, Renzi lo rivendica e come, dicendo in giro (persino in Arabia Saudita) che lui quella crisi l’ha suscitata non per sé e per le sue mire personali, ma per senso di responsabilità, per il bene del Paese.

Eppure dalla sua cieca fiducia nei confronti di tutto quello che fin qui il Salvatore si è limitato solo a sussurrare, risulta ben evidente che l’opzione Draghi soddisfaceva sia lui che l’altro Matteo, in quanto, ognuno per il proprio interesse, pensano vivamente di ottenere, con le loro esibite adulazioni, un importante incarico nel prossimo governo.

Nello splendore celeste di cui questo Professore pare circonfuso essi e tutti i loro amici oppositori cercano una luce in cui poter estinguere il buio in cui si agitano gesticolando umidicci; nella sua imperturbabile placidità agognano il mare in cui annegare la loro irrefrenabile irrequietezza; nella sua inarrivabile maturità essi vorrebbero nascondere la loro evidente Unmündigkeit, la loro immaturità; nella sua estatica beatitudine sognano persi un’oasi in cui ricercare la loro felicità perduta e la loro libertà ceduta.

Per questo motivo, alla fine della loro affannosa corsa, nonostante l’apparizione di santa Dorotea o di san Maturino, forse troveranno ad attenderli le bolge concentriche dell’ottavo o del nono cerchio dell’Inferno, dove Dante colloca i fraudolenti verso chi si fida, i traditori e gli arroganti.

Proprio per questo, ammoniva Primo Levi, si deve sempre diffidare dei “leader carismatici”, specie di quelli che hanno facilità di parola.

Essi, diceva in un intervento del 1986, pensando al duce e al Führer, «possedevano un potere segreto di seduzione che non derivava dalla credibilità o dalla fondatezza delle cose che dicevano, ma dal modo suggestivo in cui le dicevano, dalla loro eloquenza, abilità istrionica, forse innata, forse acquisita pazientemente con l’esercizio.

Le idee che proclamavano non erano sempre le stesse e in generale si trattava di idee aberranti o sciocche o crudeli. Eppure erano osannati e seguiti fino alla morte da milioni di fedeli».

Ivrea, 11 febbraio 2021

Mario Draghi Presidente del consiglio italiano fino all'ottobre del 2022.

Dichiarazione del Prof Mario Draghi al termine del colloqui con il Presidente Sergio Mattarella,al Quirinale
(foto di Francesco Ammendola – Ufficio per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica)

Download articolo di Franco Di Giorgi intitolato Qualche sospetto nell’attuale crisi politica:
QUALCHE SOSPETTO NELL’ATTUALE CRISI POLITICA

L’ITALIA AL TEMPO DELLA PANDEMIA, TRA DEMOLITORI E COSTRUTTORI

Franco Di Giorgi

O Freunde, nicht diese Töne!

Prima di scivolare anch’esso nel nulla del tunnel dentro cui il Covid-19 ci ha risucchiati e rinchiusi, il vuoto di lunedì e martedì 18 e 19 gennaio è stato colmato dalla lunga diretta televisiva sul dibattito parlamentare in merito a quella che, a detta di molti, resta una crisi di governo “incomprensibile”.

Antonello da Messina. San Sebastiano

Antonello da Messina. San Sebastiano 1478-1479

Dopo circa un anno di enormi e straordinari sacrifici determinati dalla triplice crisi (sanitaria, economica e sociale), dopo il triplo salto mortale quasi del tutto senza rete, senza copertura, a cui ognuno di noi a causa della pandemia è stato sottoposto, anche in vista degli altri anni altrettanto difficili che nonostante il vaccino ci attendono, ebbene proprio in questo naturale momento di stanchezza e di sfinimento, dalla chiarificazione parlamentare della crisi politica (che da tempo covava come un’infezione trascurata) ci si sarebbe aspettati dei toni più pacati, più comprensivi e concilianti, soprattutto in rispetto delle oltre ottantamila vittime mietute dal Coronavirus. E invece i toni aspri e aggressivi usati dai rappresentanti dell’opposizione ci hanno oltremodo avvelenato quelle due giornate, le hanno reso ancora più grigie e amare, costringendoci più di una volta a voltarci dall’altra parte colmi di disgusto e di vergogna mandando con un gesto quei politicanti a quel paese, inducendoci non a tapparci il naso ma ad abbassare e poi a togliere il volume della televisione e qualche volta addirittura a spegnerla. Eppure sapevamo già del comportamento del tutto ingiustificato, inadeguato e ostacolante mantenuto dalle opposizioni durante l’attività svolta perlopiù in apnea dal governo nel cercare di evitare il peggio, nel chiedere e nel trovare aiuti e ricoveri all’Europa. E ci chiedevamo già allora se, in un momento simile, in cui tutto un popolo viene chiamato a compiere uno sforzo comune, era possibile accettare un comportamento così disdicevole e (esso sì) incomprensibile da parte della nostra italica opposizione, incurante del numero dei morti che cresceva ogni giorno, dapprima nel nord, nella laboriosissima Lombardia, e in seguito, dopo il primo esodo invernale e soprattutto dopo quello estivo, anche nel sud e in tutto quanto il Paese.

Insopportabile, assurdo e offensivo era ed è nel frattempo l’atteggiamento negazionistico adottato dagli oppositori (e non solo da essi, purtroppo) sia contro l’esistenza stessa del virus sia contro i numerosi Dpcm. E ciò all’unico scopo di non consentire che venisse rallentato o addirittura arrestato il veloce e vorticoso movimento generato da quel loro microcosmo industrial-affaristico, in cui gli uomini sembrano condannati a ricavare un utile sempre maggiore di quello necessario per vivere. Un microcosmo in cui anziché il bene si ricerca affannosamente il benessere; in cui tutto, come in un immenso gorgo, viene triturato e visto come occasione di investimento, di guadagno immediato, di reddito, qualcosa in ogni caso di utile, di utilizzabile. Come se il loro sordido utilitarismo li spingesse all’eccedenza e all’eccessivo, a un’avidità incoercibile, a un volere tutto di tutto e di più. Un tutto che una volta ottenuto diventa subito niente. Un utilitarismo nichilista, dunque, la cui eccessività si riflette e trova il suo immediato canale espressivo nel loro linguaggio dai toni insopportabilmente eccessivi. Un linguaggio che considera tutto alla stessa stregua, che viene usato come un’arma, perché non fa differenza alcuna, non pone limiti all’indecenza e che prova anzi piacere nell’esagerazione offensiva. Ne abbiamo avuto l’ennesima riprova durante il dibattito in Senato quando i baldanzosi esponenti della destra – dallo sguardo da ballestero, ci verrebbe da dire con Revelli – facevano a gara nel dirla più grossa, nel toccare i punti deboli, nell’offendere le persone, specie quelle che andrebbero invece massimamente rispettate per il loro passato, per la loro storia, che è la nostra storia, la storia di tutti, compresi quegli stessi deputati e senatori utilitaristi, nichilisti e negazionisti.

D’altronde è chiaro: l’esecutivo ha commesso degli errori nell’affrontare le emergenze determinate dalla pandemia. Ma è altrettanto chiaro che chi si è trovato ad operare in quei momenti difficili non poteva esimersi dal commetterne. Specie per le evidenti e pregresse carenze del sistema sanitario nazionale, sia nel settore pubblico sia soprattutto in quello privato. Tutti avrebbero potuto commetterne. Chi più, chi meno. E la sorte questa volta ci è stata clemente, perché nelle folli giravolte dei governi e dei loro fantasiosi rimpasti ci ha trovati affidati nelle mani di persone sì giovani e forse ancora inesperte, ma quanto meno responsabili e dal volto umano. Certo, compito dell’opposizione è di esprimere contrarietà, obiezioni, proporre correzioni, integrazioni, alternative, come pure di manifestare sfiducia, qualora la maggioranza governativa in carica se la meriti. Ci sono tuttavia modi e modi. I suoi rappresentanti avrebbero infatti non già potuto (perché questa possibilità è a essi negata dal loro radicato utilitarismo) ma dovuto motivare il loro disappunto usando altri toni: i toni certamente severi e risentiti della critica politica, ma espressi in maniera pacata e rattenuta, propria della serietà e della responsabilità, i toni velati della mestizia che la tragedia del momento richiede, quelli della riflessione e dell’analisi rigorosa, non quelli indignati e offensivi, livorosi e aggressivi intonati dalla voce rasposa del puro cinismo demolitore. E ciò sia da parte delle componenti maschili sia (e questo ci ha sinceramente sorpresi, costringendoci a togliere il volume alle loro voci piene di veleno) di quelle femminili, all’unico scopo, appunto, di demolire quel poco di stabilità che il governo, in carica da circa un anno e mezzo, consente.Veleno di serpenti sotto le loro labbra. Piena di maledizione e di amarezza la loro bocca. Rapidi i loro piedi a versare sangue. Distruzione e disgrazia sui loro cammini. E il sentiero della pace lo ignorarono”: queste le parole che ci venivano in mente mentre, combattuti, seguivamo quella diretta. Sono quelle che Paolo di Tarso riporta nella Lettera ai Romani mutuandole dai Salmi e da Isaia.

In questa nuova circostanza, a far da testa d’ariete per loro, per oppositori di tal risma, è proprio quella del leader di Italia viva (a cui un adulatore si è rivolto chiamandolo ancora Presidente), il quale in questa sua triste esibizione, in questo suo tanto premeditato quanto sconveniente scatto d’orgoglio, ha certamente dimostrato a tutta l’assemblea chi era, di che pasta era fatto, quanto dura fosse la sua cervice e soprattutto quanto implacata ancora fosse la sua sete di vendetta per la sconfitta subita nel 2016. Nel suo tanto atteso discorso al Senato (lungo più di 20 minuti) ha usato modi, toni e termini sorprendentemente simili a quelli utilizzati dagli sdegnosi esponenti di Forza Italia, di Fratelli d’Italia e della stessa Lega, il cui motto è ovviamente “prima l’Italia e gli Italiani”. Nel suo esordio accusatorio, ossia nella sua autodifesa o, meglio, nell’apologo di sé, in una sorta di contorsione sofistica, tanto assurda quanto tragica, in cui tentava di trasformare la sua pur patente irresponsabilità in un atto responsabile, egli diceva ad esempio che occorre un “governo forte”. E in effetti, già quella analogia terminologica, il comparire del termine “Italia” in tutte le sigle dei partiti sopra citati, prelude e lascia immaginare che una certa vicinanza, una certa affinità tra di essi già esista, nel caso un domani si volesse pensare di creare un piccola coalizione alla tedesca, un patto politico per il Paese.

