Condizione postmoderna scuola

 

Condizione postmoderna della scuola

Franco Di Giorgi

LA CONDIZIONE POSTMODERNA DELLA SCUOLA

E IL DESIDERIO DI “NORMALITÀ”

 

Beato l’uomo che sopporta la tentazione [prova] (peirasmós), perché una volta superata la prova [egli, il dókimos, il provato, il saggiato, il messo alla prova] riceverà la corona della vita (stéphanon tes zoes) che il Signore ha promesso a quelli che lo amano (Gc 1, 12).

1. Nel 1979, ormai più di quarant’anni fa, nel suo famoso “Rapporto sul sapere” (meglio noto con il titolo La condition postmoderne) basato su studi di cibernetica e di telematica effettuati negli Stati Uniti e risalenti fino agli anni Trenta, Jean-François Lyotard, uno dei filosofi del pensiero postmoderno, aveva previsto e detto a chiare lettere che con l’introduzione del calcolatore elettronico, con il computer, il destino delle grands narrations sarebbe stato segnato.

Così come sarebbe stato compromesso parallelamente anche il destino dell’istruzione, dell’insegnamento e della trasmissione di queste metanarrazioni o del sapere in generale, con tutti i loro approcci e le loro metodologie. Si veda in particolare il capitolo 12 di questo saggio: “Insegnamento, legittimazione, performatività” (Feltrinelli 1981).

Dopo la delegittimazione posta in essere dalla “incredulità nei confronti delle metanarrazioni” (p. 6), cioè delle grandi ideologie politiche e filosofiche che legittimavano la modernità, il criterio ormai prevalente della performatività, ossia dell’ottimizzazione delle prestazioni resa possibile dall’informatizzazione delle società e del sapere, più che stimolare ideali di emancipazione mira a formare competenze funzionali al potere e quindi al sistema sociale che le sollecita per le sue riconfigurazioni.

Giacché, scrive Lyotard, “la questione nell’era dell’informatica è più che mai la questione del governo” (p. 20) o del potere, appunto. Uno degli esiti evidenti di una tale delegittimazione è ad esempio la riduzione della lotta di classe a “utopia”, a “speranza”, e l’impegno per l’insegnamento tradizionale a una specie di “protesta di principio” (p. 29).

Con l’annuncio della seppur “parziale sostituzione dei docenti con delle macchine”, la postmodernità in ogni caso anticipa e progetta la morte stessa dell’“era del professore” (p. 98).

Quasi a conferma di quanto aveva dedotto nelle pagine della Condizione postmoderna, lo stesso Lyotard nel 1984 pubblicherà un piccolo testo dal titolo significativamente provocatorio: Tombeau de l’intellectuel et autres papieres (Galilée, Paris).

Ora, dal punto di vista postmoderno,

ben lungi dal creare un danno o una perdita, una tale sostituzione tecnologica comporterebbe piuttosto enormi vantaggi sia sul piano performativo o delle prestazioni sia sul piano economico, soprattutto per quegli Stati con un alto debito pubblico.

L’insegnamento basato sulla didattica relazionale poteva avere una sua specifica funzione didattico-pedagogica all’interno di quell’orizzonte umanistico che si può far risalire alla Grecia classica e ai Dialoghi di Platone, e che, con il suo progetto educativo e formativo, è riuscito a resistere alle intemperie del tempo e della storia, affermandosi lungo tutta la modernità.

Già però con la rivoluzione tipografica realizzata da Gutenberg nel 1445, cioè con l’invenzione della tipografia a caratteri mobili, all’interno dell’istituzione religiosa cattolica si era creato un profondo trauma, simile per certi aspetti a quello rilevato dal Fedro platonico a proposito dell’invenzione della scrittura, una profonda e dolorosa cesura, giacché in quella istituzione gli intellettuali erano riusciti a conquistarsi nei secoli una certa prerogativa nella trasmissione di un sapere religioso che, almeno fino al Seicento (ben oltre quindi la prima Rivoluzione scientifica), faceva tutt’uno con il sapere tout court (Machiavelli e Galileo docent).

Grazie poi a Lutero, che si avvantaggerà di quell’invenzione,

e alla sua traduzione del testo sacro nella lingua tedesca, ogni singolo individuo poté leggere la Bibbia direttamente alla propria famiglia all’interno delle mura domestiche,

senza dover andare necessariamente in chiesa, escludendo in tal modo l’intervento di quegli intellettuali ed evitando con ciò stesso anche le loro sottili e capziose interpretazioni.

Dopo circa mezzo secolo, un trauma simile è quello che la rivoluzione delle nuove tecnologie sta producendo all’interno di quell’ampio orizzonte umanistico.

Anche qui, ora, man mano che passa il tempo e con il continuo perfezionamento dei dispositivi tecnologici, i docenti si vedono scalzati nel loro antico appannaggio di comunicatori del sapere in una relazione diretta con i loro discenti (si veda a tal proposito il recente appello firmato da sedici intellettuali italiani contro la prospettiva di un “modello in remoto” e rivolto alla neo-ministra dell’istruzione Lucia Azzolina).

Secondo precise fasce orarie e a seconda dei più diversi interessi (da non chiamarsi più “discipline”), il collegamento programmato a una banca dati forniti dagli esperti delle varie materie o la connessione a un solo computer adeguatamente predisposto sarebbe in grado, volendo, di fornire in simultanea e in remoto un sapere manualistico o digitale a migliaia se non a milioni di utenti scuola.

La DaD, la Didattica a Distanza,

resasi necessaria quest’anno a causa della pandemia di Covid 2019, è solo il passo intermedio dalla lectio ex cathedra alla lectio sine cathedra, ossia al libero approvvigionamento di un sapere non più obbligatorio secondo programmazioni preconfezionate, di un sapere “alla carta” (p. 91), dice Lyotard, e non più “costituito da uno stock organizzato di conoscenze” (p. 93).

Sebbene attraverso lo schermo di un computer e con l’ausilio di piattaforme comunicative, mediante una didattica domiciliare (da casa a casa, intramoenia si potrebbe dire mutuando un termine dal comparto “Sanità”) oggi gli insegnanti possono continuare a mantenere la loro cattedra, il loro posto di lavoro.

E sarebbe proprio il caso di ricordare a tal proposito che quello che oggi, con il solito anglicismo, viene chiamato smart working non sarebbe poi una gran novità, giacché era già una realtà ben consolidata in Inghilterra fin dal tempo della prima Rivoluzione industriale (cfr. Giovanna Lo Presti, Non lasciamo ai tecnocrati e politici ignoranti il governo della scuola, “Il Ponte”, 20 aprile 2020).

