Condizione postmoderna scuola

 

Condizione postmoderna della scuola

Franco Di Giorgi

LA CONDIZIONE POSTMODERNA DELLA SCUOLA

E IL DESIDERIO DI “NORMALITÀ”

 

Beato l’uomo che sopporta la tentazione [prova] (peirasmós), perché una volta superata la prova [egli, il dókimos, il provato, il saggiato, il messo alla prova] riceverà la corona della vita (stéphanon tes zoes) che il Signore ha promesso a quelli che lo amano (Gc 1, 12).

1. Nel 1979, ormai più di quarant’anni fa, nel suo famoso “Rapporto sul sapere” (meglio noto con il titolo La condition postmoderne) basato su studi di cibernetica e di telematica effettuati negli Stati Uniti e risalenti fino agli anni Trenta, Jean-François Lyotard, uno dei filosofi del pensiero postmoderno, aveva previsto e detto a chiare lettere che con l’introduzione del calcolatore elettronico, con il computer, il destino delle grands narrations sarebbe stato segnato.

Così come sarebbe stato compromesso parallelamente anche il destino dell’istruzione, dell’insegnamento e della trasmissione di queste metanarrazioni o del sapere in generale, con tutti i loro approcci e le loro metodologie. Si veda in particolare il capitolo 12 di questo saggio: “Insegnamento, legittimazione, performatività” (Feltrinelli 1981).

Dopo la delegittimazione posta in essere dalla “incredulità nei confronti delle metanarrazioni” (p. 6), cioè delle grandi ideologie politiche e filosofiche che legittimavano la modernità, il criterio ormai prevalente della performatività, ossia dell’ottimizzazione delle prestazioni resa possibile dall’informatizzazione delle società e del sapere, più che stimolare ideali di emancipazione mira a formare competenze funzionali al potere e quindi al sistema sociale che le sollecita per le sue riconfigurazioni.

Giacché, scrive Lyotard, “la questione nell’era dell’informatica è più che mai la questione del governo” (p. 20) o del potere, appunto. Uno degli esiti evidenti di una tale delegittimazione è ad esempio la riduzione della lotta di classe a “utopia”, a “speranza”, e l’impegno per l’insegnamento tradizionale a una specie di “protesta di principio” (p. 29).

Con l’annuncio della seppur “parziale sostituzione dei docenti con delle macchine”, la postmodernità in ogni caso anticipa e progetta la morte stessa dell’“era del professore” (p. 98).

Quasi a conferma di quanto aveva dedotto nelle pagine della Condizione postmoderna, lo stesso Lyotard nel 1984 pubblicherà un piccolo testo dal titolo significativamente provocatorio: Tombeau de l’intellectuel et autres papieres (Galilée, Paris).

Ora, dal punto di vista postmoderno,

ben lungi dal creare un danno o una perdita, una tale sostituzione tecnologica comporterebbe piuttosto enormi vantaggi sia sul piano performativo o delle prestazioni sia sul piano economico, soprattutto per quegli Stati con un alto debito pubblico.

L’insegnamento basato sulla didattica relazionale poteva avere una sua specifica funzione didattico-pedagogica all’interno di quell’orizzonte umanistico che si può far risalire alla Grecia classica e ai Dialoghi di Platone, e che, con il suo progetto educativo e formativo, è riuscito a resistere alle intemperie del tempo e della storia, affermandosi lungo tutta la modernità.

Già però con la rivoluzione tipografica realizzata da Gutenberg nel 1445, cioè con l’invenzione della tipografia a caratteri mobili, all’interno dell’istituzione religiosa cattolica si era creato un profondo trauma, simile per certi aspetti a quello rilevato dal Fedro platonico a proposito dell’invenzione della scrittura, una profonda e dolorosa cesura, giacché in quella istituzione gli intellettuali erano riusciti a conquistarsi nei secoli una certa prerogativa nella trasmissione di un sapere religioso che, almeno fino al Seicento (ben oltre quindi la prima Rivoluzione scientifica), faceva tutt’uno con il sapere tout court (Machiavelli e Galileo docent).

Grazie poi a Lutero, che si avvantaggerà di quell’invenzione,

e alla sua traduzione del testo sacro nella lingua tedesca, ogni singolo individuo poté leggere la Bibbia direttamente alla propria famiglia all’interno delle mura domestiche,

senza dover andare necessariamente in chiesa, escludendo in tal modo l’intervento di quegli intellettuali ed evitando con ciò stesso anche le loro sottili e capziose interpretazioni.

Dopo circa mezzo secolo, un trauma simile è quello che la rivoluzione delle nuove tecnologie sta producendo all’interno di quell’ampio orizzonte umanistico.

Anche qui, ora, man mano che passa il tempo e con il continuo perfezionamento dei dispositivi tecnologici, i docenti si vedono scalzati nel loro antico appannaggio di comunicatori del sapere in una relazione diretta con i loro discenti (si veda a tal proposito il recente appello firmato da sedici intellettuali italiani contro la prospettiva di un “modello in remoto” e rivolto alla neo-ministra dell’istruzione Lucia Azzolina).