Certo, ben altri nel recente passato sono stati gli spettacoli indecorosi inscenati dalle medesime componenti politiche in quella stessa Camera o al Senato. Ma allora nell’aria c’era odore di mortadella e dinanzi agli occhi eccitati e golosi di alcuni membri del Parlamento oscillavano corde annodate a mo’ di cappio, e in ogni caso in quel tempo di sfascio nella memoria, nell’animo di quei rappresentanti non poteva albergare lo sconforto luttuoso dell’inarrestabile e silenziosa conta dei morti di cui ogni giorno essi pur fanno esperienza. Comunque sia, in questi due giorni si è ripetuto l’identico rituale, lo stesso meccanismo vessatorio, la medesima corsa al massacro, l’incontrollabile e contagioso dare addosso a chi, pur ammettendo platealmente di aver commesso sbagli, ha tuttavia svolto un lavoro assai duro, dei cui frutti però potranno avvantaggiarsi e beneficiare tutti gli altri, anche quelli che mentre guardavano dalla finestra intanto l’ostacolavano allungando, dove possibile, una gamba per fargli lo sgambetto. Durante le loro odiose invettive, era peraltro fin troppo evidente che questi politici della demolizione potevano impostare le loro voci raspose e graffianti, rafforzare le loro lingue intrise di odio, proprio da questo vantaggio già acquisito, cioè da quel grande mucchio di denaro che, come una grande torta, l’Europa ha per la prima volta promesso all’Italia come fondo per la ripresa. Dopo essere riuscito ad ottenere questo sostegno finanziario, ora dunque, secondo i risentiti membri dell’opposizione, il capo del governo dovrebbe farsi da parte. Be’, troppo comodo. È peraltro molto probabile che senza la garanzia di questo supporto essi non avrebbero usato gli stessi toni livorosi, ma se ne sarebbero stati zitti, come in effetti hanno fatto nonostante tutto il loro incontentabile e incontenibile strombazzamento, finché non l’avesse ottenuto. Finché, diciamo così, non avesse portato a termine il lavoro difficile e pesante. Il lavoro “sporco”. A tal proposito, fra i tanti interventi efficaci emersi dai banchi dei sostenitori del governo, ha certamente colto nel segno quello in cui si precisava che mentre al governo interessava ottenere il Recovery Fund, all’opposizione strepitante importava più che altro possederlo. E in effetti, quella a cui abbiamo assistito in due giorni trascorsi davanti alla televisione, è stata una lunga, monotona e stomachevole liturgia politica, una partita di colpi e contraccolpi giocata tra demolitori e costruttori, tra chi voleva distruggere la figura tragica del capo del governo (simile in questo penoso frangente a un San Sebastiano di palazzo Chigi, santo la cui memoria per la Chiesa cattolica ricorre proprio il 20 gennaio) e chi ogni volta cercava di ricomporla. Era un dibattito che assomigliava a una simulazione di guerra. A uno scontro tra due avversari che, pur coabitando nella stessa casa, si trattavano come nemici a causa del diverso modo di impostarne la gestione. Alle sempre più scomposte e monocordi accuse degli smantellatori, il Presidente del Consiglio (a cui, per sminuirne il valore, la rabbiosa segretaria di Fratelli d’Italia, si riferiva con il semplice appellativo di “avvocato”) nella sua replica ha reagito con composte e puntuali elencazioni delle cose già fatte dal governo, non dimenticando alla fine, a proposito del ritardo nell’incarico per gli appalti, di prospettare il concreto rischio di pericolose infiltrazioni mafiose.

Il rancore verde-scuro contro questo governo giallo-rosso discende forse da due motivi. Anzitutto dall’invidia, come si è accennato, di essere riuscito, esso, ad ottenere dall’Europa quella fiducia che i precedenti governi non si sarebbero mai neppure sognati: sia quelli guidati da esponenti del centro-destra (incancellabili le pessime figure del capo condominio della Casa delle libertà al Parlamento europeo e non solo), sia quello guidato dall’ex segretario del Pd (il quale verrà forse ricordato per il suo “Stai sereno Enrico” e per aver cancellato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori), sia infine quello giallo-verde, in cui il ministro degli Interni, in quanto sovranista, era ed è dichiaratamente antieuropeista. Ma davvero, domandava a conferma di ciò una senatrice del Pd, si sarebbe ottenuto il fondo con un governo sovranista? L’altro motivo di livore si può riscontrare nel fatto che nei gravi problemi che l’attuale esecutivo fa fatica a risolvere, gli sfascia-governi scorgono la loro stessa incapacità, rivedono cioè quegli stessi problemi che loro hanno lasciato in eredità al nuovo governo, problemi che non solo non sono stati capaci di risolvere, ma che hanno addirittura contribuito ad aggravare ulteriormente.

Ad ogni modo, i termini che in quella lunga seduta parlamentare sono filtrati con maggiore frequenza attraverso le mascherine traballanti dei depurati e dei senatori sono stati due: “incomprensibilità” e “irresponsabilità”, riferiti ovviamente alla decisione presa dal partito più piccolo della coalizione governativa. Grazie al cui contributo, tuttavia, era nato il governo Conte 2, dopo la fine del precedente esecutivo determinata dalle intenzioni esplicitamente autoritarie del segretario della Lega, il quale, si ricorderà, per poter risolvere i problemi che affliggono il Paese, e approfittando dei pur larghi consensi ottenuti sulla questione immigrati, chiedeva agli Italiani di poter avere pieni poteri.

Dell’irresponsabilità abbiamo già accennato a proposito non tanto del trasformismo politico, ma del funambolismo semantico, perché, come si è già detto, proprio uno dei sostenitori di quella scelta scellerata, di quell’azzardo politico, cioè uno degli irresponsabili, sosteneva che la loro decisione sarebbe stata dettata da un atto di responsabilità, al fine di stimolare il governo a far meglio e più in fretta. Ma il risultato, sotto gli occhi di tutti, è stato purtroppo quello di averne rallentato l’azione. Peggio ancora: è stato quello di aver distolto temporaneamente l’attenzione e con essa anche il volto dal problema principale, di fare del dibattito politico una distrazione, tanto gradevole quanto pericolosa, dal dramma della pandemia. A proposito della leggerezza con cui sono state usate le parole in quel tempio laico della parola che è il Parlamento, a un certo punto, addirittura, una senatrice di Forza Italia ha sbottato impudicamente dicendo che il Consiglio dei Ministri approfitta delle difficoltà generate dalla pandemia per restare attaccato alle poltrone. Come e quanto deve essere contorta la mente di una persona per concepire una diavoleria simile? Davvero così poco pesa la sostanza della sua coscienza? E soprattutto, si può giocare, si può speculare così con la vita e con la morte degli esseri umani? Fino a che punto si può essere insensibili alla pietà per i morti? Si tratta peraltro della stessa persona che, per rimarcare l’inesperienza politica del Presidente del Consiglio, con una metafora eccessiva e scabrosamente materiale lo definisce “vergine”. A rincarare ancora la dose, per rimarcarne il supposto trasformismo, a darle manforte un senatore di Fratelli d’Italia che definisce “liquida” la personalità del Presidente. Anche perché, aggiunge, eccedendo nei toni sprezzanti e offensivi rivolti più alla persona che alla funzione, “non è un’aquila”, ma “un’anatra zoppa”. Bene ha fatto pertanto il Presidente nella replica, rispondendo pacatamente sulla questione delle poltrone che l’importante non è tanto occuparle o mantenerle, ma sedervisi con “dignità e onore”.

Da quanto si è detto si può pertanto desumere che per la coalizione governativa la grave responsabilità degli irresponsabili azzardosi dipende da due gravi ingenuità: in primo luogo nel non essersi resi conto che l’apertura della crisi politica potrebbe mettere in serio pericolo gli aiuti europei e con ciò stesso l’intero sistema Paese; e in secondo luogo nel non prevedere che quella mossa azzardata potrebbe consegnare l’Italia ed eventualmente gli stessi 209 miliardi del Fondo nelle mani della destra, di questa destra ingorda di potere, nel malaugurato caso in cui si dovesse andare ad elezioni anticipate. Non è detto infatti che vi si vada. Ma un calcolo anche approssimativo dà subito l’idea della compattezza del centro-destra. Ecco il motivo che ha responsabilmente spinto un senatore del Psi a rompere la sua alleanza con Iv, a prendere le distanze da quello che egli stesso ha denominato “azzardo non condivisibile”, e a dare quindi il suo sostegno al governo. Anche un esponente del M5s ha definito gioco d’azzardo quello del Giamburrasca toscano (così lo definisce Augias), ma ha in più avvertito che la cooptazione dei cosiddetti “responsabili” in questa nuova guerra tra guelfi e ghibellini, tra nazionalisti e internazionalisti, tra demolitori e costruttori si potrebbe rivelare un sorta di cavallo di Troia. Nel senso che gli astiosi e astuti achei potrebbero usarli per impossessarsi della rocca di Ilio.

Quanto infine all’incomprensibilità di quella strana mossa sulla affollatissima scacchiera della politica italiana, certo del tutto indecifrabile essa è subito parsa a molti politici. Una mossa laterale e latente, tipica del cavallo, dettata da ragioni non solo politico-strategiche, ma anche psico-politiche. Non vogliamo qui tornare su queste ultime, ossia sui noti aspetti caratteriali del soggetto, del giocatore d’azzardo. Più interessante è piuttosto soffermarsi sulla trama politica che con quella manovra avrebbe voluto tessere e realizzare. Non è tanto difficile da cogliere e da comprendere. Avrebbe voluto sparigliare il tavolo del governo affinché lui, che ne ha favorito la nascita, e i componenti della sua piccola ma imprescindibile squadra, potessero avere un ruolo chiave nella gestione dell’emergenza. Perché lui, con la sua annosa esperienza politica alle spalle, fatta dei già citati momenti gloriosi, si ritiene in queste cose più capace di un semplice “avvocato”. Lui, che certamente dirà che la sua astensione è stata anch’essa motivata da un atto di responsabilità. Mentre invece non è, lo si comprende facilmente, che un modo come un altro per lasciarsi aperta una porta dalla quale potrebbe essere ripescato per via di qualche strano calcolo di palazzo. Nel caso in cui poi questa porta non riuscisse a dischiudersi (ecco un altro elemento della sua comprensibile trama), potrebbe aprirglisi, lo abbiamo già accennato, la finestra, il possibile spiraglio di un governo di solidarietà nazionale in una coalizione partitica a guida centro-destra. Col rischio, in quest’ultimo caso, che nel momento in cui si andrà alle urne, nel 2023, egli sarà costretto a ripassare all’opposizione, visto che molto verosimilmente il centro-destra riuscirà a governare con le sue sole forze. Ma chi se la sentirà, chi avrà l’ardire allora nel centro-sinistra di stipulare un nuovo patto di legislatura con questo senatore poco affidabile, con questo nuovo Don Chisciotte della politica? Egli, come si è visto, ama il rischio, l’impresa ad effetto. Anche se a rischiare non è tanto e solo lui, ma anche l’insieme dei Sancho Panza, cioè l’intero Paese. E se crede, come dice il poeta, che è dal pericolo che potrebbe nascere la sua salvezza, noi da parte nostra confidiamo che pur nella sua costitutiva balnearità questo governo parlamentare abbia comunque in sé la capacità di sottrarci alle grinfie del nulla, di portarci tutti quanti, prima o poi, fuori dal buio, lungo e noioso tunnel della pandemia. Ma questo esito positivo, ormai dovrebbe essere chiaro a tutti, dipenderà anche da noi. Soprattutto da noi.