Sicché, almeno dal punto di vista storico, più che di un’emancipazione, specie se guardiamo al ruolo sociale delle donne, si tratterebbe anzi di una regressione.

Ma, come si accennava, il récit emancipatorio presuppone una pragmatica o un gioco linguistico eterogeneo rispetto al récit performativo: il primo, ricordava Lyotard,

si fonda su criteri etico-teoretici come vero/falso, giusto/ingiusto, il secondo su criteri di mercato come utile/inutile, efficace/inefficace, vendibile/invendibile (p. 94).

Comunque sia, pur a fronte di una tale prospettiva certo non rosea per il destino dell’istruzione (sia pubblica che privata),

la ministra ha persino annunciato l’assunzione di altri 32 mila insegnanti attraverso i concorsi,

la sistemazione di 4.500 precari e di 4 mila nuovi ricercatori universitari.

Ma fino a che punto tutti costoro potranno continuare a mantenere pienamente le loro cattedre?

E in generale, fino a che punto potrà continuare questo servizio essenziale garantito dallo Stato e previsto (ancora) dall’articolo 33 della Costituzione,

se il destino della scuola sembra essersi ormai avviato verso la sola didattica a distanza, se non addirittura verso la connessione ad un unico dispositivo base in remoto, verso un solo computer-madre senza la presenza dell’insegnante, a delle “banche di dati […] collegate a terminali intelligenti messi a disposizione degli studenti”, diceva Lyotard (p. 93)?

D’altro canto, una volta superato il difficile confronto con i paesi membri dell’Unione europea sulla scelta della formula con cui ottenere i fondi europei, i debiti che i governi hanno dovuto contrarre per fronteggiare l’emergenza lavoro a causa del Coronavirus dovranno comunque essere pagati.

A tal riguardo, poi, il problema più urgente non è tanto l’ammontare dei 55 miliardi di euro che il governo riuscirà a stanziare per l’emergenza Covid 19,

ma come i cittadini possono ottenere questi stanziamenti, poiché tra le leggi predisposte e l’effettivo godimento dei finanziamenti si interpone la solita burocrazia italiana che con le sua nota farraginosità rischia di bloccare la ripresa di un intero Paese.

Per questo molti politici italiani, a partire dallo stesso premier Conte,

oltre che di responsabilità e di certezze, parlano di semplificazione delle procedure, di modernizzazione della macchina burocratica,

di velocizzazione della pubblica amministrazione, specialmente adesso che, diceva proprio il primo ministro durante la sua recente relazione in Senato,

la salute non può più continuare ad essere un corollario, bensì la “precondizione dello sviluppo del Paese”.

E se questa volta a farne le spese, come è purtroppo accaduto in passato, non sarà più il comparto “Sanità”, logica vuole che, proprio in virtù dell’utilizzo di quelle tecnologie,

siano altri comparti a pagarle: ad esempio quello dell’“Istruzione”, specie, come si è detto, in Stati come l’Italia che presentano un debito più elevato a causa di un precedente indebitamento.

Pertanto, sebbene l’annuncio di quelle nuove assunzioni non lo lascino ancora intravedere, la graduale dismissione degli insegnanti è quindi nelle cose: in un prossimo futuro, prima della scomparsa delle sedi fisiche della scuola (così sono scomparse anche le grandi fabbriche),

prima della chiusura degli istituti scolastici (con tutti i vantaggi economici che ciò comporterà per le casse dello Stato), si cominceranno dapprima pian piano dolorosamente a tagliare gli stipendi agli insegnanti e subito dopo si procederà anche ai tagli alle cattedre.

Si preannuncia pertanto un esercito di ex-cathedratici,

di migliaia di disoccupati nel personale della scuola, la perdita di altrettanti posti di lavoro e quindi l’estensione della povertà.

Questa, dunque, la “minaccia tecnocratica” che incomberebbe sulle nostre scuole, la quale, come s’è visto, porterebbe con sé anche un’ulteriore ondata di precarizzazione del lavoro in generale.

Ma se queste sono le temibili previsioni, allora quel “nuovo modo di concepire la scuola, ben diverso da quello tradizionale”, quel “complessivo e articolato processo di riforma” cui fa cenno il testo di quell’appello,

come pure l’aspirazione a un “nuovo umanesimo”, non potranno che rivelarsi ancora una volta come il sogno di una bella cosa, come un’utopia, una speranza, un’idea.

Inoltre, secondo la prospettiva qui delineata, che inclina inesorabilmente all’estinzione della scuola,

anche la dignitosa idea dell’insegnare meno, insegnare tutti risulta quanto meno anacronistica, in ritardo in ogni caso coi tempi,

se non addirittura fuori tempo massimo: poteva valere ancora prima della crisi del 2008, ma da allora in poi, con l’emergenza della crisi economica, con il rischio default e con il fantasma Grexit che soffiava sul collo degli Italiani,

non fu più possibile nemmeno parlarne, al punto che colui che tentava di farlo veniva visto come un ingenuo, un’anima bella, un irresponsabile, un disfattista.

Sulla scorta o con il pretesto di quella emergenza, l’ex premier Mario Monti, con la flemma e l’aplomb che lo contraddistinguevano,

proprio per mettere una pietra tombale su quel principio egualitario avanzò addirittura la proposta di aumentare l’orario di lavoro settimanale degli insegnanti da 18 a 20 ore.

Il che sarebbe stata ancora una fortuna se pensiamo che l’allora ministro dell’Istruzione e dell’Università Francesco Profumo voleva aumentarle di 6 ore, cioè fino a 24.

2. Sulla scorta di quanto precede, non dovremmo affatto, quindi, augurarci di tornare alla “normalità”,

e non solo per quanto riguarda la scuola, perché quella “normalità”, proprio in quanto “normalità”,

conteneva in sé qualcosa di vischioso e di scivoloso a cui da troppo tempo siamo stati costretti ad abituarci:

conteneva visibilmente quella tendenza avversa e innaturale che ha origini lontane ma che nel giro di pochi giorni (anche in questo modo e con questa rapidità si manifesta l’irreversibilità dei processi naturali di cui da molto tempo ci parlano gli scienziati) ha fatto riprecipitare l’intero pianeta sul bordo del baratro, preda questa volta del Coronavirus.

Ma chissà quale altro baratro ci riserva il futuro.

Tornare allo “stesso”, insomma, sarebbe una vera sconfitta per il genere umano in questa lotta impari contro un siffatto virus coronato, il quale è stato capace con una sola mossa di mettere in scacco l’intera umanità.