Secondo precise fasce orarie e a seconda dei più diversi interessi (da non chiamarsi più “discipline”), il collegamento programmato a una banca dati forniti dagli esperti delle varie materie o la connessione a un solo computer adeguatamente predisposto sarebbe in grado, volendo, di fornire in simultanea e in remoto un sapere manualistico o digitale a migliaia se non a milioni di utenti scuola.

La DaD, la Didattica a Distanza,

resasi necessaria quest’anno a causa della pandemia di Covid 2019, è solo il passo intermedio dalla lectio ex cathedra alla lectio sine cathedra, ossia al libero approvvigionamento di un sapere non più obbligatorio secondo programmazioni preconfezionate, di un sapere “alla carta” (p. 91), dice Lyotard, e non più “costituito da uno stock organizzato di conoscenze” (p. 93).

Sebbene attraverso lo schermo di un computer e con l’ausilio di piattaforme comunicative, mediante una didattica domiciliare (da casa a casa, intramoenia si potrebbe dire mutuando un termine dal comparto “Sanità”) oggi gli insegnanti possono continuare a mantenere la loro cattedra, il loro posto di lavoro.

E sarebbe proprio il caso di ricordare a tal proposito che quello che oggi, con il solito anglicismo, viene chiamato smart working non sarebbe poi una gran novità, giacché era già una realtà ben consolidata in Inghilterra fin dal tempo della prima Rivoluzione industriale (cfr. Giovanna Lo Presti, Non lasciamo ai tecnocrati e politici ignoranti il governo della scuola, “Il Ponte”, 20 aprile 2020).

Sicché, almeno dal punto di vista storico, più che di un’emancipazione, specie se guardiamo al ruolo sociale delle donne, si tratterebbe anzi di una regressione.

Ma, come si accennava, il récit emancipatorio presuppone una pragmatica o un gioco linguistico eterogeneo rispetto al récit performativo: il primo, ricordava Lyotard,

si fonda su criteri etico-teoretici come vero/falso, giusto/ingiusto, il secondo su criteri di mercato come utile/inutile, efficace/inefficace, vendibile/invendibile (p. 94).

Comunque sia, pur a fronte di una tale prospettiva certo non rosea per il destino dell’istruzione (sia pubblica che privata),

la ministra ha persino annunciato l’assunzione di altri 32 mila insegnanti attraverso i concorsi,

la sistemazione di 4.500 precari e di 4 mila nuovi ricercatori universitari.

Ma fino a che punto tutti costoro potranno continuare a mantenere pienamente le loro cattedre?

E in generale, fino a che punto potrà continuare questo servizio essenziale garantito dallo Stato e previsto (ancora) dall’articolo 33 della Costituzione,

se il destino della scuola sembra essersi ormai avviato verso la sola didattica a distanza, se non addirittura verso la connessione ad un unico dispositivo base in remoto, verso un solo computer-madre senza la presenza dell’insegnante, a delle “banche di dati […] collegate a terminali intelligenti messi a disposizione degli studenti”, diceva Lyotard (p. 93)?

D’altro canto, una volta superato il difficile confronto con i paesi membri dell’Unione europea sulla scelta della formula con cui ottenere i fondi europei, i debiti che i governi hanno dovuto contrarre per fronteggiare l’emergenza lavoro a causa del Coronavirus dovranno comunque essere pagati.

A tal riguardo, poi, il problema più urgente non è tanto l’ammontare dei 55 miliardi di euro che il governo riuscirà a stanziare per l’emergenza Covid 19,

ma come i cittadini possono ottenere questi stanziamenti, poiché tra le leggi predisposte e l’effettivo godimento dei finanziamenti si interpone la solita burocrazia italiana che con le sua nota farraginosità rischia di bloccare la ripresa di un intero Paese.

Per questo molti politici italiani, a partire dallo stesso premier Conte,

oltre che di responsabilità e di certezze, parlano di semplificazione delle procedure, di modernizzazione della macchina burocratica,

di velocizzazione della pubblica amministrazione, specialmente adesso che, diceva proprio il primo ministro durante la sua recente relazione in Senato,

la salute non può più continuare ad essere un corollario, bensì la “precondizione dello sviluppo del Paese”.

E se questa volta a farne le spese, come è purtroppo accaduto in passato, non sarà più il comparto “Sanità”, logica vuole che, proprio in virtù dell’utilizzo di quelle tecnologie,

siano altri comparti a pagarle: ad esempio quello dell’“Istruzione”, specie, come si è detto, in Stati come l’Italia che presentano un debito più elevato a causa di un precedente indebitamento.

Pertanto, sebbene l’annuncio di quelle nuove assunzioni non lo lascino ancora intravedere, la graduale dismissione degli insegnanti è quindi nelle cose: in un prossimo futuro, prima della scomparsa delle sedi fisiche della scuola (così sono scomparse anche le grandi fabbriche),

prima della chiusura degli istituti scolastici (con tutti i vantaggi economici che ciò comporterà per le casse dello Stato), si cominceranno dapprima pian piano dolorosamente a tagliare gli stipendi agli insegnanti e subito dopo si procederà anche ai tagli alle cattedre.