Ivrea, 23 gennaio 2021

IL LAVORATORE

Pubblicato nel periodico di Trieste Il Lavoratore il mio scritto sul volume Lucio LIBERTINI.


In “Il Lavoratore”, dicembre 2020, Trieste.

Sergio Dalmasso, LUCIO LIBERTINI, lungo viaggio nella sinistra italiana, Milano, ed. Punto rosso, 2020.

Download “Il Lavoratore di Trieste Lucio Libertini” Articolo-Dalmasso-Libertini-trieste-Il-Lavoratore-2020.pdf – Scaricato 18887 volte – 217,10 KB

Nei suoi ultimi anni, Lucio Libertini (Catania 1922- Roma 1993) aveva intenzione di scrivere la propria biografia politica, Lungo viaggio nella sinistra italiana.Libro di Sergio DALMASSO su Lucio Libertini

I pressanti impegni politici (tutt* ricordano la sua generosità) e la morte improvvisa (agosto 1993) hanno impedito che il testo andasse oltre le prime pagine ed un schema, scritto a mano.

Il mio libro non è una tradizionale biografia. Mancano totalmente dati sulla vita personale (ambiente famigliare, studi, adolescenza, gioventù…).

Inoltre, la chiusura di biblioteche ed archivi, causa Covid, mi ha impedito, al momento della stesura definitiva, di accedere ad alcuni documenti che avrei voluto consultare.

Ho tentato di scrivere una “storia” interamente politica seguendo lo schema e l’impostazione che lo stesso Libertini avrebbe voluto offrire.

Libertini ha fatto parte, dal 1944, di molte formazioni. La prima è, per brevissimo tempo, quella dei demolaburisti (Bonomi, Ruini) di cui parlava con molta reticenza e da cui esce, dopo pochi mesi, con i giovani, vicini alle posizioni, europeiste e federaliste, del socialista Eugenio Colorni.

Quindi, nel PSI, la corrente di Iniziativa socialista, che tenta con mille difficoltà e contraddizioni, di non appiattirsi sulle due opzioni maggioritarie, quella filosovietica e frontista e quella tradizionalmente riformista.

L’equilibrio è difficile, contraddittorio, proprio di giovani privi di esperienza politica e schiacciati dalla morsa della bipolarizzazione del mondo e, conseguentemente, degli schieramenti politici nazionali.

L’approdo è la scissione socialdemocratica di Saragat (gennaio 1947) nel tentativo di costruzione di una forza socialista autonoma fra i due blocchi.

La scelta governista e atlantista di Saragat e il suo progressivo abbandono dell’ipotesi di “socialismo dei ceti medi” e di un “umanesimo marxista”, proprio del suo pensiero negli anni ’30, produce una diaspora nel gruppo di Iniziativa.

Libertini, dopo una battaglia interna che tenta di rilanciare una ipotesi autonoma, ma che è sconfitta dall’apparato socialdemocratico, lascia (1949) il nuovo partito.

Dal 1951 al 1957, la partecipazione all’Unione socialisti indipendenti (USI), la formazione di Magnani e Cucchi, usciti dal PCI sulle posizioni di una “via nazionale”, considerata tradizionalmente una sorta di eresia “titina”, ma capace di posizioni originali sulla politica internazionale, l’autonomia sindacale, il rifiuto dei blocchi.

Nel 1957, dopo i fatti del 1956 (denuncia del culto di Stalin, repressione dei moti ungheresi …) l’USI confluisce nel PSI.

E’ la scelta per la sinistra del partito, contraria all’accordo di governo con la DC, ma soprattutto del rapporto organico con Raniero Panzieri che produce la migliore stagione della rivista “Mondo operaio” e le Sette tesi sul controllo operaio,

il documento più organico di una sinistra diversa da quella maggioritaria (Togliatti e Nenni), che vede nella centralità operaia e nell’”uscita a sinistra” dallo stalinismo, il cardine per la costruzione dell’egemonia del movimento operaio,

in una fase di profonda modificazione della struttura economica nazionale (inserimento dell’Italia nel capitalismo avanzato, crescita industriale, migrazione interna…).

Le sue capacità giornalistiche lo portano ad essere direttore del periodico della sinistra “Mondo nuovo” (lo era stato anche del settimanale dell’USI, “Risorgimento socialista”).

L’ingresso del PSI nei governi di centro-sinistra produce una nuova scissione e la formazione del PSIUP, di cui è fondatore, dirigente e in cui assume posizioni di sinistra, critiche verso le opzioni maggioritarie (Due strategie), sia sulle ipotesi nazionali (critica frontale al centro-sinistra,

alla socialdemocratizzazione, ai progressivi spostamenti del PCI), sia su quelle internazionali (critica al socialismo realizzato, attenzione alle esperienze rivoluzionarie nel “terzo mondo”).

Alla scomparsa di questo (1972), la scelta è per il PCI, formazione che maggiormente esprime istanze operaie e popolari.

Non rinnega le esperienze passate, ma ne coglie criticamente, il minoritarismo, l’inefficacia.

Dopo un ostracismo iniziale, in cui paga le posizioni eterodosse lungamente espresse, è vice-presidente della Giunta regionale piemontese, parlamentare, responsabile nazionale della commissione trasporti.

Negli anni dell’”unità nazionale” è continua la sua preoccupazione di un progressivo distacco rispetto alle istanze di base, ai bisogni popolari che non possono essere immolati sull’altare degli accordi politici.

Tra il 1989 e il 1991, l’opposizione alle scelte di Occhetto (la Bolognina) e la fondazione di Rifondazione.
E’ il primo capogruppo al Senato, instancabile organizzatore.

Può sembrare contraddittorio il suo avvicinamento a Cossutta, nello scontro interno che porta alla sostituzione, come segretario, di Sergio Garavini (luglio 1993).

Al di là delle banali accuse di “scissionismo”, di “globe trotter” della politica”, stupidamente presenti in molti commenti seguiti alla sua scomparsa e colpevolmente al centro di un comizio di Occhetto ai cancelli della FIAT (1992),

Libertini ha sempre rivendicato una linearità e una coerenza, segnata dal rifiuto dei blocchi, dalla critica allo stalinismo, dalla ricerca di una sinistra popolare ed autonoma.

Rifondazione esprimeva la continuità di un impegno, la certezza nel futuro della prospettiva comunista, oggi minoritaria,

ma storicamente vincente, la possibilità di ricostruire un rapporto di massa con i grandi settori popolari, davanti al ritorno della destra e alla semplificazione autoritaria portata dal sistema elettorale maggioritario.

Il libro ricostruisce questo percorso, i suoi molti scritti, “eresie” dimenticate, dibattiti, scelte generose,

anche se minoritarie, figure della sinistra maggioritaria e di un’altra, spesso emarginata (Magnani, Codignola, Maitan, Panzieri, Ferraris…),

sconfitta, ma capace di contributi e di analisi sulla realtà nazionale e internazionale, le sue trasformazioni, le prospettive.

In appendice, i suoi scritti sulla rivista “La Sinistra” (1966-1967) che sarà oggetto di un mio prossimo opuscolo e una testimonianza di Luigi Vinci.

Attraverso una figura lineare e coerente, il testo ripercorre mezzo secolo della nostra storia, di successi, errori, scacchi, potenzialità, occasioni mancate dell’intera sinistra italiana.

Non è un caso che, in un supplemento di “Liberazione”, a lui dedicato, poco dopo la sua morte, il grande storico Enzo Santarelli, ne ripercorresse soprattutto le pagine meno note, ormai perse nel tempo, forse quelle, che pur non maggioritarie, meglio delineano questa personalità che il mio libro tenta di riportare all’attenzione

Spero che i mesi prossimi permettano presentazioni, discussioni, critiche, ad oggi impedite dal Covid, su queste pagine.

Sergio Dalmasso

 

Indice dei nomi

 

Addio Lidia Menapace

di Sergio Dalmasso

Ho incontrato, per la prima volta Lidia Menapace a Roma, nel luglio 1970, ad una delle prime assemblee nazionali del Manifesto.

Eravamo partiti da Genova, viaggiando di notte (le cuccette erano un lusso impossibile) in treno, Giacomo Casarino ed io, arrivando a Roma, morti di sonno, in una giornata caldissima di luglio.

Morta Lidia Menapace 7 dicembre 2020Ci era stata consegnata la prima stesura delle “Tesi sul comunismo”, in una assemblea che si sarebbe dovuta svolgere a piazza del Grillo, ma data la partecipazione, si svolse a Montesacro.

Lidia era la più simpatica, la più disponibile fra i/le dirigenti che, a noi ventenni, sembravano di altra età, generazione, formazione e incutevano rispetto (Natoli, Rossanda…).

Quando si telefonava a Roma per chiedere che qualcun* partecipasse a dibattiti, incontri… arrivava sempre Lidia, puntualissima, precisissima.

Decine di riunioni della commissione scuola (ricordate le critiche ai “decreti Malfatti”?, poi il referendum per difendere il divorzio.

Ancora lei, dappertutto.

Ai temi usuali, il Manifesto aggiungeva tematiche insolite e originali, riprendendo riflessione dell’UDI sulla famiglia, il ruolo della donna; Lidia, per la sua formazione cattolica e democristiana era anche tramite con comunità di base, settori allora attivissimi su questo e altri temi.

Rimase stupita quando ad Alba (Cuneo), la sala prenotata si dimostrò troppo piccola per la partecipazione enorme e fummo messi in una palestra. Lo racconto sul “manifesto”.

Poi l’ennesima scissione, DP e PdUP, il suo ruolo di consigliera regionale nel Lazio, i suoi articoli e libri, le migliaia di assemblee, incontri su scuola, pace/guerra, il no al servizio militare per le donne, l’originalità e centralità della tematica di genere che spesso, a sinistra, veniva ridotta a servizi sociali, maternità, asili…

Nei primi anni di questo secolo, l’avvicinamento e poi l’iscrizione a Rifondazione. Incontri dappertutto, pur in una situazione difficilissima, partecipazione a convegni, direttorA (non voleva il termine direttrice che le ricordava le scuole elementari) della prima “Su la testa,” rivista mensile, consigliera provinciale (dopo due consigli regionali e il Senato!) a Novara, città in cui era nata.