Eppure, in virtù di una sempre imprevedibile eterogeneità dei fini, intesa come corollario del principio della necessaria priorità del negativo, in virtù di una sorta di positivo contrappasso cosmico, proprio questo virus inghirlandato, con tutte le migliaia di morti che continua a mietere in tutto il mondo – morti a cui ben presto ci abituiamo e che altrettanto rapidamente dimentichiamo –, esso, nonostante la sua subdola letalità, è riuscito ad aprire nel nostro duro carapace una breccia.

Proprio attraverso questa incrinatura, durante il periodo di isolamento abbiamo avuto modo di vedere sotto una nuova luce non solo il mondo esteriore, ma anche il mondo interiore: li abbiamo visti entrambi diversi, più pacificati, più abitabili, più accoglienti; simili al cielo limpido e immensurabile di Austerliz che in Guerra e pace il principe Andrej Bolkonskij vede su di sé in attesa di una possibile morte, o ai sublimi Firmaments e ai Planets di James Brown.

Li abbiamo visti come in un sogno da cui, proprio ora che si è entrati nella fase 2, avremo voluto quasi non essere più risvegliati; li abbiamo visti cioè così come ce li immaginiamo segretamente dentro di noi e come, volgarizzandoli, nel mondo “normalizzato” ce li presentano i dépliant turistici o i testi catechistici. In entrambi i mondi abbiamo colto nuove sfumature,

nuove sfaccettature, nuove possibilità che per varie ragioni siamo stati costretti ad accantonare per realizzarne delle altre; possibilità che, essendo rimaste allo stato latente, risultavano persino ignote a noi stessi quando meravigliati le abbiamo ritrovavate in quel vuoto, in quel silenzio e in quella solitudine, sia esteriori che interiori.

Uno dei momenti più intensi e pieni di sconcerto che un po’ tutti, cercando di sfuggire alla morte, abbiamo avuto modo di vivere durante la lunga segregazione forzata, è stato certamente assistere al volo degli uccelli sulla campagna o sulla città, perché con il loro verso ecoico marcavano la tanto incredibile quanto benefica assenza degli esseri umani in esse.

Era insomma come se dentro di noi quel virus avesse destato quelle possibilità dal lungo sonno imposto ad esse dalla modernità e poi anche dalla postmodernità, dalle società evolute e dalle loro leggi, dalle loro ragioni, dalle loro scelte, dalle loro tendenze.

Tendenze che hanno reso quelle possibilità, oggettive e soggettive, sociali e individuali, delle utopie, le quali, seppure come mere illusioni, come visioni intorpidite, riuscivano tuttavia a guidare il nostro incerto cammino dentro i sentieri sempre più asfittici delle società opulente e distopiche.

Prigioniere della loro agitata veglia, ostaggi della loro devastante insonnia, queste società, insomma, riuscivano finanche a utilizzare e a sfruttare utopisticamente quelle idee per realizzare la loro distopia.

Sicché, pur volendo in teoria realizzare in terra il più perfetto dei mondi possibili, una sorta di paradiso terrestre,

esse in realtà mettevano mano al perfezionamento continuo dell’inferno, di quella specie di gheenna, di gorgo infuocato, potenzialmente in grado di risucchiare l’intera umanità in una sola volta.

Voler tornare alla “normalità” significherebbe allora riportare quelle possibilità umane, sia quelle sociali che quelle individuali,

allo stato di latenza, equivarrebbe a richiudere quello squarcio, a spegnere quel baluginio, quella luce nuova che da esso riusciva a filtrare e che ci ha consentito di scoprire il volto sommerso, represso e dolorante del mondo esterno e di quello interno; tornare allo “stesso” vorrebbe dire insomma estinguere il sogno e con esso anche l’utopia di un mondo diverso, di un’umanità nuova.

Sicché, anche in questo momento di scelte radicali, a fronte di un generalizzato e incontenibile desiderio di tornare alla vita “normale”,

ora che proprio quel “benedetto” virus stephanódes, cioè a forma di corona, era riuscito ad aprire quella breccia di luce salvifica dentro la ferita purulenta dell’umanità, proprio adesso valgono ancora e sempre nella storia umana le parole dell’apostolo:

“la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie” (Gv 3, 19).

Ivrea, 30 maggio 2020

 

Giulietto Chiesa

 

Giulietto Chiesa

Ricordo di Giulietto Chiesa

Capita sempre maggiormente, in particolare in questi mesi, di ricordare persone che se ne vanno.

Non posso dire di avere conosciuto Giulietto Chiesa, ma la sua improvvisa morte, richiama alla mente alcuni fatti/aneddoti.

Morto Giulietto Chiesa

 1) 1967, lo avevo scoperto, studente liceale, nelle cronache del congresso nazionale dell’UGI (la sinistra universitaria), dove esponente della FGCI aveva contribuito all’elezione a segretario nazionale di Valdo Spini (socialista) , mettendo in minoranza i giovani PSIUP e della nascente nuova sinistra.

2) Lo avevo poi incrociato a Genova all’università, durante la prima occupazione di Lettere (dicembre 1967). Era studente fuori corso di fisica, funzionario di partito e aveva partecipato ad una assemblea, chiedendo che si elaborasse una piattaforma rivendicativa su punti precisi, rifiutando (schematizzo) la “contestazione generale”. In assemblea era bravissimo, diretto, preciso, ma le logiche erano diverse e la diffidenza di molt* verso i partiti era netta.

3) Lo avevo poi visto in alcune riunioni della FGCI, cui non ero iscritto. Tentava sempre di portare le lotte studentesche nell’alveo della strategia complessiva del PCI. Longo, segretario nazionale, era dialogante e apriva spazi. Ad un federale – aperto ai “giovani” – aveva partecipato Occhetto, allora considerato la sinistra interna.

4) Ad una riunione della FGCI, Chiesa aveva introdotto sostenendo che la via nazionale fosse un strumento giusto, ma male applicato. Oppositore partitista dialogante, avevo chiesto se il problema non fosse proprio nella “via nazionale” che allora mettevamo in discussione. L’amico Manlio Calegari mi aveva risposto. “Non fare l’illuminista”.

— A fine anni ’70, certo per problemi interni al PCI, Chiesa lasciava una sicura carriera politico-istituzionale per il giornalismo. I suoi scritti mantenevano la chiarezza, la preparazione, la precisione.

— Le scelte degli ultimi anni sono state contraddittorie. Dalla scelta per Di Pietro- Occhetto ad una visione “complottista”; dalla giusta opposizione alle guerre e alla politica statunitense al discutibile rapporto con settori della destra.