Si preannuncia pertanto un esercito di ex-cathedratici,

di migliaia di disoccupati nel personale della scuola, la perdita di altrettanti posti di lavoro e quindi l’estensione della povertà.

Questa, dunque, la “minaccia tecnocratica” che incomberebbe sulle nostre scuole, la quale, come s’è visto, porterebbe con sé anche un’ulteriore ondata di precarizzazione del lavoro in generale.

Ma se queste sono le temibili previsioni, allora quel “nuovo modo di concepire la scuola, ben diverso da quello tradizionale”, quel “complessivo e articolato processo di riforma” cui fa cenno il testo di quell’appello,

come pure l’aspirazione a un “nuovo umanesimo”, non potranno che rivelarsi ancora una volta come il sogno di una bella cosa, come un’utopia, una speranza, un’idea.

Inoltre, secondo la prospettiva qui delineata, che inclina inesorabilmente all’estinzione della scuola,

anche la dignitosa idea dell’insegnare meno, insegnare tutti risulta quanto meno anacronistica, in ritardo in ogni caso coi tempi,

se non addirittura fuori tempo massimo: poteva valere ancora prima della crisi del 2008, ma da allora in poi, con l’emergenza della crisi economica, con il rischio default e con il fantasma Grexit che soffiava sul collo degli Italiani,

non fu più possibile nemmeno parlarne, al punto che colui che tentava di farlo veniva visto come un ingenuo, un’anima bella, un irresponsabile, un disfattista.

Sulla scorta o con il pretesto di quella emergenza, l’ex premier Mario Monti, con la flemma e l’aplomb che lo contraddistinguevano,

proprio per mettere una pietra tombale su quel principio egualitario avanzò addirittura la proposta di aumentare l’orario di lavoro settimanale degli insegnanti da 18 a 20 ore.

Il che sarebbe stata ancora una fortuna se pensiamo che l’allora ministro dell’Istruzione e dell’Università Francesco Profumo voleva aumentarle di 6 ore, cioè fino a 24.

2. Sulla scorta di quanto precede, non dovremmo affatto, quindi, augurarci di tornare alla “normalità”,

e non solo per quanto riguarda la scuola, perché quella “normalità”, proprio in quanto “normalità”,

conteneva in sé qualcosa di vischioso e di scivoloso a cui da troppo tempo siamo stati costretti ad abituarci:

conteneva visibilmente quella tendenza avversa e innaturale che ha origini lontane ma che nel giro di pochi giorni (anche in questo modo e con questa rapidità si manifesta l’irreversibilità dei processi naturali di cui da molto tempo ci parlano gli scienziati) ha fatto riprecipitare l’intero pianeta sul bordo del baratro, preda questa volta del Coronavirus.

Ma chissà quale altro baratro ci riserva il futuro.

Tornare allo “stesso”, insomma, sarebbe una vera sconfitta per il genere umano in questa lotta impari contro un siffatto virus coronato, il quale è stato capace con una sola mossa di mettere in scacco l’intera umanità.

Eppure, in virtù di una sempre imprevedibile eterogeneità dei fini, intesa come corollario del principio della necessaria priorità del negativo, in virtù di una sorta di positivo contrappasso cosmico, proprio questo virus inghirlandato, con tutte le migliaia di morti che continua a mietere in tutto il mondo – morti a cui ben presto ci abituiamo e che altrettanto rapidamente dimentichiamo –, esso, nonostante la sua subdola letalità, è riuscito ad aprire nel nostro duro carapace una breccia.

Proprio attraverso questa incrinatura, durante il periodo di isolamento abbiamo avuto modo di vedere sotto una nuova luce non solo il mondo esteriore, ma anche il mondo interiore: li abbiamo visti entrambi diversi, più pacificati, più abitabili, più accoglienti; simili al cielo limpido e immensurabile di Austerliz che in Guerra e pace il principe Andrej Bolkonskij vede su di sé in attesa di una possibile morte, o ai sublimi Firmaments e ai Planets di James Brown.

Li abbiamo visti come in un sogno da cui, proprio ora che si è entrati nella fase 2, avremo voluto quasi non essere più risvegliati; li abbiamo visti cioè così come ce li immaginiamo segretamente dentro di noi e come, volgarizzandoli, nel mondo “normalizzato” ce li presentano i dépliant turistici o i testi catechistici. In entrambi i mondi abbiamo colto nuove sfumature,

nuove sfaccettature, nuove possibilità che per varie ragioni siamo stati costretti ad accantonare per realizzarne delle altre; possibilità che, essendo rimaste allo stato latente, risultavano persino ignote a noi stessi quando meravigliati le abbiamo ritrovavate in quel vuoto, in quel silenzio e in quella solitudine, sia esteriori che interiori.

Uno dei momenti più intensi e pieni di sconcerto che un po’ tutti, cercando di sfuggire alla morte, abbiamo avuto modo di vivere durante la lunga segregazione forzata, è stato certamente assistere al volo degli uccelli sulla campagna o sulla città, perché con il loro verso ecoico marcavano la tanto incredibile quanto benefica assenza degli esseri umani in esse.