A più di 90 anni era sempre in moto, in treno, dalla sua Bolzano nell’Italia intera per collettivi di donne, associazioni pacifiste, ambientaliste, per l’ANPI di cui era dirigente nazionale: “Sono ex insegnante, ex senatrice, ma sempre partigiana”.

Tre aneddoti:

– 2004. Abbiamo un incontro pubblico con lei, a Cuneo. Leggo su “Liberazione” della morte del marito. Le scrivo dicendole che possiamo annullarlo, che non si faccia obblighi con noi. Risposta: “Arriverò. Alla mia età, se ci si ferma, non si riparte più”.

– 2010: per le elezioni regionali piemontesi, nostra assemblea a Bra, città sede di uno dei più attivi e capaci circoli del vecchio PdUP. Era convinta che tant* sarebbero venuti a rivederla, salutarla, dopo una militanza comune, di anni. Neppure un*. Il deserto. Era rimasta molto addolorata e colpita. Non uso aggettivi e tristi considerazioni antropologiche sul settarismo di “sinistra”.

– 2016. per il compleanno di Rosa Luxemburg, a Cuneo, viene fondato un circolo Arci che prende il suo nome. Mi viene chiesta una relazione su vita ed opere. Al dibattito partecipa anche Lidia (per me un onore).

Al termine mi dice di mettere per scritto quanto ho detto. Lei avrebbe aggiunto un suo testo e ne sarebbe nato un libro, a quattro mani, per l’editore Manni. Altro onore per me. Scrivo, diligentemente il mio compitino. Il suo testo non arriverà mai, nonostante, lettere, e-mail, telefonate…

Dopo due anni e mezzo alla “critica roditrice del computer”, “Una donna chiamata rivoluzione” uscirà presso la Redstarpress che ancora ringrazio.

Mesi fa se ne è andata Rossana Rossanda. Prima di lei Natoli, Pintor, Magri, vinto anche dalla sconfitta politica e da un mondo in cui non si riconosceva più. È il nostro passato che ci lascia, in una realtà sempre più drammatica.

Lidia Menapace negli anni Sessanta

Essere stato amico di Lidia e avere condiviso tratti di percorso con lei è stato per me (e non solo) molto bello ed importante.

Con affetto.

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Scuola Costituzione

L’IDEA DI SCUOLA NELLO SPIRITO DELLA COSTITUZIONE

Franco Di Giorgi

Scuola e Costituzione articolo di Franco Di Giorgi

La scuola viene generalmente considerata come una fonte inesauribile di acqua alla quale, simili a otri vuoti o ad agnelli guidati da pastori istruiti, gli studenti vengono per un certo tempo a riempirsi o a colmare la loro potenziale sete di sapere.

A distanza di qualche anno dall’insegnamento mi rendo conto però che l’avevo sempre praticata diversamente, cioè al contrario.

Ho sempre insegnato infatti nella convinzione che l’aula di una scuola fosse una conca vuota situata al centro di un’arida agorà, libera e aperta a tutti e ad ogni discussione, una sorta di bacino verso il quale studenti e docenti confluissero ogni giorno per riempirla con la propria acqua, ognuno con le proprie energie intellettuali, con i propri flussi vitali, coi i propri vissuti.

In tal modo, ciascuno, come si dice, portava acqua al mulino della scuola, dissetandosi vicendevolmente con la medesima acqua, scambiandosi talvolta i bicchieri l’uno con l’altro,

acqua che nel tempo la scuola stessa distribuiva a tutti i futuri alunni e insegnanti sotto forma di esperienza didattica, competenza metodologica, ricchezza pedagogica e culturale.

Ma questo diverso modo di intendere e di praticare la scuola, non rispecchia forse l’idea che sta alla base della nostra Costituzione?

Ogni cittadino della nostra Repubblica, volutamente democratica e proprio in quanto democratica, non è forse esortato da questa Carta ad adempiere il dovere etico e quindi civico di recare allo Stato, secondo il principio della proporzionalità,

il suo personale contributo sia come esborso sia come impegno che come partecipazione attiva, diretta o indiretta, alla cosa pubblica, e ciò all’unico scopo di mettere lo Stato in grado di redistribuire questi beni, acquisiti dal senso del dovere, sotto forma di diritti?

Pertanto, se oggi, in questo aspro e lungo periodo di pandemia, in attesa del vaccino salvifico e del Recovery Fund, la scuola più che un comune abbeveratoio culturale si rivela purtroppo in una delle sue funzioni più criticate,

cioè quella di Recovery Place, ciò non deve indignare oltremodo, almeno o soprattutto in questo momento, poiché, pur determinando in parte un inevitabile aumento dei contagi, essa va incontro alle esigenze delle famiglie,

il cui lavoro, come sappiamo, è fondamentale e quindi indispensabile sia per esse, affinché possano dare il loro doveroso contributo allo Stato, sia alla stessa Repubblica, affinché possa redistribuirli ai cittadini in forma di diritti.

Non per nulla, infatti, il lavoro compare già al primo fra gli articoli fondamentali della Costituzione.

Sicché, come ogni studente e ogni docente, al di là di ogni programma e programmazione, ha il dovere di apportare nella propria classe il proprio singolare e personale contributo spirituale, così, in quanto facente parte di uno Stato, ogni cittadino, all’interno del comune di appartenenza, acquisisce e matura diritti di cui può godere solo dopo aver adempiuto al proprio dovere.

IVREA, 10 ottobre 2020

Franco Di Giorgi docente di storia e filosofia

Sergio Dalmasso su Le Monde diplomatique

Recensione Le monde diplomatique di Libertini, Una limpida storia minore di Alessandro Barile

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Una limpida storia minore di Alessandro Barile

Recensione su Le Monde diplomatique. Libro su Lucio Libertini di Sergio Dalmasso.

Pubblicata una bella recensione di Alessandro Barile su Le Monde diplomatique, edizione italiana, supplemento de Il manifesto, 15 luglio 2020.

Lucio Libertini fa parte di una storia minore della sinistra italiana del dopoguerra: quella della sinistra socialista,
corrente eretica del Psi prima, protagonista della breve stagione del Psiup poi (dal ’64 al ’72), e infine confluita nel Pci una volta fallita ogni speranza di incunearsi tra i due partiti del riformismo operaio.
Una storia onorevole, dai molti meriti e con l’importante demerito di essere arrivata sempre troppo presto, o troppo tardi, agli eventi politici decisivi.

Troppo presto, ad esempio, quando nel febbraio del ’58 lo stesso Libertini e Raniero Panzieri pubblicarono quelle Sette tesi sulla questione del controllo operaio che costituirono l’antefatto dell’operaismo italiano.

Insieme davvero a pochi altri (Fortini, ad esempio), il gruppo legato alla sinistra del Psi – tra gli altri Vecchietti, Ferraris, Panzieri, Lussu, in parte anche Lelio Basso – fu tra i pochissimi che tentò di rispondere alla “crisi dello stalinismo” non cedendo alle ragioni della socialdemocrazia, e anzi rilanciando l’opzione del conflitto in fabbrica e tra le nuove generazioni proletarie.

Continua …

Recensione Le Monde diplomatique: Una limpida storia minore

Il libro di Sergio Dalmasso è acquistabile nelle librerie servite da Edizioni Punto Rosso od online, presente su Amazon.

Libro Lucio Libertini. Lungo viaggio nella sinistra italiana di Sergio Dalmasso 2020

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Postfazione del libro Lucio Libertini. Lungo viaggio nella sinistra italiana di Luigi Vinci.

In appendice vi sono alcuni articoli di Libertini usciti sulla rivista “La sinistra“.

Nel quaderno CIPEC 67 vi sono gli interventi in consiglio regionale del Piemonte di Lucio Libertini 1975-1976:

Download “Quaderno CIPEC N. 67 (Lucio Libertini. Interventi al consiglio regionale del Piemonte 1975-1976)” Quaderno-CIPEC-Numero-67.pdf – Scaricato 21247 volte – 1,72 MB

Ennio Morricone al Parco della Cittadella di Parma nel 2018.

Ennio Morricone

 

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FRANCO DI GIORGI:

ENNIO MORRICONE E L’ALTERITÀ DELLA MUSICA

Compito della colonna sonora di un film, secondo Ennio Morricone, è di dar voce a ciò che nel film non c’è e non si vede.

Essa deve esprimere non il visibile ma l’invisibile, non il detto e il dicibile, ma il non detto e l’indicibile, non l’essere e nemmeno il non essere, ma l’altrimenti che essere, non la realtà e neppure il sogno, ma l’utopia, non il se stesso e tanto meno il si stesso, bensì l’altro, non la luce, non la penombra, ma l’ombra.

Solo incarnando un tale compito un prodotto della creatività umana diventa opera d’arte, opera cioè non dell’uomo, dell’artista, di colui che si trova ad essere artista, ma dell’arte stessa che è in lui.

Giacché è proprio in lui, con lui e in virtù del suo genio ereditato che ha inizio quel compito rivelatore di tutto ciò che, come altrimenti che essere, in quanto invisibile, indescrivibile, inesprimibile, irrappresentabile, permane e ha il suo regno nell’ombra.

Qualsiasi arte è vera quando si assume questo compito, il quale comporta sempre un lavoro straordinario, simile a quello in cui è impegnato nottetempo l’artigiano leopardiano del Sabato del villaggio, un’attività che si svolge nell’oscurità silente della coscienza, percorrendo sentieri ignoti alla ragione perché sfuggono alla sensibilità e restano inimmaginabili per la rappresentazione.

Cos’è d’altronde che rende speciale la fotografia, se non il fatto che come istantanea essa riesce a cogliere in un istante ciò che mai la realtà tangibile e visibile rivelerebbe ai nostri occhi?

Cos’è che rende così sorprendenti i romanzi di Flaubert se non quella misteriosa inclinazione a trascurare l’essere visibile e a costringere l’autore, divenuto un vero apologeta del non essere, a soffermarsi con le sue infinite iperdescrizioni proprio sull’impercettibile e sull’indicibile? E non era proprio a questa dedizione all’Auftrag, al difficile lavoro rivelativo, a questa tendenza a mantenersi nel difficile che Rilke esortava i giovani poeti?

Tutta quanta la Recherche proustiana non rappresenta proprio questo lungo e difficile travail, questo sforzo continuo teso a recuperare e a valorizzare i mille elementi di tenerezza che preesistevano già allo stato frammentario nell’anima dello scrittore e che la memoria volontaria ha eliminato dalla coscienza? E ancora lui, il poeta delle Elegie duinesi, non ha forse voluto fare del mondo interiore, del Weltinnerraum, il luogo utopico in cui conservare e salvare proprio l’essenza invisibile delle cose visibili?