Resta, in questo ricordo, credo inutile, l’immagine di un dirigente politico, di livello alto, in una fase complessa, ma ricca, come quella del primo movimento studentesco. Oltre mezzo secolo fa. Anni importanti.

Genova, 27 aprile 2020

(Facebook)

Sergio Dalmasso

 

Orizzonte della sinistra

 

PER UN 25 APRILE ALTERNATIVO !!!

ANPI Ivrea e Basso Canavese

Un contributo dello Storico del Movimento Operaio

Sergio Dalmasso

Il mondo come orizzonte della sinistra

Orizzonte della sinistra
Orizzonte della sinistra. Il settantacinquesimo anniversario non deve essere affrontato retoricamente, ma con la consapevolezza della posta in gioco e della necessità di cercare insieme nuovi paradigmi…

Sono iscritto all’ANPI da quando l’adesione è aperta a figli di ex partigiani.

ANPI nazionale, Orizzonte della sinistra

Nella crisi totale, se non assenza, della sinistra politica, sociale e culturale, l’ANPI resta una struttura unitaria, garanzia democratica, strumento di lavoro, di discussione.

Questi anni saranno ricordati, sui futuri libri di storia, non solamente come quelli della progressiva distruzione/catastrofe ambientale, ma come quelli in cui grandi masse popolari, anziché avere un riferimento in una ipotesi di cambiamento sociale (la rivoluzione sovietica, la lotta antifascista, il riscatto del terzo mondo, la protesta giovanile ed operaia…) sono stati consegnati ad una destra reazionaria, parafascista, fondamentalista, sovranista, populista (in senso deteriore).

Il 25 aprile e la valenza internazionalista del primo maggio debbono servirci a ripensare alcuni fondamentali: – il significato dei beni comuni – il primato del collettivo sul privato – uno sguardo non limitato al “particulare” nazionale, ma capace di abbracciare il mondo – il rilancio di un pensiero laico e critico.

Anche l’attuale emergenza mette in luce: – i rischi causati dalla progressiva distruzione dell’ambiente – i danni prodotti dalle progressive logiche privatistiche – i rischi di una chiusura democratica, dell’aumento del controllo sociale (una sorta di “grande fratello” planetario con crescita di poteri personali e autocratici) – il tentativo di far ricadere la crisi ambientale e sociale sulla parte più povera del mondo e sulle classi subalterne (il parallelo con gli anni trenta non è forzato).

Il settantacinquesimo anniversario non deve, quindi, essere affrontato retoricamente, ma con la consapevolezza della posta in gioco e della necessità di cercare insieme nuovi paradigmi.

Sergio Dalmasso, Genova 9 aprile 2020

Mario Beiletti, presidente ANPI Ivrea e Basso Canavese

Grazie all’amico Sergio dall’Anpi”.

Articolo pubblicato il 21 aprile 2020.

Download articolo Orizzone della sinistra:

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Addio Bruno Cristofanini

È morto a Cogoleto (Genova), Bruno Cristofanini

 

Addio Cristofanini
Addio Bruno Cristofanini. Pochi anni fa era scomparsa la moglie Clara infaticabile attivista, organizzatrice di feste dell’Unità, figura centrale della sinistra di questa cittadina partigiana, antifascista, un tempo operaia.

Lo scorso anno era morta, prematuramente, la figlia Iris, fondatrice della Rifondazione locale, consigliera comunale, maestra elementare, colonna dell’ARCI e della casa del popolo.

Bruno era stato partigiano a 16 anni, poi operaio, sempre iscritto al PCI.

Nel ’91, la scelta per Rifondazione, poi lasciata dopo una delle tante tristi scissioni.

Anni fa gli avevo chiesto di raccontarmi la sua vita, la scelta partigiana, la fabbrica, il PCI locale, il sindacato.

Mi aveva risposto di avere troppi impegni.

Avevo chiesto alla figlia, Iris, di mandarmi almeno la testimonianza del periodo partigiano, ma questa non mi è mai arrivata.

Vi era il ritegno, proprio di tanti militanti, nel raccontare la propria vita, ritenendo che le scelte, i sacrifici, le lotte fossero cosa di poco conto, quasi insignificante.

Il 9 gennaio, ho ricordato, alla casa del popolo di Cogoleto l’eccidio di Modena 1950.

Abbiamo messo fiori alla lapide che ricorda i lavoratori uccisi dalla polizia di Scelba.

La testimonianza di Bruno sul dopoguerra, le elezioni del 1948, gli anni duri del centrismo e delle ristrutturazioni industriali, è stata magnifica e commovente.

Lo avevo ringraziato, ricordandogli che – anche quando sembra tutto finito – la memoria ha una funzione importante e sarebbe stato utile riprendere il filo dei ricordi e scriverli.

Lo ho visto e salutato a fine febbraio, quando, nello stesso luogo, con Cristina Campanile, ho ricordato le figure di Rosa Luxemburg e degli spartachisti.

Mai avrei pensato che fosse il nostro ultimo incontro.

Saremmo dovuti tornare, per altra iniziativa pubblica, a marzo, ma non è stato, ovviamente possibile.

Leggo della sua morte.

Quando andavo a Cogoleto, il pensiero correva sempre ad Iris.

Ora correrà anche a Bruno, alla moglie, alle fotografie delle feste dell’Unità – anni ’50 – che nel corridoio della casa del popolo, parlano della nostra storia, della nostra sconfitta che dobbiamo cercare di non rendere irreversibile.

C’è sempre più bisogno di Iris, di Bruno, di questa epopea di persone semplici che – per un mondo diverso – hanno dato tutto.

Sergio Dalmasso,

notizia da facebook

Sabato 18 aprile 2020

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Addio Stefanini download articolo

Riccardo e Cecilia

Per un 25 aprile alternativo. Un contributo del professor Di Giorgi all’amico partigiano Riccardo Ravera Chion

 

Inviato da Mario Beiletti, Presidente ANPI Ivrea e Basso Canavese

Cari Riccardo e Cecilia

Riccardo e Cecilia e Franco Di Giorgi Riccardo, Cecilia e Franco

ci piace ricordarvi sempre così, come in questa foto, scattata nell’estate di una decina di anni fa nell’ampio giardino antistante alla vostra bella e accogliente casa di Chiaverano.

Ogni volta ci riempie di orgoglio gioioso il poter rievocare assieme ad altri la vostra amabile e sorridente accoglienza fatta di premure e di affetto, di calore e di braccia aperte.

La vostra festosa ospitalità restava sempre imperturbabile e soprattutto convinta della propria vittoria, nonostante che i tempi cercassero di rimetterla in discussione.