Era insomma come se dentro di noi quel virus avesse destato quelle possibilità dal lungo sonno imposto ad esse dalla modernità e poi anche dalla postmodernità, dalle società evolute e dalle loro leggi, dalle loro ragioni, dalle loro scelte, dalle loro tendenze.

Tendenze che hanno reso quelle possibilità, oggettive e soggettive, sociali e individuali, delle utopie, le quali, seppure come mere illusioni, come visioni intorpidite, riuscivano tuttavia a guidare il nostro incerto cammino dentro i sentieri sempre più asfittici delle società opulente e distopiche.

Prigioniere della loro agitata veglia, ostaggi della loro devastante insonnia, queste società, insomma, riuscivano finanche a utilizzare e a sfruttare utopisticamente quelle idee per realizzare la loro distopia.

Sicché, pur volendo in teoria realizzare in terra il più perfetto dei mondi possibili, una sorta di paradiso terrestre,

esse in realtà mettevano mano al perfezionamento continuo dell’inferno, di quella specie di gheenna, di gorgo infuocato, potenzialmente in grado di risucchiare l’intera umanità in una sola volta.

Voler tornare alla “normalità” significherebbe allora riportare quelle possibilità umane, sia quelle sociali che quelle individuali,

allo stato di latenza, equivarrebbe a richiudere quello squarcio, a spegnere quel baluginio, quella luce nuova che da esso riusciva a filtrare e che ci ha consentito di scoprire il volto sommerso, represso e dolorante del mondo esterno e di quello interno; tornare allo “stesso” vorrebbe dire insomma estinguere il sogno e con esso anche l’utopia di un mondo diverso, di un’umanità nuova.

Sicché, anche in questo momento di scelte radicali, a fronte di un generalizzato e incontenibile desiderio di tornare alla vita “normale”,

ora che proprio quel “benedetto” virus stephanódes, cioè a forma di corona, era riuscito ad aprire quella breccia di luce salvifica dentro la ferita purulenta dell’umanità, proprio adesso valgono ancora e sempre nella storia umana le parole dell’apostolo:

“la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie” (Gv 3, 19).

Ivrea, 30 maggio 2020

 

Quaderno CIPEC numero 65

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Cari/e tutti/e ho il piacere di comunicarvi che il Quaderno Numero 65 “Scrivere è come vivere, solo che è più semplice” del’amico scrittore Danilo Zannoni ha visto la luce in versione digitale.
Quanto prima, Covid permettendo, avremo anche l’edizione a stampa.

Quaderno CIPEC numero 65, Scrivere è come vivere, solo che è più semplice

Quaderno CIPEC numero 65, Scriveve è come vivere solo che è più semplice

Di seguito due mie righe di introduzione ai bei racconti di Danilo:

Ho conosciuto Danilo Zannoni a fine 2013, poco dopo il mio arrivo/ritorno a Genova, ad una conferenza in cui Antonio Ingroia presentava il proprio movimento, Azione civile.

Lo ho poi rincontrato pochi giorni dopo, alla prima riunione di quella che sarebbe stata la lista l’Altra Europa, bella avventura poi finita nel nulla, dopo un buon inizio.

Ricordo con nostalgia la sede collettiva di via S. Luca, dove si incontravano il circolo Thomas Sankara, pezzi diversi di sinistra, comitati che si erano formati dopo il lontano luglio 2001 (i convegni, le manifestazioni, i “fatti” di Genova, la morte di Carlo Giuliani).

È stato l’inizio di un impegno comune, le elezioni europee del 2014, le assemblee, i convegni, il tentativo di contatti con pezzi di società (ambiente, pace, partecipazione, lavoro), le presentazioni di libri (su Syriza, su Podemos, su Pietro Secchia, su problemi amministrativi torinesi che richiamavano Genova), gli incontri con Vittorio Agnoletto, Alfio Nicotra, l’avv. Flick…, la mancata (per decisioni dall’alto) candidatura di Pagano alle regionali, le solite, immancabili difficoltà successive.

Danilo scrive novelle

Ho scoperto, con una certa sorpresa, che Danilo scrive novelle. Con passione, continuità, puntualità. Una produzione che cresce ogni giorno. Prima su Facebook, poi con un opuscolo “autoprodotto”, ora con questo quaderno che potete leggere in carta e sul sito del CIPEC.

Sono racconti diversi per lunghezza, impostazione, contenuto. A tratti cambia parzialmente anche lo stile. Sono stati presentati in pubblico in alcune occasioni, al circolo “Gramsci” in val Polcevera, alla libreria Ubik di Savona, al circolo ARCI di Ceriale. Poco o tanto il pubblico, è stata l’occasione per tornare sui temi toccati, con cari amici/he, da Rosario con la sua chitarra, alle letture dello stesso Danilo, di Cristina e Antonella. Poi è arrivato il Covid ad impedire altre serate.

È impossibile riassumere oltre 100 pagine di racconti

Fermiamoci sul 30 giugno, data storica per l’antifascismo genovese, incontro di tre generazioni, quella partigiana, quella del 1960, quella di oggi, sconfitta, ma ancora colma di volontà e di speranze. Raccontalo a tuo figlio tocca il tema dei migranti, di chi a loro contrappone l’ordine, l’”uomo forte al comando”, in un mondo in cui le malattie nascono dall’inquinamento, in cui l’unica religione è “lo sviluppo senza se e senza ma” e la tecnologia non è strumento di liberazione.