A dare sostanza spirituale ai romanzi di Dostoevskij e di Tolstoj non sono forse proprio quei rari momenti di trascendenza che con la loro debole e subitanea luminosità riescono a gettare un po’ di luce perfino nelle tenebre più fitte?

E cosa ci colpisce poi dell’Angelus di Millet, uno dei pochi pittori apprezzati dall’autore di Anna Karenina, se non quell’assenza celeste che aleggia sulla terra faticosamente coltivata e che assieme all’aria tiepida del meriggio estivo e all’immenso cielo sovrastante invita i due giovani contadini a sospendere il lavoro, a congiungere le mani e a piegare le loro fronti sudate, disponendoli così devotamente all’attesa, all’ascolto, all’accoglienza e soprattutto all’accettazione della loro appartenenza ad essa, cioè alla divina assenza?

Che cos’è poi di un’opera d’arte che strappa al nostro spirito il giudizio estetico del tutto spontaneo e disinteressato – “Bello!” – se non il fatto che essa riesce a cogliere e a rendere visibile quella bellezza aderente alla realtà che semplicemente sfugge alla sensazione? Oggi, che nemmeno l’occhio di un bambino è più capace di cogliere l’aspetto “altro” della realtà, solo l’arte, quella vera, quella che ha che fare con l’inappariscente, col non essere e con l’utopia, può svelarci la bellezza della realtà esteriore e interiore, offrendoci così la possibilità di valorizzare e insieme di salvare l’essere, tutto l’essere, e quindi anche se stessi.

Ciò che non è, dunque, i non essenti, i ta me onta, scriveva Paolo di Tarso nella Lettera ai Romani, potranno allora ancora una volta salvare gli onta, ciò che è, gli essenti? Forse.

Ma ancora: che cosa se non la musica, con la sua essenziale inconsistenza e con la sorprendente e inquietante immaterialità, con la sua intima fuggevolezza, svelandoci la sua bellezza proprio quando ci svela, cosa, dunque, se non essa, questa sempre benedetta arte dei suoni, riesce a ricondurci in quelle utopiche alterità, in quella vita vera, nella nostra vita, che l’esistenza reale e unidimensionale nega?

Con Rilke si potrebbe dire che essa ci traspone dall’altra parte del mondo, in una dimensione altra e alternativa, consentendoci di compiere un’esperienza di pieno appagamento, pur non avendola tuttavia mai richiesta e ancor meno meritata.

Si provi ad esempio ad ascoltare la Terza sinfonia di Mahler lasciando fluttuare l’attenzione in particolare sull’ultimo movimento, il Langsam, Ruhevoll, Empfunden: ebbene esso ci rivelerà il luogo della vita, il luogo della nostra vita, ossia, appunto, l’altrimenti che essere, l’altro che si trova dall’altra parte del mondo, in quella dimensione utopica che ci apparirà assai debole e rilassata rispetto alla confusa e fragorosa, volgare e affannosa unidimensionalità delineata nel primo movimento, forte e deciso (Kräftig entschieden).

Pur senza averlo richiesto e meritato, per un puro gesto d’amore, questa musica ci seduce e ci conduce fuori dalla nervosa realtà della rappresentazione dominata dal tempo, dallo spazio e dalla causalità, e ci invita a vivere intimamente (Empfunden), cioè profondamente, una vita piena di quiete (Ruhevoll), in cui le distanze spaziali, aprendosi all’infinito, si fanno sterminate e la lentezza temporale sembra desiderosa d’eterno.

Dopo essersi slegate dal groviglio affannoso delle marcette iniziali, con l’incessante estensione dello spazio e del tempo anche le note si allungano, si legano e si appoggiano l’una all’altra liberamente, in un legato unico, quasi in un’unica appoggiatura; ora esse generano nell’anima una lentezza e una larghezza inaudite che le consentono di distendersi a piacere, di rilassarsi e di avvertire un piacere mai provato prima. In questa imprevedibile distensione essa prende coscienza della differenza tra temporalità ed eternità, tra il qui e l’altrove, tra il finito e l’infinito, tra la realtà e l’utopia, insomma, per dirla con le parole del maestro Morricone, tra ciò che in un film si vede e appare, tra ciò che in esso viene raccontato, e ciò che in esso invece non si vede e non può apparire.

Questa estesa lunghezza di note legate in un tempo disteso e rilassato è tipica delle sue colonne sonore, delle sue composizioni: pensiamo, solo per fare qualche esempio, a opere cinematografiche come Mission (1986), La leggenda del pianista nell’oceano (1988), Nuovo cinema paradiso (1989), Baarìa (2009), La migliore offerta (2013), il primo del regista anglo-francese Roland Joffé, gli altri quattro sono di Giuseppe Tornatore; essa è la cifra che connota il suo stile musicale, una cifra che, oltre che nei Langsam mahleriani, si può cogliere altrettanto marcatamente anche negli Adagi di Rachmaninov, nei Preludi wagneriani, negli stessi Corali bachiani e persino nei canti gregoriani.

Come questi musicisti appena citati, infine, a cui certo non si può non aggiungere anche il suo preferito Mozart e Beethoven, le cui arie emergono dalle profondità dell’anima come perle preziose e perfette, anche Morricone, in virtù di una misteriosa alchimia, ignota persino a lui medesimo, sapeva donare alla lunga e quieta lentezza delle sue note anche la dolcezza del canto, ossia quella bellezza spirituale che, insieme alla Ruhe, alla quiete, commuove alla bontà e alla pace.

Questo saper donare è proprio del genio dell’arte, la quale si serve di alcuni uomini, di suoi spiriti eletti, spesso di quelli più problematici e fragili, per annunciare all’umanità l’utopia, una terra promessa.

Franco Di Giorgi – Ivrea, 11 luglio 2020

Lucio Libertini

Lucio Libertini e la storia della sinistra italiana

8 Luglio 2020, di Franco Ferrari

Articolo recensione su Tranform.

Lucio Libertini, dirigente e senatore del Partito della Rifondazione Comunista, è scomparso nell’agosto del 1993 a seguito di una grave malattia.

La sua storia politica lo ha visto protagonista di diverse realtà di partito lungo un filo caratterizzato dall’adesione ad un’idea di un socialismo di sinistra, antistalinista e classista. Lucio Libertini. Lungo viaggio nella sinistra italiana di Sergio Dalmasso 2020

Questa sua lunga e a volte travagliata, ma sostanzialmente coerente, esperienza, iniziata quando era ancora in corso la seconda guerra mondiale, non può non stimolare interesse ed anche interrogativi.

Si è cimentato nell’impresa di condensare il suo lungo viaggio politico in un libro, Sergio Dalmasso, storico che ha sempre dedicato grande attenzione alle diverse esperienze del socialismo di sinistra in Italia (Lucio Libertini. Lungo viaggio nella sinistra italiana, Edizioni Punto Rosso, Milano, 2020, 18 euro).

Una storia ricca di personalità importanti, anche se, va detto, quasi mai trovatesi a spingere tutti insieme nella stessa direzione politica.

Basti ricordare, oltre al nome di Libertini, quelli di Lelio Basso, Rodolfo Morandi, Raniero Panzieri, Vittorio Foa.

C’è stato chi ha strumentalmente ironizzato su un Libertini scissionista ma, in realtà, le sue scelte sono sempre state animate dal tentativo di trovare uno strumento politico in cui potesse trovare spazio la sua idea di lotta per la trasformazione socialista, animata dal protagonismo della classe operaia e dei lavoratori in generale.

Anche scelte che, in sede di bilancio storico, si possono ritenere sbagliate (non tanto alla luce della valutazione dei posteri, quanto rispetto ai suoi stessi obbiettivi politici), non sono mai interpretabili come una forma di trasformismo politico, di cui abbiamo invece tanti esempi in tempi più recenti.

Tra “morandiani” e “saragattiani”

Nato a Catania (da una famiglia che poteva contare baroni e senatori del Regno), ha iniziato giovanissimo ad impegnarsi nell’azione politica.

La prima esperienza, da giovane iscritto alla facoltà di scienze politiche dell’Università romana, lo spinse verso il Partito Democratico del Lavoro, una piccola formazione di riformisti moderato.

Difficile capire le ragioni che lo portarono ad aderire ad un partito fondato da vecchi notabili del prefascismo come Ivanoe Bonomi e Meuccio Ruini.

Fu infatti esperienze breve e non particolarmente significativa.

Da questo versante, il libro di Dalmasso non ci dice molto perché non è una biografia in senso classico e quindi non indugia su aspetti della vita privata o su motivazioni psicologiche.

E’ invece l’attenta ricostruzione di un percorso politico.

Si può dire che il giovane Libertini si trovò ad assumere subito ruoli di un certo rilievo e lo fece con lo spirito battagliero che lo ha contraddistinto per tutta la vita.

Entra a far parte della corrente di Iniziativa Socialista.

Si trattava di una delle componenti che operavano nel Partito Socialista di Unità Proletaria, nel quale erano confluite le diverse anime socialiste.

Nel PSIUP si aprì subito il confronto fra le varie correnti divise soprattutto dal rapporto con il PCI.

Ad una sinistra classista e unitaria, nonché apertamente filosovietica sul piano internazionale, faceva da contrasto una tendenza più moderata che cercava una linea autonomista e di riformismo classico ispirato ai partiti che si andavano riorganizzando nella Internazionale Socialista. In questa polarizzazione, Iniziativa Socialista costituiva un’anomalia.

Sul piano della politica interna tendeva a collocarsi a sinistra del PCI, di cui criticava la strategia della collaborazione con le forze moderate ed in particolare con la DC.

Sul piano internazionale era invece polemica verso l’egemonia staliniana sul movimento comunista e la sua eccessiva subordinazione agli interessi dell’Unione Sovietica.

Al momento della scissione del PSIUP, nel 1947, Iniziativa Socialista si alleò con la componente di destra guidata da Saragat e raggruppata attorno alla rivista “Critica Sociale”, per dar vita alla scissione detta di Palazzo Barberini, dal nome del luogo dove venne fondato il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani.

Iniziativa Socialista portò al nuovo partito (la cui sigla faceva PSLI, da cui la sarcastica definizione di “piselli” attribuita ai suoi militanti) la maggioranza dell’organizzazione giovanile del PSIUP.

Molto scarse furono invece le adesioni da parte della base operaia socialista che dimostrò di avere maggior fiuto politico.

Fra gli esponenti di “Iniziativa Socialista” vi era anche Livio Maitan che diverrà poi il principale esponente del movimento trotskista in Italia e uno dei massimi leader della Quarta Internazionale.

Secondo la posteriore ricostruzione di Maitan, il gruppo dirigente di Iniziativa Socialista, composto soprattutto da giovani, pensava di poter conquistare la maggioranza nel nuovo partito e quindi di condizionare Saragat, portando il PSLI ad una collocazione di opposizione al governo tripartito guidato da De Gasperi e di sostegno alla neutralità dell’Italia nella nascente contrapposizione tra blocchi.