Da voi e con voi ci si sentiva subito come a casa propria, tra persone care, specie dinanzi a un bicchiere di ottimo vino canavesano.

Ci si sentiva più giovani e più ardimentosi, perché ci trasmettevate l’essenza dello spirito giovanile e rivoluzionario che muoveva il corpo e la mente dei partigiani.

Ecco perché ci facevamo latori e mediatori, vi mettevamo a confronto con i giovani di oggi: per vedere se, malgrado il mutar dei tempi, quello spirito ribelle e rivoltoso fosse in qualche modo ancora presente in essi.

I vostri racconti, così densi di avvenimenti decisivi, così pieni di vita, di dolore e di gioia estremi, ci stupivano perché ci facevano intravedere scenari che noi, dal nostro quieto e fosco presente, non avremmo mai neppure immaginato.

Eppure – ecco quanto più ci preme dire –, per quanto fossero così intrisi di sangue, di fango e di verità storiche,

di verità che tutti noi abbiamo abbracciato e fatte nostre assieme alla Costituzione,

questi vostri racconti ci commuovevano per la passione che trasudava dalle loro parole e per l’espressività vitale che le accompagnava.

Raccontavano di momenti decisivi della vostra vita

che sono stati momenti fondativi di tutta la nostra vita associata.

Eppure lo stupefacente per noi consisteva nel fatto che azioni così nobili, importanti e pericolose fossero state compiute da persone assolutamente semplici come voi.

Ecco, più che la durezza delle difficoltà che avevate vissuto, sempre a bivaccare, in quel periodo, nel bivio tra la vita e la morte,

era proprio questa vostra semplicità che destava in noi profonda meraviglia: una semplicità che per noi assurgeva subito a dignità,

perché con il contributo di persone così, semplici e vere, uomini e donne dal cuore puro, e quindi naturalmente antifascisti, l’Italia era stata rifondata, era diventata una repubblica democratica.

Più che a debellare definitivamente il nazifascismo, cioè il virus della mente, con la vostra tenacia siete certamente riusciti quanto meno a resistere e a metterlo in quarantena.

Ed è sicuramente un futuro di quarantena che per noi già oggi si profila a causa dell’attuale conflitto contro il virus del corpo, il Covid-19. Virus, da vis, azione violenza, e vir, uomo (maschio).

(Franco Di Giorgi)

9 aprile 2020

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Riccardo e Cecilia Ricordo del partigiano Riccardo Ravera Chion - Franco Di Giogi

Franco Di Giorgi

Coronavirus

 

Coronavirus A che punto è la notte di Franco Di Giorgi

A che punto è la notte?

 

da’ al tuo dolore le parole che esige

(Macbeth, atto IV, scena III)

La velocità di diffusione di un virus che infetta le vie respiratorie di un essere umano fino a provocarne la morte è forse minore rispetto a quella con cui l’impollinazione e la disseminazione riproducono la vita. Quando però l’equilibrio coevolutivo tra differenti esseri viventi viene stravolto da una innaturale osmosi tra diverse specie di animali, allora la rapidità di quella diffusione aumenta rispetto alla riproduzione della vita. Da tempo, a fronte di segni evidenti di squilibrio naturale, gli esperti ci ripetevano quello che oggi purtroppo ci confermano: un tale squilibrio è provocato dall’evoluzione ecologicamente irresponsabile della specie umana, la quale ha nel frattempo imparato astutamente a difendersi da pericoli virali simili, cioè a differire nel tempo un’estinzione che meriterebbe per i danni che ha arrecato all’ecosistema, avendo approntato rimedi farmacologici in grado di proteggersi dai virus, ma non di liberarsene definitivamente. Già questo legittimerebbe a dire che la veloce diffusione virale della morte non è altro che il conseguente rovescio della medaglia, ossia il processo opposto a quello altrettanto veloce in cui si propaga la vita sulla terra; e che dovremmo almeno imparare a espiare le nostre colpe cominciando a ripetere le parole di Giobbe: «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore! […] Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?» (Gb 1, 21; 2, 10).

La natura dell’agente patogeno sembra allora essere analoga a quella che ha il male per gli Epicurei e per Lucrezio, vale a dire razionalmente contrastabile, ma non eliminabile. Incapaci di autoriprodursi, questi virus sono dei parassiti che per sopravvivere e moltiplicarsi hanno bisogno delle cellule, di microrganismi vegetali o animali. Sicché senza un vaccino che possa frenarne o arrestarne il veloce ciclo riproduttivo dopo un periodo di incubazione, la loro infezione, cioè la loro azione patogena, può provocare altrettanto velocemente la morte degli organismi ospitanti. Così facendo, queste entità, che sono dell’ordine dei nanometri e che si possono considerare al confine tra il mondo dei viventi e il mondo dei non viventi, riescono ad assimilare a sé gli esseri umani, trasformandoli, anche solo nell’attesa forzosa e ansiosa della quarantena in casa, in altrettanti enti eraclitei oscillanti tra il vivente e il morente. Molti degli infettati infatti non sanno di esserlo e questa ignoranza è lo stratagemma che il virus usa per aggirare la nostra astuzia e per potersi propagare. Ma è grazie all’intelligenza, si legge ancora nel Giobbe (Gb 28, 28), che l’uomo può schivare il male che gli giunge dalla sua ignoranza; l’uomo che, si legge nel secondo coro dell’Antigone, pur non trovando scampo alla morte sa tuttavia trovare rimedio anche ai mali immedicabili.

 Come si vede, anche a questo livello biologico, siamo dinanzi a una lotta intima fatta di mosse e di contromosse tra il vivente e il non vivente, tra la vita e la morte. E se con Macbeth ci chiedessimo «A che punto è la notte?», con Lady Macbeth potremmo rispondere: «Prende a lottare con il mattino, per decidere qual dei due prevalga». Solo che, direbbe Malcolm, «Lunga è quella notte che non riesce a trovare il giorno». Ci viene in mente il Macbeth solo perché lo abbiamo riletto di recente in vista della rappresentazione del 5 marzo al Teatro Stabile di Torino, saltata purtroppo proprio a causa del Coronavirus. Si tratta di astuzie, di inganni e tradimenti che in ogni tempo affliggono l’earthly world, il «mondo basso» in cui vivono gli uomini e nel quale, dice Lady Macduff, «le cattive azioni son spesso lodate, così come le buone s’hanno la reputazione di perniciosa follia»; un mondo (la Scozia degli inizi del Seicento) da cui il marito, il nobile Macduff, era fuggito disgustato dai vizi (evils) che ammorbavano la sua patria.