Il tema torna nel Cormorano. A questo piccolo essere viene consigliato di non volare vicino a quanto costruito dall’uomo, perché l’uomo Qualsiasi cosa tocchi, la distrugge.

Julia e il Caimano è l’incontro tra il grande (il caimano) e il piccolo (la farfalla), tra il mondo visto dal fiume e dall’alto, tra una vita che sta finendo perché mi sento così vicino al buio, al non essere più, perché tutto ciò che mi piaceva…e una esistenza che dura un attimo. I loro cuori smisero di battere all’unisono.

Anniversario

Diverso è il tono di Anniversario. Un amore è finito e il ricordo dell’incontro di dieci anni prima non può riportarlo in vita. Anzi. La donna scopre la propria libertà, un nuovo inizio, il ritorno alla vita.

Padre e figlio ripropone il tema politico, le scelte esistenziali. Danilo legge, per una volta, la realtà da un punto di vista opposto al suo, proprio di quel mondo di quelle classi sociali che non ama.

Si potrebbe continuare. Lascio a chi legge di scoprire e valutare altri racconti, altre storie, altre osservazioni.

Questo quaderno diverso da quelli che ci hanno accompagnato per un quarto di secolo, ci propone per la prima volta, racconti, novelle, osservazioni morali sulla nostra realtà.

Torneremo, nei prossimi, ai temi storici, a presentare documenti, magari aridi, ma che rischierebbero di perdersi se non esistessero queste pagine (fate il conto di quante sono, dal lontano quaderno n. 1, dedicato a Lucia Canova).

Buona e piacevole lettura.

Sergio Dalmasso

Julia e il Caimano

di Danilo Zannoni

Danilo Zannoni(Tratto dal Quaderno CIPEC N. 65 contenente una raccolta di novelle di Danilo Zannoni.)

Caio nuotava lento controcorrente, si era allontanato dal branco, era troppo vecchio per accoppiarsi, e non aveva voglia di azzuffarsi con i giovani caimani che esibivano ancora le strisce gialle sul dorso.

Era un vecchio caimano e zuffe d’amore ne aveva fatte anche troppe, e pensò, non scevro di godimento, le aveva vinte tutte.

Nuotava con la testa semiaffondata nell’acqua limacciosa del fiume, cercava qualcosa, era inquieto.

Antonella Marras interpreta Julia e il caimano

Impattò in un branco di piragna, quando era giovane sarebbe partito implacabile ed avrebbe fatto una scorpacciata, ma ormai aveva sette anni, si limitò a mangiare quelli che erano sulla sua rotta e proseguì verso l’isola, che iniziava a vedere non troppo lontana. Lui non poteva saperlo ma ormai giugno stava finendo e presto sarebbe iniziato luglio, il mese degli accoppiamenti.

Per quanti anni, quel passaggio lo aveva eccitato?

Quanti figli aveva messo al mondo dopo amplessi torridi e gratificanti?

Ma questo era il passato, ora voleva rimanere da solo e pensare.

Finalmente si spiaggiò sull’isola.

Il sole stava sorgendo lento ed implacabile all’orizzonte.

Si tirò sul bagnasciuga, chiuse gli occhi e si lasciò andare al flusso dei suoi pensieri. «Perché sono nato, cosa devo fare, perché mi sento così vicino al buio, al non essere più, perché ciò che mi piaceva e per cui godevo ora non mi interessa più?»

Le risposte non arrivavano e le domande si moltiplicavano, pianse sconsolato e, poco alla volta cadde nel sonno.

Qualche tempo dopo aprì un occhio perché gli prudeva, subito non riuscì a metterla a fuoco, era troppo vicina, poi trovò la regolazione giusta.

Una farfalla arancione era posata sul suo muso e suggeva avidamente le sue lacrime.

«E tu chi saresti» pensò.

«Escuceme mucho mio segnore, no la volevo disturbarla.»

Caio rimase un attimo interdetto.

«Es que la suas lagrima es mucho dulce e me dona fortezza»

Caio aprì anche l’altro occhio.

Sapeva benissimo che solo i caimani potevano parlare e sentir parlare un esserino così minuscolo lo aveva sconvolto.

«Scusa, ma tu parli?» disse.

La farfalla volò via in un attimo.

Caio pensò fra sé e sé: «Sono proprio vecchio, pensare di parlare con le farfalle».

Stava richiudendo gli occhi quando la farfalla tornò a posarsi sul suo muso.

La traguardò con entrambe le pupille, era bellissima, di un arancione carico, molto grande rispetto alle altre farfalle che aveva incontrato e sicuramente femmina.

Come lo pensò si dette dello scemo.

La farfalla aveva ripreso a succhiare le lacrime dall’altro occhio.

«Segnor grande, tu me spaventasti, troppo forte la tua voce, puoi sussurrar, por mi, te prei?»