Libertini dichiarò poi di essere stato molto scettico sulla scelta della corrente a cui apparteneva.

Saragat cercò di convincerlo con un discorso infarcito da citazioni di Marx e di Engels. Nonostante i dubbi, come ricostruisce Dalmasso, Libertini partecipò alla costruzione e alla direzione del PSLI.

Nel giro di pochi mesi il partito di Saragat (che poi diventerà PSDI a seguito di ulteriori scissioni e ricomposizioni) si sposterà a destra ed entrerà nel governo neocentrista guidato dalla Democrazia Cristiana diventandone un alleato fedele e subalterno per diversi decenni.

“Iniziativa Socialista” si disgregò rapidamente a fronte della maggiore abilità manovriera dei vecchi riformisti.

Una parte di essa, guidata da Maitan e da altri che poi seguiranno percorsi diversi, ne uscì prima delle elezioni del 1948. Ne nacque un piccolo movimento che aderì al Fronte Democratico Popolare formato da PCI e PSI.

Libertini, in posizione di dissenso con l’orientamento sempre più moderato che prevaleva nel partito, vi rimase qualche anno ma evidentemente le sue posizioni diventavano sempre più incompatibili con quelle dei “saragattiani”.

A differenza di altri, come lo storico Gaetano Arfé, non ritenne di poter rientrare nel PSI che considerava ancora troppo allineato alla logica dei campi contrapposti, né di seguire Maitan nella formazione di un’organizzazione affiliata alla Quarta Internazionale, che considerava troppo schematica e settaria.

Il “socialismo indipendente” di Valdo Magnani

L’opportunità di partecipare ad un’esperienza che fosse collocata nel campo del socialismo (ben distinto da quello socialdemocratico) ma critica dello stalinismo, si aprì con la dissidenza dei parlamentari comunisti Valdo Magnani e Aldo Cucchi.

Sorta a seguito della rottura tra la Jugoslavia di Tito e l’URSS di Stalin, anche se non direttamente causata da questa, la posizione di Magnani, sicuramente la figura politicamente più rilevante, cercava di difendere quegli aspetti della via nazionale al socialismo che si erano intravisti nella politica togliattiana dell’immediato dopoguerra per essere poi accantonati con la guerra fredda e l’irrigidimento del blocco socialista imposto dalla linea cominformista.

I due parlamentari comunisti diedero vita, nel 1951, al Movimento dei Lavoratori Italiani (MLI) che poi si trasformerà in Unione Socialista Indipendente (USI).

La radicalità della contrapposizione che caratterizzò la prima metà degli anni ’50 e che non era solo un riflesso della guerra fredda a livello internazionale ma anche dell’asprezza del conflitto sociale in Italia (sono anni di massacri di lavoratori da parte della Celere, di repressioni poliziesche, di licenziamenti politici, di persecuzione di partigiani) non lasciava spazio ad una posizione di non allineamento. Lo stesso PSI era non meno filosovietico del PCI.

Lucio Libertini aderì all’organizzazione di Valdo Magnani (sprezzantemente ribattezzata dai comunisti “i Magnacucchi”) nelle cui file agirono personalità di varia provenienza politica e non esclusivamente ex comunisti.

Vi svolse un ruolo di primo piano, soprattutto nella direzione del giornale “Risorgimento Socialista”, che gli venne affidata nel 1954.

L’MLI e poi USI non poté contare su adesioni significative e non intaccò la base di consenso del PCI.

Mantenne un rapporto diretto con la direzione comunista jugoslava, dalla quale ricevette anche qualche modesto finanziamento, senza rinunciare in ogni caso ad una certa autonomia di giudizio.

Presente alle elezioni politiche del 1953 contribuì a sconfiggere la cosiddetta legge truffa che avrebbe consentito alla DC e ai suoi alleati di ottenere il 65% dei seggi con il 50% più uno dei voti. I “socialisti indipendenti” guardarono con favore alla destalinizzazione avviata da Krusciov al XX Congresso del PCUS ma la possibilità di un riavvicinamento al PCI, che aveva portato Magnani a riprendere qualche contatto col suo vecchio partito, venne ostacolata dal diverso giudizio espresso sulla rivolta ungherese e sull’intervento sovietico.

Gli avvenimenti – scriveva allora Libertini – investono ormai il PCI della necessità di una scelta che si è cercato invano di ritardare”.

L’anno successivo, l’Unione decise di sciogliersi per confluire nel PSI.

Scelta che anche Libertini sostenne.

Dalmasso traccia il seguente bilancio dell’esperienza dell’USI: “Se l’eredità non è univoca, se la storia di questa piccola formazione è totalmente dimenticata, questa ha comunque espresso tensioni e volontà minoritarie, ma contro i conformismi dominanti.

E’ significativa la presenza di giovani alla prima esperienza politica, come Vittorio Rieser, Franco Galasso, Dario e Liliana Lanzardo e la continuità di molte tematiche nella temperie degli anni ’60 e ’70.”

Dopo il ’56 i rapporti di alleanza fra socialisti e comunisti si allentarono e posizioni più apertamente antistaliniste trovarono maggiore spazio per esprimersi all’interno del PSI.

Dato però che il partito, sotto la guida di Nenni, si spostò in direzione moderata per aprire il percorso politico che si sarebbe concluso con l’alleanza del centro-sinistra, Libertini si trovava ancora una volta collocato in una posizione di minoranza.

Sono gli anni della collaborazione con Raniero Panzieri dalla quale nacquero le famose “Tesi sul controllo operaio”.

Questo documento rilanciava una strategia basata su un ruolo più diretto della classe operaia, a partire dalla grande fabbrica.

La posizione di Libertini era critica verso le posizioni, caratteristiche in particolare di Amendola e della destra comunista, che vedevano come compito principale del movimento operaio quello di superare l’arretratezza storica del capitalismo italiano.

Per Libertini, in questo più vicino alla sinistra comunista di Ingrao, le contraddizioni che emergevano, in una fase di forte crescita economica dell’Italia, erano proprie di un capitalismo maturo e quindi richiedevano obbiettivi più avanzati.

La sfida principale era impedire l’integrazione subalterna della classe operaia nel meccanismo capitalistico.

Le tesi sollevarono un ampio dibattito. Vennero criticate dal PCI perché si riteneva che sottovalutassero il ruolo del partito e rischiassero di rinchiudere l’azione operaia dentro la fabbrica rendendo più difficile l’azione di conquista dell’egemonia sugli altri strati popolari e tra i ceti intermedi.

La collaborazione tra Panzieri e Libertini, attorno alla rivista socialista “Mondoperaio”, durò un paio di anni poi le strade si separarono. Il primo svolse un ruolo soprattutto intellettuale con la fondazione dei Quaderni Rossi, mentre per Libertini l’azione politica non poteva che avvenire attraverso il partito.

Con l’avvio del centro-sinistra e il consolidamento dell’alleanza tra PSI e DC, la sinistra socialista rompe con la maggioranza di Nenni e Lombardi e dà vita al PSIUP, riprendendo il nome che era stato utilizzato dal partito socialista per un breve periodo nella fase della ricostituzione dopo il fascismo.

Libertini aderisce al PSIUP e svolge una importante attività giornalistica, di polemica e di elaborazione, attraverso il settimanale che era stato della sinistra socialista e poi passerà al nuovo partito: “Mondo Nuovo”.

Il PSIUP riesce ad intercettare per alcuni anni dopo la sua nascita i nuovi fermenti che stanno per confluire nei movimenti di protesta del 1968 (giovanile e studentesco) e del 1969 (operaio).

Si apre però un conflitto tra la componente più tradizionale, che ha una visione più istituzionale ed organizzativa del partito (i cosiddetti “morandiani”) e le nuove leve militanti più sensibili alle nuove forme di conflittualità sociale e più aperte alle spinte dal basso.

Libertini, che non era certo un quadro giovane ma nemmeno era stato “morandiano”, si colloca più vicino a queste ultime, pur non condividendone sempre certe spinte estremistiche.

Il PSIUP ottiene un buon risultato elettorale nel 1968 ma non riesce a consolidare la nuova base di consensi. Non contribuisce l’atteggiamento piuttosto ambiguo assunto sull’invasione cecoslovacca.

Mentre il PCI aveva difesa l’esperienza di rinnovamento socialista e condannato l’invasione del Patto di Varsavia, il PSIUP appariva molto più titubante.

Libertini vedeva nella posizione del PCI il rischio che venisse “gestita a destra”, ma anche “potenzialità positive per una alternativa rivoluzionaria e noi in questo senso dobbiamo aprire un dialogo operativo con il PCI”.

Il PSIUP (“partito provvisorio” è stato definito per primo da Arfé) era attraversato da numerosi conflitti, mentre l’anima più radicale inserita nei movimenti tendeva a guardare alle nuove formazioni dell’estrema sinistra che raccoglievano diverse decine di migliaia di militanti.

Nelle elezioni del 1972, il PSIUP scende sotto il 2% e resta escluso dalla ripartizione dei seggi alla Camera dei Deputati (al Senato si era presentato assieme al PCI).

Il gruppo dirigente ne trae la conclusione che non vi sia più spazio per un partito che si collochi tra il PSI e il PCI e non ritiene accettabile l’idea di alcuni di collocarlo a sinistra dei comunisti.

La maggioranza decide la confluenza nel PCI, ma con consistenti minoranze che si volgono al PSI o al mantenimento in vita del partito dando seguito ad un Nuovo PSIUP che poi confluirà col Manifesto nel PDUP per il Comunismo (dove il riferimento al comunismo nel nome non piacerà a molti ex psiuppini).

Libertini, che per molti aspetti era più vicino a quest’ultima componente, decise però a favore dell’ingresso nel PCI.

Una scelta che a molti sembrò in contraddizione con una traiettoria politica che era stata spesso in conflitto e in aperta polemica con la tradizione togliattiana.

All’interno del PCI vi fu una certa resistenza ad accogliere la sua adesione, soprattutto da parte della destra che è sempre stata meno tollerante verso il pluralismo interno al partito.

Da questo scaturì la decisione di pubblicare su Rinascita una lunga lettera a firma di Luciano Gruppi nella quale si chiedeva, con una certa asprezza, quali ragioni portavano Libertini ad entrare nel Partito Comunista, viste le tesi critiche da lui sempre sostenute.

La sua risposta, sempre nella forma della lettera a Rinascita, venne valutata da alcuni come una rinuncia alle sue posizioni, ma in realtà fu un tentativo di mantenere la coerenza di fondo delle sue idee, rivedendo contemporaneamente autocriticamente alcune punte eccessivamente polemiche nei confronti delle politiche e della tradizione teorica del PCI.