E in effetti, pur non potendo oramai sfuggire all’onda avvolgente del virus, a un simile autoesilio spingerebbero le basse astuzie di qualche nostro politicante, usando il proprio personale cavallo a dondolo come un cavallo di Troia: chi inserendo astutamente membri del proprio neonato partito nella compagine governativa, chi volendo a tutti i costi, in quanto opposizione, essere inserito nei prossimi dpcm, in modo da poter così predisporre le cose per il proprio futuro e, quel che è peggio, anche per quello dell’intero Paese. Sfortuna vuole infatti che tutta questa emergenza virus stia facendo andare le cose proprio nel verso che vorrebbero i sovranisti. Una volta superata questa crisi, approfittando dell’emergenza sbarchi, passata in secondo piano in questi giorni di lutto e di abbandono, essi sicuramente rimetteranno con maggior vigore il piede sull’acceleratore della paura e ogni loro richiesta in merito alla chiusura nei confronti di stranieri e migranti non potrà che essere assecondata. Dopo l’emergenza del Coronavirus riemergerà dunque l’emergenza dei flussi migratori, ma questa volta troverà ancora meno persone ad occuparsene, perché molti avranno timore di un qualsiasi contatto con gli stranieri, anche se il pericolo – questo ci ha almeno insegnato il Covid-19 – continuerà a provenire da noi stessi. Oltre all’emergenza virus e a quella migratoria, dovremo dunque ben presto ritornare a fare i conti anche con quella terza emergenza che abbiamo dovuto necessariamente accantonare, cioè quella altrettanto subdola dell’avanzata dell’estrema destra nel mondo. Anche questa è infatti una pandemia virale.

30 marzo 2020

Addio Moioli

Vittorio Moioli è morto

Ad una certa età si scopre che se ne vanno tante persone che abbiamo incontrato.

Leggo, da Bergamo, della scomparsa di Vittorio MOIOLI che ho conosciuto e seguito nei lontani anni ’90.

È stato tra i primi a rendersi conto del Fenomeno LEGA (o LEGHE), della natura pericolosa e non transitoria di questa formazione politica, delle sue proposte, dei suoi programmi, del senso comune che sapeva raccogliere e organizzare, del fatto che desse dignità a idee, sentimenti (l’anti meridionalismo), stati d’animo (il senso di abbandono di parti, anche geografiche, della società) che erano sempre esistiti e che il crollo dei partiti organizzati aveva liberato.

Addio Moioli - Vittorio Moioli durante una manifestazioneAnche in Rifondazione (ricordo con orrore) qualcun* parlava di possibili alleanze con la protesta leghista. In provincia di CUNEO, il centro sinistra (DS e ex DC) amministrava molte città con la Lega, sostenendo di dover isolare la destra di Berlusconi.

Questo ancora dopo il rito pagano dell’acqua del Po.

Organizzammo due dibattiti con lui, poi un grosso convegno di cui esiste ancora la mia relazione (1996). La trovate nei quaderni del CIPEC.

Ad un dibattito (pochi presenti) ad ALBA, partecipò anche come spettatore, l’attuale presidente della regione Piemonte Alberto Cirio, allora leghista.

Anni dopo, lo trovai isolato, adirato con Rifondazione e Bertinotti, ma ancora con tanta voglia di studiare, scrivere, pensare a “scuole quadri”.

Rifiutò un invito ad un convegno per la presenza di altri relatori che non stimava.

Ci siamo scritti ancora pochi mesi fa, scambiandoci file con nostri scritti.

La sua morte mi addolora, mi fa pensare all’isolamento di tante intelligenze, all’apporto che potrebbero dare, alla assenza di strumenti collettivi e luoghi di incontro/scambio.

Di lui ci restano “Sinistra e Lega, processo a un flirt impossibile”, “I nuovi razzismi, la lega lombarda”, “Il tarlo delle leghe” e forse, più segnati da spirito polemico e da delusione, “Oltre la delega e la politica”, “Considerazioni sulla crisi della sinistra”.

Aveva visto lungo e prima di altr*.

Alcuni di questi temi andrebbero ripresi e aggiornati oggi, davanti ad una destra e ad un senso comune ancora più pericolosi che negli anni ’90 e ad una sinistra (anticorpo) quasi inesistente.

Un saluto al figlio e agli amici di Bergamo che ho conosciuto in una della mie chiacchierate luxemburghiane.

Genova, 14 marzo 2020

Sergio Dalmasso

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Franco Di Giorgi

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La lezione del Coronavirus

Tra le difficili misure adottate in questi giorni febbrili dal governo italiano per evitare e contenere la diffusione del Coronavirus c’è quella della didattica a distanza.

Si tratta di un rimedio emergenziale che certo mette in crisi il già claudicante sistema scolastico e che pertanto “dovrebbe” essere solo di breve durata.

Nel diuturno aggiornamento garantito dai media, durante il nostro isolamento domiciliare, una tale misura ci fa pensare che è già da diversi anni che il ministero dell’istruzione prende in considerazione l’e-learning, cioè, appunto, il metodo della didattica a distanza.

Coronavirus

Solo che, a fronte di quel sistema farraginoso, una tale possibilità non poteva apparire che remota.

Grazie però al Covid-19, facendo di necessità virtù, direbbe il buon Manzoni, si ha modo di metterla in atto. Sfruttando le nuove tecnologie, ciò potrebbe avere i suoi immediati vantaggi per lo Stato, almeno economici.

Esso potrebbe infatti risparmiare non poco potendo ridurre sensibilmente le spese nel comparto scuola, a partire dapprima da un “giustificato” taglio agli stipendi degli insegnanti e poi, con una graduale riduzione, degli insegnanti medesimi, visto che ora basterebbe un solo docente per ogni disciplina, il quale dalla sua unica postazione, dalla sua comoda piattaforma casalinga, potrebbe impartire le sue lezioni a centinaia di utenti-scuola.

Ciò conviene sia allo Stato centrale sia alle regioni, dal momento che con questo risparmio potranno affrontare la necessaria spesa per la sanità e per le tanto necessarie quanto impreviste assunzioni di medici e infermieri.

Si dissolverebbe così nel nulla, grazie a quel batterio, il mito della lezione frontale.

E in effetti, a cosa potrebbe mai servire ancora un insegnante in carne ed ossa se la rete è in possesso di una memoria e di un sapere mille volte superiore al suo?

Siamo quindi a una svolta radicale nel campo dell’istruzione?

È possibile; e se si considera la recessione economica che quel virus può comportare sul piano internazionale, anche auspicabile.

«Niente ansia. Uniti ce la faremo» ci è stato poi detto.