Caio, sentendosi molto stupido rispose in un sussurro: «Mi chiamo Caio sono un vecchio caimano e non ho mai visto una cosa bella come te»

Ci fu un lungo silenzio.

«Io sono Julia, e ora capisco meglio ciò che dici – perché lo sussurri.

Vivo qui in quest’isola di lantane che me gustano da morir»

«Cosa sono le lantane» disse Caio, quasi ipnotizzato.

«Quelle piante lì» disse Julia, voltandosi verso l’isola.

«E perché bevi le mie lacrime» chiese in un sussurro Caio.

«Perché me gusta» rispose la farfalla.

«Ma ora devo andare» e si alzò in volo.

«Non andare, ti prego» sussurrò Caio.

«Devo, ma domani, sarò di nuovo qui, ci sarai tu?»

«Certo, ci sarò»

Julia era ormai lontana, oltre la riva del fiume.

Caio si trascinò in acqua e si lasciò portare dalla corrente verso la sua tana.

Incontrò banchi di piragna ma il suo appetito era appagato.

Tornò tutti i giorni all’isola e tutti i giorni tornava Julia, e si raccontavano tante cose. Caio le parlava della vita del fiume e dei mille animali che incontrava ed alle volte mangiava ogni giorno.

Julia gli parlava del mondo visto dall’alto e di come era la campagna che lei vedeva e che lui non avrebbe mai visto.

Passarono i mesi.

Poi un mattino Caio si sentiva così stanco da non farcela ad arrivare all’isola.

Il buio lo stava prendendo.

Ma doveva andare.

Nuotò contro corrente con tutte le sue forze ma si rese conto che non ce l’avrebbe mai fatta, stava albeggiando ed era ancora a metà strada.

«Devo vederla» si disse «per un ultima volta devo vederla.»

Ma era troppo stanco, la corrente iniziava a portarlo indietro.

«No!» urlò

Ed iniziò a nuotare freneticamente.

Poi vide lontano uno sfarfallìo, non poteva essere.

«Segnor grande, tu me spaventasti, troppo forte la tua voce, puoi sussurrar, por mi, te prei?»

Julia si posò sul suo muso, era stremata, la sua livrea era sbiadita, la sua voce flebile. «Finalmente.» sussurrò Caio

«Finalmente» sussurrò Julia.

«Vuoi succhiare una mia lacrima?» La pregò il caimano.

«Certo amore mio» rispose la farfalla.

I loro cuori smisero di battere all’unisono, mentre il fiume li portava lentamente al mare.

Julia e il Caimano. Dipinto di Alex Di Viesti

Dipinto di Alex Di Viesti.

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Scarica il quaderno cipec numero 65 contenente tante belle novelle:

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Orizzonte della sinistra

 

PER UN 25 APRILE ALTERNATIVO !!!

ANPI Ivrea e Basso Canavese

Un contributo dello Storico del Movimento Operaio

Sergio Dalmasso

Il mondo come orizzonte della sinistra

Orizzonte della sinistra
Orizzonte della sinistra. Il settantacinquesimo anniversario non deve essere affrontato retoricamente, ma con la consapevolezza della posta in gioco e della necessità di cercare insieme nuovi paradigmi…

Sono iscritto all’ANPI da quando l’adesione è aperta a figli di ex partigiani.

ANPI nazionale, Orizzonte della sinistra

Nella crisi totale, se non assenza, della sinistra politica, sociale e culturale, l’ANPI resta una struttura unitaria, garanzia democratica, strumento di lavoro, di discussione.

Questi anni saranno ricordati, sui futuri libri di storia, non solamente come quelli della progressiva distruzione/catastrofe ambientale, ma come quelli in cui grandi masse popolari, anziché avere un riferimento in una ipotesi di cambiamento sociale (la rivoluzione sovietica, la lotta antifascista, il riscatto del terzo mondo, la protesta giovanile ed operaia…) sono stati consegnati ad una destra reazionaria, parafascista, fondamentalista, sovranista, populista (in senso deteriore).

Il 25 aprile e la valenza internazionalista del primo maggio debbono servirci a ripensare alcuni fondamentali: – il significato dei beni comuni – il primato del collettivo sul privato – uno sguardo non limitato al “particulare” nazionale, ma capace di abbracciare il mondo – il rilancio di un pensiero laico e critico.

Anche l’attuale emergenza mette in luce: – i rischi causati dalla progressiva distruzione dell’ambiente – i danni prodotti dalle progressive logiche privatistiche – i rischi di una chiusura democratica, dell’aumento del controllo sociale (una sorta di “grande fratello” planetario con crescita di poteri personali e autocratici) – il tentativo di far ricadere la crisi ambientale e sociale sulla parte più povera del mondo e sulle classi subalterne (il parallelo con gli anni trenta non è forzato).

Il settantacinquesimo anniversario non deve, quindi, essere affrontato retoricamente, ma con la consapevolezza della posta in gioco e della necessità di cercare insieme nuovi paradigmi.

Sergio Dalmasso, Genova 9 aprile 2020

Mario Beiletti, presidente ANPI Ivrea e Basso Canavese

Grazie all’amico Sergio dall’Anpi”.