Anche sull’esperienza del PSIUP, Dalmasso traccia una rapida valutazione di sintesi: “Si chiude, con eccessiva velocità, la storia organizzata della sinistra socialista in Italia, di cui restano segni ed eredità carsiche in altre esperienze. Il partito paga la piccolezza davanti al PCI e al tempo stesso la sua struttura di ‘partito pesante’.

Paga l’inadeguatezza del quadro morandiano, ma anche la inadeguatezza della minoranza.”

Facendo proprio un giudizio di Franco Livorsi, la fine del PSIUP e la “dispersione del suo lascito” vengono viste come la “fine del ‘lungo sessantotto’ italiano”.

Nel PCI, Libertini poté assumere alcuni ruoli istituzionali di un certo rilievo, anche se non fu un dirigente di primissimo piano.

Orientato piuttosto verso le posizioni della sinistra, mantenne un buon rapporto con Berlinguer e ne difese la politica di alternativa, seguita al fallimento del compromesso storico.

Impegnato a Torino si occupò “con grande documentazione, della politica della Fiat e a delineare le prospettive della più grande industria italiana, la sua strategia e il rapporto con le lotte operaie”.

Download “Quaderno CIPEC N. 67 (Lucio Libertini. Interventi al consiglio regionale del Piemonte 1975-1976)” Quaderno-CIPEC-Numero-67.pdf – Scaricato 21247 volte – 1,72 MB

Un elemento centrale della sua visione politica lo si può riconoscere in un brano della relazione tenuta al convegno torinese sulla struttura industriale del Piemonte e i problemi della sua trasformazione nella crisi dell’economia italiana (concluso da Bruno Trentin) che vale la pena di citare: “Le soluzioni politiche che siano all’altezza dei grandi e difficili problemi dell’economia e della società non solo debbono necessariamente fondarsi sull’unità delle grandi masse popolari, sulla loro forza e capacità complessiva, fuori da ogni settarismo e avventurismo, ma debbono avere in se stesse un giusto rapporto tra il momento del movimento, della lotta e il momento dello Stato e della direzione complessiva.

Non sono realistiche quelle soluzioni che pretendono di ridurre il movimento fine a se stesso e di isolarlo dalle grandi questioni della società e dello Stato.”

Quando avanzò la linea della liquidazione del partito, Libertini si schierò senza esitazioni con il fronte del “no”.

In tutta la fase finale della storia del Partito Comunista la sua principale preoccupazione, sottolinea Dalmasso, era “il timore di offuscamento del rapporto con grandi settori di massa”.

Al momento della trasformazione del PCI in PDS, fu nel gruppo dei promotori di Rifondazione Comunista di cui divenne uno dei principali dirigenti.

Polemizzò con Ingrao sulla possibilità di essere un punto di riferimento rimanendo “nascosti” dentro un partito “non più comunista e a tratti anticomunista”, quando il vecchio leader comunista decise (ma solo per un breve periodo) di restare nel “gorgo” del PDS.

Nel conflitto assai aspro che si aprì nel gruppo dirigente del PRC tra Garavini e Cossutta si trovò alleato al secondo, benché la sua storia avrebbe dovuto trovarlo più naturalmente affiancato al primo.

Ma la sua principale preoccupazione era che il partito non restasse invischiato nelle polemiche interne, ma riprendesse capacità di iniziativa politica e sociale.

Era fondamentalmente ottimista (diremmo l’ottimismo della volontà) pur vedendo tutte le difficoltà determinate dal passaggio al maggioritario e dal formarsi di forti aggregazioni di destra.

Il suo contributo allo sviluppo del PRC, che nasceva, come lui stesso aveva dichiarato, dovendo nuotare controcorrente, fu limitato dalla malattia che lo colpì all’inizio del 1993 e che lo condusse al decesso nell’agosto di quell’anno.

Una sintesi del suo percorso è quella offerta dallo storico Enzo Santarelli, poco tempo dopo la scomparsa di Libertini e che Dalmasso richiama: “Il centro della sua vita è il tentativo di uscire dallo stalinismo, ma da sinistra.

L’approdo è il PCI, il partito che più si è caratterizzato come partito del popolo, dell’unità popolare, che governa dall’opposizione.”

Download saggio di Franco Ferrari su Lucio Libertini:

Download “Lucio Libertini e la storia della sinistra italiana (di Franco Ferrari)” Lucio-Libertini-e-la-storia-della-sinistra-italiana.pdf – Scaricato 19881 volte – 159,30 KB

Condizione postmoderna scuola

 

Condizione postmoderna della scuola

Franco Di Giorgi

LA CONDIZIONE POSTMODERNA DELLA SCUOLA

E IL DESIDERIO DI “NORMALITÀ”

 

Beato l’uomo che sopporta la tentazione [prova] (peirasmós), perché una volta superata la prova [egli, il dókimos, il provato, il saggiato, il messo alla prova] riceverà la corona della vita (stéphanon tes zoes) che il Signore ha promesso a quelli che lo amano (Gc 1, 12).

1. Nel 1979, ormai più di quarant’anni fa, nel suo famoso “Rapporto sul sapere” (meglio noto con il titolo La condition postmoderne) basato su studi di cibernetica e di telematica effettuati negli Stati Uniti e risalenti fino agli anni Trenta, Jean-François Lyotard, uno dei filosofi del pensiero postmoderno, aveva previsto e detto a chiare lettere che con l’introduzione del calcolatore elettronico, con il computer, il destino delle grands narrations sarebbe stato segnato.

Così come sarebbe stato compromesso parallelamente anche il destino dell’istruzione, dell’insegnamento e della trasmissione di queste metanarrazioni o del sapere in generale, con tutti i loro approcci e le loro metodologie. Si veda in particolare il capitolo 12 di questo saggio: “Insegnamento, legittimazione, performatività” (Feltrinelli 1981).

Dopo la delegittimazione posta in essere dalla “incredulità nei confronti delle metanarrazioni” (p. 6), cioè delle grandi ideologie politiche e filosofiche che legittimavano la modernità, il criterio ormai prevalente della performatività, ossia dell’ottimizzazione delle prestazioni resa possibile dall’informatizzazione delle società e del sapere, più che stimolare ideali di emancipazione mira a formare competenze funzionali al potere e quindi al sistema sociale che le sollecita per le sue riconfigurazioni.

Giacché, scrive Lyotard, “la questione nell’era dell’informatica è più che mai la questione del governo” (p. 20) o del potere, appunto. Uno degli esiti evidenti di una tale delegittimazione è ad esempio la riduzione della lotta di classe a “utopia”, a “speranza”, e l’impegno per l’insegnamento tradizionale a una specie di “protesta di principio” (p. 29).

Con l’annuncio della seppur “parziale sostituzione dei docenti con delle macchine”, la postmodernità in ogni caso anticipa e progetta la morte stessa dell’“era del professore” (p. 98).

Quasi a conferma di quanto aveva dedotto nelle pagine della Condizione postmoderna, lo stesso Lyotard nel 1984 pubblicherà un piccolo testo dal titolo significativamente provocatorio: Tombeau de l’intellectuel et autres papieres (Galilée, Paris).

Ora, dal punto di vista postmoderno,

ben lungi dal creare un danno o una perdita, una tale sostituzione tecnologica comporterebbe piuttosto enormi vantaggi sia sul piano performativo o delle prestazioni sia sul piano economico, soprattutto per quegli Stati con un alto debito pubblico.

L’insegnamento basato sulla didattica relazionale poteva avere una sua specifica funzione didattico-pedagogica all’interno di quell’orizzonte umanistico che si può far risalire alla Grecia classica e ai Dialoghi di Platone, e che, con il suo progetto educativo e formativo, è riuscito a resistere alle intemperie del tempo e della storia, affermandosi lungo tutta la modernità.

Già però con la rivoluzione tipografica realizzata da Gutenberg nel 1445, cioè con l’invenzione della tipografia a caratteri mobili, all’interno dell’istituzione religiosa cattolica si era creato un profondo trauma, simile per certi aspetti a quello rilevato dal Fedro platonico a proposito dell’invenzione della scrittura, una profonda e dolorosa cesura, giacché in quella istituzione gli intellettuali erano riusciti a conquistarsi nei secoli una certa prerogativa nella trasmissione di un sapere religioso che, almeno fino al Seicento (ben oltre quindi la prima Rivoluzione scientifica), faceva tutt’uno con il sapere tout court (Machiavelli e Galileo docent).

Grazie poi a Lutero, che si avvantaggerà di quell’invenzione,

e alla sua traduzione del testo sacro nella lingua tedesca, ogni singolo individuo poté leggere la Bibbia direttamente alla propria famiglia all’interno delle mura domestiche,

senza dover andare necessariamente in chiesa, escludendo in tal modo l’intervento di quegli intellettuali ed evitando con ciò stesso anche le loro sottili e capziose interpretazioni.

Dopo circa mezzo secolo, un trauma simile è quello che la rivoluzione delle nuove tecnologie sta producendo all’interno di quell’ampio orizzonte umanistico.

Anche qui, ora, man mano che passa il tempo e con il continuo perfezionamento dei dispositivi tecnologici, i docenti si vedono scalzati nel loro antico appannaggio di comunicatori del sapere in una relazione diretta con i loro discenti (si veda a tal proposito il recente appello firmato da sedici intellettuali italiani contro la prospettiva di un “modello in remoto” e rivolto alla neo-ministra dell’istruzione Lucia Azzolina).

Secondo precise fasce orarie e a seconda dei più diversi interessi (da non chiamarsi più “discipline”), il collegamento programmato a una banca dati forniti dagli esperti delle varie materie o la connessione a un solo computer adeguatamente predisposto sarebbe in grado, volendo, di fornire in simultanea e in remoto un sapere manualistico o digitale a migliaia se non a milioni di utenti scuola.

La DaD, la Didattica a Distanza,

resasi necessaria quest’anno a causa della pandemia di Covid 2019, è solo il passo intermedio dalla lectio ex cathedra alla lectio sine cathedra, ossia al libero approvvigionamento di un sapere non più obbligatorio secondo programmazioni preconfezionate, di un sapere “alla carta” (p. 91), dice Lyotard, e non più “costituito da uno stock organizzato di conoscenze” (p. 93).

Sebbene attraverso lo schermo di un computer e con l’ausilio di piattaforme comunicative, mediante una didattica domiciliare (da casa a casa, intramoenia si potrebbe dire mutuando un termine dal comparto “Sanità”) oggi gli insegnanti possono continuare a mantenere la loro cattedra, il loro posto di lavoro.

E sarebbe proprio il caso di ricordare a tal proposito che quello che oggi, con il solito anglicismo, viene chiamato smart working non sarebbe poi una gran novità, giacché era già una realtà ben consolidata in Inghilterra fin dal tempo della prima Rivoluzione industriale (cfr. Giovanna Lo Presti, Non lasciamo ai tecnocrati e politici ignoranti il governo della scuola, “Il Ponte”, 20 aprile 2020).