Giusto. Ma come praticare questa esortazione se la triste realtà ci costringe intanto alla disunità, ci intima di mantenerci a debita distanza?

E ciò proprio quando nel frattempo masse di esseri umani, di profughi, di innocenti vengono usate sordidamente come armi biologiche e di ricatto nella incessante lotta fra gli Stati.

Pare esaurito, dunque, il tempo della globalizzazione e dell’abbraccio globale: il Coronavirus ci dice a chiare lettere che quel progetto, realizzato in quel modo, era “innaturale” e che non poteva avere vita lunga.

E ciò vale anche per l’Unione europea. In questo tempo in cui le emergenze umanitarie e naturali anziché risolversi si sommano e si moltiplicano, anche la fraternità è pertanto costretta a virtualizzarsi.

Compresa, purtroppo, anche quella candidamente manifestata dalle Sardine.

Se non si trova il nuovo vaccino, il nuovo antivirus, tutte le idee di fratellanza culturale e di vicinanza fra i popoli sono destinate a svuotarsi.

Vorrà dire allora che si è lavorato per nulla, che tutto è stato vano, inutile?

Può darsi.

Non potrà in ogni caso esserlo per quella casa farmaceutica, per quella multinazionale che entrerà in possesso del tanto agognato antidoto, da cui potrà ottenere verosimilmente utili ragguardevoli.

Quegli stessi che i signori del mondo riescono ad accaparrarsi con le guerre.

Perché di questo si tratta con questo nuovo bacillo influenzale, con questo nuovo nemico invisibile, di una vera e propria guerra.

Ci ricordiamo dei cento milioni morti che aveva causato in tutto il mondo la “spagnola”, la pandemia che, esattamente un secolo fa, aggredì il pianeta dopo la fine della prima guerra mondiale?

E due secoli fa, la tisi, sempre con le goccioline di saliva, non ne fece forse altrettanti?

Vogliamo poi parlare della peste del Seicento e del Trecento?

Il discorso ci porterebbe lontano, all’origine dell’umano e della vita stessa sulla Terra.

A causa di questo microscopico parassita, dunque, di un batterio che oltre che nella sanità e nella vita ci accomuna e ci rende partecipi di tutto il vivente anche nella malattia e nella morte, si ritorna alla solitudine, all’ideale del monachus, alla sobrietà e alla vita solitaria del medioevo, a forme di esistenza tanto decantate da artisti e poeti, a una vita fatta di polvere e di cenere, di indumenti madidi e fetidi gettati nelle pire e affidati alle fiamme purificatrici.

Tanto ormai la postmodernità ci aveva quasi abituati alla rifeudalizzazione sociale.

E con essa anche alla monadizzazione, all’esistenza da monadi, da individui con porte e finestre ben sprangate. Finita quindi – almeno per il momento – l’idea dello zoon politikon e dell’agorà.

Da anni, infatti, i politologi ci ripetono che l’elemento politikos, che è alla base dei legami sociali, si è dissolto e la stessa politica si è perduta; resiste tuttavia da par suo lo zoccolo duro dello zoon, dell’animale.

Ci attendono, sembra, il midbar, il deserto, il deserto che avanza, e assieme ad esso anche le locuste, nostre compagne da sempre, sin dai tempi biblici.

Ma oggi che nel giro di poche ore ci si è spalancata la voragine del vuoto e del nulla sotto i piedi; ora che viene di nuovo messa in gioco la nostra vita, che la posta in gioco è tornata ad essere la vita biologicamente intesa, proprio quando molti, specie alcuni, credevano di avere avuto già tutto e di essere al riparo da ogni possibile tempesta sul mare nostrum, e che si illudevano di poter mirare dalla riva con una certa tranquillità l’altrui gravoso travaglio; ebbene in questi momenti che, senza alcuna vera umana ragione, scopriamo di essere noi stessi come quei tanti altri che solo fino a ieri consideravamo pattume e inutile merce di scarto, oggi, qui, in queste ore di solitudine, di reclusione forzata e di evitamento ritorna più vivo che mai, pur se in veste di solidarietà, l’umano, semplice e originario desiderio di continuare ad essere, di essere in salute, di avere una vita non tanto piena ma purchessia, il desiderio di Dio, la brama di salvezza, il tanto lodato quanto odiato ma certamente inestinguibile istinto di sopravvivenza.

E tuttavia oggi, come ci dicono a più voci i virologi, non abbiamo ancora raggiunto il “picco” dell’epidemia, la massima espansione del contagio, non siamo ancora in grado, come Renzo Tramaglino, di avvederci della varietà delle “erbacce” che popolavano la sua vigna.

Oggi, insomma, con la riduzione della nostra libertà e dei nostri slanci vitali, ci sembra di dover rinunciare a qualcosa che solo fino a ieri ci sembrava solo accessoria e che ora si rivela assolutamente vitale.

Ebbene sì, adesso «nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / nella miseria».

Sono le parole che nel celebre quinto Canto dell’Inferno (vv. 121-123)

Dante suggerisce a Francesca da Rimini, sono i versi che verranno ripresi nella storia da tutti coloro che, per diversi motivi, sono stati privati della libertà e della vita.

Ivrea, 8 marzo 2020

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Il Terribile

Ricordo del Terribile

Nella foto, a sinistra il presidente dell’ANPI di Ivrea Mario Beiletti, a destra il partigiano Riccardo Ravera Chion

LO SPIRITO PARTIGIANO DEL  “TERRIBILE”

di Franco Di Giorgi

Lo spirito partigiano del Terribile di Franco Di Giorgi

Quando il tempo si porta via persone come Riccardo Ravera Chion il vuoto che lascia è di tutt’altro genere di quello che ci si spalanca dentro quando perdiamo un parente o un genitore.

È un vuoto che non riguarda soltanto noi che l’abbiamo conosciuto e frequentato, ma anche, sebbene indirettamente, molti altri, se non tutti quanti gli Italiani.

Ebbi a dire la stessa cosa quando il turno toccò a due altri cari amici, prima Liana Millu nel 2005 e poi Cesare Pòlcari nel 2011.

Ma che cosa, almeno per me, li rendeva degli esseri speciali?

Non solo il fatto che sono stati dei partigiani e che, ognuno a modo loro, ha patito, resistito e lottato per la libertà di tutti noi e per la nostra Costituzione repubblicana e democratica.

No, non solo per questo, che è certo assai importante.

Ciò che li rendeva esseri straordinari era piuttosto il loro spirito partigiano che essi riuscivano ad esprimere attraverso le loro azioni e che sapevano trasmettere alle persone che li avvicinavano.

In che cosa consiste questo spirito partigiano?