Articolo pubblicato il 21 aprile 2020.

Download articolo Orizzone della sinistra:

Download “25 aprile, Orizzonte della sinistra (di Sergio Dalmasso)” Per-un-25-aprile-alternativo-Sergio-Dalmasso-2020.pdf – Scaricato 21456 volte – 469,88 KB

Mario Giovana

Nel quaderno CIPEC 64 del secondo semestre 2020 pubblicheremo (è già online) gli interventi di M. Giovana al consiglio regionale del Piemonte nella prima legislatura.

A tal proposito, in questo spazio, diamo menzione di un convegno svoltosi qualche mese fa, a Mombasiglio (Cuneo) per ricordare la figura di  Giovana a distanza di dieci anni dalla scomparsa, il 27 ottobre del 2019.

Anche io ho dato il mio contributo come relatore al convegno “Mario Giovana un politico fuori dal coro, uno storico non accademico:

Mombasiglio lo ricorda a 10 anni dalla scomparsa”.

Sergio Dalmasso

Convegno Mario Giovana un politico fuori dal corso, uno storico non accademico

 

Sergio Dalmasso ricorda Mario Giovana

 

I relatori invitati al convegno:

dalle 9,30 Marco Ruzzi (Istituto storico Resistenza Cuneo), Chiara Colombini (Isr Torino), Sergio Dalmasso e Learco Andalò (storici), Giovanni Carpinelli e Aldo Agosti (Università Torino), Patrizia Piredda (Isr Cuneo).

Dalle 15 Sergio Dalmasso (ex consigliere regionale), Sergio Soave (presidente Isr Cuneo), Mario Renosio (Isr Asti), Gianni Oliva (storico), Angelo d’Orsi (Univ. Torino), Mimmo Franzinelli (storico).

Biografia di Giovana

È stato comandante partigiano nel Cuneese.

Amico e compagno di molti uomini di Giustizia e Libertà, tra i quali Aldo Garosci, Vittorio Foa, Carlo Levi, Riccardo Levi, Franco Venturi ed Emilio Lussu.

Dopo aver militato dal 1951 nel movimento dei socialisti indipendenti di Valdo Magnani, dal 1957 per sette anni è stato membro del Comitato Centrale del PSI di Pietro Nenni.

Nel 1970 fu eletto consigliere regionale del Piemonte nelle liste del Partito Socialista di Unità Proletaria che aveva contribuito a fondare.

Per lunghi anni ha svolto attività di giornalista ed è inoltre scrittore di numerosi saggi di storia contemporanea.

Ha collaborato a riviste italiane e straniere di storia contemporanea.

È scomparso nel 2009 all’età di 84 anni.

A lui è dedicato il Centro Culturale di Mombasiglio “Mario Giovana”.

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Download del Quaderno CIPEC numero 64:

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Quaderno CIPEC 63

Sergio Dalmasso: Interventi al consiglio regionale del Piemonte: 2005-2007

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È online il quaderno CIPEC Numero 63 in anteprima rispetto alla versione cartacea.

In questo quaderno sono raccolti gli interventi di Sergio Dalmasso al consiglio regionale del Piemonte nella VIII legislatura.

Per questioni di spazio nella versione  a stampa del quaderno si è deciso pubblicare gli interventi effettuati negli anni 2005-2007.

I restanti interventi saranno pubbicati nel quaderno 66.

Il prossimo quaderno del secondo semestre 2020 raccoglierà gli interventi in consiglio regionale di Mario Giovana, grande figura della sinistra piemontese.

Il valore di questo quaderno è portare gli interventi pubblici di Sergio Dalmasso in questo sito web che come i lettori sapranno ambisce ad essere l’archivio della opera omnia presente, futura e quella che si riuscirà a reperire/ricostruire del nostro.
Questi interventi sono frutto di un lavoro, senza lesinare energie intellettuali; quindi, meritorio d’essere conservato e reso pubblico – a nostro avviso.

Vi è un commosso e meritato ricordo di Mario Canu in apertura degli interventi di Dalmasso nell’VIII legislatura presieduta a suo tempo da Mercedes Bresso.

 

“Rilanceremo un’ipotesi sostanzialmente di sinistra su grandi tematiche che non tocchino solo le sigle politiche, ma che cerchino di dare vita a quell’idea di sinistra che noi abbiamo in mente, che veda i partiti politici, le formazioni politiche come attori fondamentali, ma come attori altrettanto importanti e altrettanto fondamentali le grandi forze sociali le grandi forze sindacali, il volontariato, le associazioni, il mondo ambientalista e – non lo dico per fare contento l’amico Moriconi – il mondo animalista, rispetto al quale mi auguro che il collega m’insegnerà alcune cose su cui potremo lavorare per assumere impegni comuni in quest’aula. Sergio Dalmasso”

Buona visione!

Copertina Quaderno CIPEC Numero 63

Anti-illuminismo della destra italiana

Figure come la giovane Anne Frank e l’anziana senatrice Liliana Segre vengono derise e offese dai sostenitori, noti e ignoti, della destra italiana.