Sicché, almeno dal punto di vista storico, più che di un’emancipazione, specie se guardiamo al ruolo sociale delle donne, si tratterebbe anzi di una regressione.

Ma, come si accennava, il récit emancipatorio presuppone una pragmatica o un gioco linguistico eterogeneo rispetto al récit performativo: il primo, ricordava Lyotard,

si fonda su criteri etico-teoretici come vero/falso, giusto/ingiusto, il secondo su criteri di mercato come utile/inutile, efficace/inefficace, vendibile/invendibile (p. 94).

Comunque sia, pur a fronte di una tale prospettiva certo non rosea per il destino dell’istruzione (sia pubblica che privata),

la ministra ha persino annunciato l’assunzione di altri 32 mila insegnanti attraverso i concorsi,

la sistemazione di 4.500 precari e di 4 mila nuovi ricercatori universitari.

Ma fino a che punto tutti costoro potranno continuare a mantenere pienamente le loro cattedre?

E in generale, fino a che punto potrà continuare questo servizio essenziale garantito dallo Stato e previsto (ancora) dall’articolo 33 della Costituzione,

se il destino della scuola sembra essersi ormai avviato verso la sola didattica a distanza, se non addirittura verso la connessione ad un unico dispositivo base in remoto, verso un solo computer-madre senza la presenza dell’insegnante, a delle “banche di dati […] collegate a terminali intelligenti messi a disposizione degli studenti”, diceva Lyotard (p. 93)?

D’altro canto, una volta superato il difficile confronto con i paesi membri dell’Unione europea sulla scelta della formula con cui ottenere i fondi europei, i debiti che i governi hanno dovuto contrarre per fronteggiare l’emergenza lavoro a causa del Coronavirus dovranno comunque essere pagati.

A tal riguardo, poi, il problema più urgente non è tanto l’ammontare dei 55 miliardi di euro che il governo riuscirà a stanziare per l’emergenza Covid 19,

ma come i cittadini possono ottenere questi stanziamenti, poiché tra le leggi predisposte e l’effettivo godimento dei finanziamenti si interpone la solita burocrazia italiana che con le sua nota farraginosità rischia di bloccare la ripresa di un intero Paese.

Per questo molti politici italiani, a partire dallo stesso premier Conte,

oltre che di responsabilità e di certezze, parlano di semplificazione delle procedure, di modernizzazione della macchina burocratica,

di velocizzazione della pubblica amministrazione, specialmente adesso che, diceva proprio il primo ministro durante la sua recente relazione in Senato,

la salute non può più continuare ad essere un corollario, bensì la “precondizione dello sviluppo del Paese”.

E se questa volta a farne le spese, come è purtroppo accaduto in passato, non sarà più il comparto “Sanità”, logica vuole che, proprio in virtù dell’utilizzo di quelle tecnologie,

siano altri comparti a pagarle: ad esempio quello dell’“Istruzione”, specie, come si è detto, in Stati come l’Italia che presentano un debito più elevato a causa di un precedente indebitamento.

Pertanto, sebbene l’annuncio di quelle nuove assunzioni non lo lascino ancora intravedere, la graduale dismissione degli insegnanti è quindi nelle cose: in un prossimo futuro, prima della scomparsa delle sedi fisiche della scuola (così sono scomparse anche le grandi fabbriche),

prima della chiusura degli istituti scolastici (con tutti i vantaggi economici che ciò comporterà per le casse dello Stato), si cominceranno dapprima pian piano dolorosamente a tagliare gli stipendi agli insegnanti e subito dopo si procederà anche ai tagli alle cattedre.

Si preannuncia pertanto un esercito di ex-cathedratici,

di migliaia di disoccupati nel personale della scuola, la perdita di altrettanti posti di lavoro e quindi l’estensione della povertà.

Questa, dunque, la “minaccia tecnocratica” che incomberebbe sulle nostre scuole, la quale, come s’è visto, porterebbe con sé anche un’ulteriore ondata di precarizzazione del lavoro in generale.

Ma se queste sono le temibili previsioni, allora quel “nuovo modo di concepire la scuola, ben diverso da quello tradizionale”, quel “complessivo e articolato processo di riforma” cui fa cenno il testo di quell’appello,

come pure l’aspirazione a un “nuovo umanesimo”, non potranno che rivelarsi ancora una volta come il sogno di una bella cosa, come un’utopia, una speranza, un’idea.

Inoltre, secondo la prospettiva qui delineata, che inclina inesorabilmente all’estinzione della scuola,

anche la dignitosa idea dell’insegnare meno, insegnare tutti risulta quanto meno anacronistica, in ritardo in ogni caso coi tempi,

se non addirittura fuori tempo massimo: poteva valere ancora prima della crisi del 2008, ma da allora in poi, con l’emergenza della crisi economica, con il rischio default e con il fantasma Grexit che soffiava sul collo degli Italiani,

non fu più possibile nemmeno parlarne, al punto che colui che tentava di farlo veniva visto come un ingenuo, un’anima bella, un irresponsabile, un disfattista.

Sulla scorta o con il pretesto di quella emergenza, l’ex premier Mario Monti, con la flemma e l’aplomb che lo contraddistinguevano,

proprio per mettere una pietra tombale su quel principio egualitario avanzò addirittura la proposta di aumentare l’orario di lavoro settimanale degli insegnanti da 18 a 20 ore.

Il che sarebbe stata ancora una fortuna se pensiamo che l’allora ministro dell’Istruzione e dell’Università Francesco Profumo voleva aumentarle di 6 ore, cioè fino a 24.

2. Sulla scorta di quanto precede, non dovremmo affatto, quindi, augurarci di tornare alla “normalità”,

e non solo per quanto riguarda la scuola, perché quella “normalità”, proprio in quanto “normalità”,

conteneva in sé qualcosa di vischioso e di scivoloso a cui da troppo tempo siamo stati costretti ad abituarci:

conteneva visibilmente quella tendenza avversa e innaturale che ha origini lontane ma che nel giro di pochi giorni (anche in questo modo e con questa rapidità si manifesta l’irreversibilità dei processi naturali di cui da molto tempo ci parlano gli scienziati) ha fatto riprecipitare l’intero pianeta sul bordo del baratro, preda questa volta del Coronavirus.

Ma chissà quale altro baratro ci riserva il futuro.

Tornare allo “stesso”, insomma, sarebbe una vera sconfitta per il genere umano in questa lotta impari contro un siffatto virus coronato, il quale è stato capace con una sola mossa di mettere in scacco l’intera umanità.

Eppure, in virtù di una sempre imprevedibile eterogeneità dei fini, intesa come corollario del principio della necessaria priorità del negativo, in virtù di una sorta di positivo contrappasso cosmico, proprio questo virus inghirlandato, con tutte le migliaia di morti che continua a mietere in tutto il mondo – morti a cui ben presto ci abituiamo e che altrettanto rapidamente dimentichiamo –, esso, nonostante la sua subdola letalità, è riuscito ad aprire nel nostro duro carapace una breccia.

Proprio attraverso questa incrinatura, durante il periodo di isolamento abbiamo avuto modo di vedere sotto una nuova luce non solo il mondo esteriore, ma anche il mondo interiore: li abbiamo visti entrambi diversi, più pacificati, più abitabili, più accoglienti; simili al cielo limpido e immensurabile di Austerliz che in Guerra e pace il principe Andrej Bolkonskij vede su di sé in attesa di una possibile morte, o ai sublimi Firmaments e ai Planets di James Brown.

Li abbiamo visti come in un sogno da cui, proprio ora che si è entrati nella fase 2, avremo voluto quasi non essere più risvegliati; li abbiamo visti cioè così come ce li immaginiamo segretamente dentro di noi e come, volgarizzandoli, nel mondo “normalizzato” ce li presentano i dépliant turistici o i testi catechistici. In entrambi i mondi abbiamo colto nuove sfumature,

nuove sfaccettature, nuove possibilità che per varie ragioni siamo stati costretti ad accantonare per realizzarne delle altre; possibilità che, essendo rimaste allo stato latente, risultavano persino ignote a noi stessi quando meravigliati le abbiamo ritrovavate in quel vuoto, in quel silenzio e in quella solitudine, sia esteriori che interiori.

Uno dei momenti più intensi e pieni di sconcerto che un po’ tutti, cercando di sfuggire alla morte, abbiamo avuto modo di vivere durante la lunga segregazione forzata, è stato certamente assistere al volo degli uccelli sulla campagna o sulla città, perché con il loro verso ecoico marcavano la tanto incredibile quanto benefica assenza degli esseri umani in esse.

Era insomma come se dentro di noi quel virus avesse destato quelle possibilità dal lungo sonno imposto ad esse dalla modernità e poi anche dalla postmodernità, dalle società evolute e dalle loro leggi, dalle loro ragioni, dalle loro scelte, dalle loro tendenze.

Tendenze che hanno reso quelle possibilità, oggettive e soggettive, sociali e individuali, delle utopie, le quali, seppure come mere illusioni, come visioni intorpidite, riuscivano tuttavia a guidare il nostro incerto cammino dentro i sentieri sempre più asfittici delle società opulente e distopiche.

Prigioniere della loro agitata veglia, ostaggi della loro devastante insonnia, queste società, insomma, riuscivano finanche a utilizzare e a sfruttare utopisticamente quelle idee per realizzare la loro distopia.

Sicché, pur volendo in teoria realizzare in terra il più perfetto dei mondi possibili, una sorta di paradiso terrestre,

esse in realtà mettevano mano al perfezionamento continuo dell’inferno, di quella specie di gheenna, di gorgo infuocato, potenzialmente in grado di risucchiare l’intera umanità in una sola volta.

Voler tornare alla “normalità” significherebbe allora riportare quelle possibilità umane, sia quelle sociali che quelle individuali,

allo stato di latenza, equivarrebbe a richiudere quello squarcio, a spegnere quel baluginio, quella luce nuova che da esso riusciva a filtrare e che ci ha consentito di scoprire il volto sommerso, represso e dolorante del mondo esterno e di quello interno; tornare allo “stesso” vorrebbe dire insomma estinguere il sogno e con esso anche l’utopia di un mondo diverso, di un’umanità nuova.

Sicché, anche in questo momento di scelte radicali, a fronte di un generalizzato e incontenibile desiderio di tornare alla vita “normale”,

ora che proprio quel “benedetto” virus stephanódes, cioè a forma di corona, era riuscito ad aprire quella breccia di luce salvifica dentro la ferita purulenta dell’umanità, proprio adesso valgono ancora e sempre nella storia umana le parole dell’apostolo:

“la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie” (Gv 3, 19).

Ivrea, 30 maggio 2020