Non certo nell’insulsa partigianeria. In essi a muoversi e ad attivarsi attraverso il corpo era tutta l’anima.

Ogni loro gesto era animato perché davvero sapeva di anima, aveva la forza infinita dell’anima, dinanzi alla cui manifestazione si restava sempre meravigliati e ci si chiedeva da dove mai attingessero tutta quella energia vitale, quella forza che invece mancava in noi.

Quando conobbi il partigiano Terribile, all’inizio del terzo millennio, mi sembrava indistruttibile, immortale e io stesso mi convinsi subito dentro di me che persone come lui non dovevano morire, non avrebbero mai dovuto essere dimenticate, perché in lui e attraverso lui si sprigionava quello spirito partigiano, quella grande anima che speravo anche altri potessero riscoprire dentro di loro.

Ecco perché, in quanto insegnante, mi impegnai a farlo conoscere agli studenti, a quanti più giovani possibile.

Ne nacque così nel 2004 un piccolo testo, A scuola di Resistenza, una raccolta di testimonianze che il Terribile assieme ad altri partigiani del Canavese hanno potuto rilasciare sia in classe, a scuola, al liceo scientifico “Gramsci” di Ivrea, sia a casa loro.

Qui, nelle loro abitazioni, che sapevano ancora di montagna, siamo andati a trovarli con gli studenti e ogni volta era una festa, perché dopo aver ascoltato i loro appassionati e appassionanti racconti, in cui il rischio e il pericolo si stemperavano tra i loro mezzi sorrisi, il tavolo si riempiva subito di cibi sobri e deliziosi.

Da allora, ogni anno la presenza dell’Anpi e del Terribile al liceo, non solo durante le celebrazioni della Giornata della Memoria e del 25 aprile, fu garantita e sostenuta da studenti e insegnanti.

Fu soprattutto sua e dell’allora suo amico Sarteur che, sempre in quell’anno, si decise, con la piena disponibilità di Mario Beiletti, di collocare una scultura nella nuova sede dell’Anpi di Chiaverano, un’opera che mia moglie aveva realizzato per esprimere la condanna contro ogni tipo di guerra.

L’anno dopo, a pochi giorni dalla scomparsa dell’amica Liana, per la Giornata della Memoria ci recammo assieme al Terribile a Genova, invitati in un liceo per parlare della signora Millu.

L’appuntamento a casa mia era per le sette, ma Riccardo mi disse che era lì già dalle sei e che nell’attesa si era fatto un giretto attorno al paese.

Durante il viaggio in macchina ci raccontò, con la passione che lo contraddistingueva, della sua seconda vita trascorsa in Africa, in Congo, e in tutte quelle vicende così avventurose e avvincenti si sprigionava sempre con intima gioia liberatoria il suo spirito partigiano.

Crebbe così nel tempo, grazie a questo spirito lampeggiante del partigiano Terribile – uno spirito oltremodo irruente che egli difficilmente riusciva a dominare, persino dinanzi ai discorsi di storici amici, spirito in ogni caso autenticamente socievole e socialista, accogliente, affettuoso e bonario proprio come quello della moglie Cecilia – crebbe così, insomma, grazie anche ad altri suoi compagni di lotta (ricordiamo fra gli altri Antonio Gianino, Marino Chiolino Rava, Giancarlo Benedetti, Amos Messori, Domenico Ariagno) la collaborazione tra l’Anpi di Ivrea e gli studenti, i quali si presentavano e partecipavano attivamente alle cerimonie e alle presentazioni del libro assieme a fratelli, genitori e nonni – in alcuni casi, questi, partigiani essi stessi: è il caso di Liano Brunero e della moglie Anita Baldioli.

Ciò per dire, in conclusione, che quella cooperazione con i giovani è essenziale e non secondaria, sostanziale e non solamente accessoria, perché ne va della stessa sopravvivenza della memoria dell’Anpi.

Giacché in questo consiste, a pensarci bene, il più volte evocato spirito partigiano del Terribile: nella sua estrema fiducia nella gioventù, nell’apertura alle nuove generazioni. Perché una cosa è certa: il futuro, qualsiasi futuro, il futuro di ogni cosa è nelle mani, nella mente e nel cuore dei giovani.

Ivrea, 27 febbraio 2020

Gastropopulismo

Salvini il gastropopulista coi prosciutti

Gastropopulismo

L’Italia al tempo del gastropopulismo

09-02-2020 – di: Franco Di Giorgi

Diverse sono le dimensioni che entrano in gioco nel «dispositivo populista» relativamente ai «processi di formazione del consenso», scrive Marco Revelli nel suo bel libro, nato da un colloquio con Luca Telese, Turbopopulismo.

Turbopopulismo di Marco Revelli e Luca Telese

La rivolta dei margini e le nuove sfide democratiche (Solferino-Corriere della Sera, Milano 2019).

Due gli sembrano «assolutamente centrali», quella linguistica e quella alimentare.

Si tratta di dimensioni, precisa, che più che alle scienze politiche pertengono «al campo dell’antropologia, o della simbolica del profondo» (p. 127), ai cui fenomeni egli si avvicina con il piglio e con la passione dell’entomologo.

Queste due dimensioni non sono scollegate, ma interdipendenti, poiché il «gastropopulismo», che da esse si sviluppa (così Revelli definisce il populismo salviniano), non nasce solo dalla semplice «messa in scena del cibo» (p. 121), ma dalla precisa scelta di dare voce alla lingua delle viscere e di istituire così un linguaggio viscerale.

L’unico dialogo che il gastropopulismo potrà pertanto consentire non è con la mente, che viene semplicemente bypassata, ma con la pancia.

Infatti, quando il medium comunicativo tra gli individui sono le viscere, allora non si pone più la difficoltà della riflessione, ma la semplicità del riflesso condizionato pavloviano.

Non c’è più né spazio né tempo per il dubbio critico, ma solo quanto basta per la reazione istintiva.

Non si dà più la lungaggine del pensiero, ma la subitaneità dell’azione pura.

Non l’uomo razionale, ma l’animale impulsivo.

Non la pietà, ma l’empietà.

Non l’umano, ma il disumano.

Ciò significa che la lingua del populismo, ossia della narrazione politica che fa leva sull’istinto, non può che essere viscerale, cioè duale (fame/non fame, buono/non buono), proprio come il linguaggio binario dei computer a base due (0/1).

Questo, ovviamente, non vuol certo dire che il sistema binario sia semplice come la logica populista, ma che questa si struttura sull’apparente semplicità di quel sistema.

Articolo completo su: volerelaluna

La politica puntoacapo