Anti-illuminismo della destra italiana. Liliana Segre con il padre

Figure come la giovane Anne Frank e l’anziana senatrice Liliana Segre vengono derise e offese dai sostenitori, noti e ignoti, della destra italiana non già e non tanto per se stesse, per quello che sono, cioè come vittime della Shoah, ma per quello che esse rappresentano, ossia per la loro ebraicità.

È questo l’aspetto più inquietante della questione, perché ancora una volta, nonostante la dura lezione del recente passato, si indulge a prendersela non con le persone, con i singoli individui, bensì con la loro presunta razza.

Da questo atteggiamento platealmente razzista, si desume che il fondamento della destra italiana, benché non lo si dica ancora apertamente, è rimasto immodificato: è rimasto cioè nostalgicamente fascista, perché continua ad opporsi a uno dei principi dell’Illuminismo, a uno dei cardini dell’etica kantiana, che dice di

trattare le persone sempre come un fine e mai come un mezzo.

Ebbene, umiliando e sfregiando l’immagine simbolica di quelle due persone, la destra fascista italiana non fa altro che usarla come mezzo per ribadire ancora una volta, dopo quasi un secolo dalla marcia su Roma, che il progetto illuminista e internazionalista, filocomunista e filoebraico, insomma il programma democratico che la sinistra, assieme alle altre forze antifasciste, ha voluto attuare in Italia con la sua bella Costituzione democratica e repubblicana, è e resta un progetto sbagliato.

E ciò, secondo questa destra, esprime un giudizio che, nonostante i contorcimenti istituzionali sempre più difficoltosi e i giochi di palazzo, gli Italiani confermano quasi ad ogni turno elettorale.

Sarebbe pertanto auspicabile e legittimo per questa destra restaurare il progetto antitetico ad esso, ossia quello sovranista e neonazionalista, populista e neofascista, e quindi antidemocratico.

In tutto il mondo, peraltro, a partire dalle vecchie e dalle nuove superpotenze, non mancano i modelli a cui ispirarsi e da cui, sfruttando la naturale dialettica tra esse, ottenere eventuali sostegni concreti.

Ma per tornare al nostro strano Paese, che, da par suo, saprà certo plasmarsi un modello ad esso adeguato, magari sulla falsa riga del suo vecchio prototipo, l’auspicio è che questa nuova e probabile alleanza, questo nuovo asse, al quale orgogliosamente i sovranisti italiani credono di appartenere, non generi gli stessi risultati disastrosi che ha innegabilmente prodotto il precedente asse, sia sul piano militare che su quello economico.

La domanda pertanto è: vogliamo di nuovo diabolicamente ricadere nello stesso errore?

Se la risposta è sì, sappiamo già perlomeno quello che ci attende. Ma se la risposta è no, allora una sola cosa sembra ci resti da fare per salvarci da questa possibile sciagura – Kant, l’illuminista, l’autore del saggio sulla Pace perpetua, il filosofo il cui intero arco di vita è stato contrassegnato da continue guerre, lo sapeva bene: insistere sulla cultura.

Perché solo cittadini privi di memoria storica, di senso critico e di sensibilità possono assecondare propensioni miopi come quella stimolata ad arte dalla solita destra italiana fascista e velleitaria.

Se la nostra risposta è no, allora tra le priorità di governo, crisi o non crisi, ci deve essere assolutamente il sostegno all’istruzione e alla cultura.

Giacché solo la cultura ci può salvare da questo putridume, da questa china arida e scivolosa.

Franco Di Giorgi

1 novembre 2019

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Addio don Eugenio Melandri

Don Eugenio Melandri prete comunista

don Eugenio Melandri

Leggo dall’amico Alfio Nicotra la tragica notizia della morte di Eugenio Melandri.

Ho conosciuto questo missionario, mio coetaneo, nel movimento per la pace, a fine anni ’80.

Nel 1989 , scelse, per il parlamento europeo la candidatura in Democrazia Proletaria perché eravamo “i più poveracci”.

Fu (unico) eletto.

Nei suoi interventi vi era un intreccio di lettura sociale del Vangelo, socialismo popolare della sua terra (Emilia Romagna, era nato a Brisighella in provincia di Ravenna), passionalità, sdegno per i mali del mondo e per l’egoismo (anni ’80) imperante.

Fummo lieti ed onorati di conoscerlo, di ospitarlo, di dialogare con lui.

Attivissimo sulle grandi questioni internazionali, America latina, guerre, Africa, contro i blocchi economici, contro le politiche militariste, le discriminazioni.

Nel ’92, Rifondazione lo elesse deputato, ma, causa doppio incarico, si dimise dopo poche settimane.

Nel ’94, fu il primo escluso nelle nuove elezioni europee e continuo a credere (allora fui ritenuto politicamente scorretto) che Rifondazione non si comportò bene con lui.

Lavorò sui temi dell’Africa, delle migrazioni, del rapporto Nord/Sud.

Venne a Cuneo, nel 2002, in un incontro della mia sfortunata campagna per le comunali (prevalse il “voto utile”).

Negli ultimi anni, il tumore (il drago), affrontato con grande coraggio, sofferenze fisiche e morali, certezza di sconfiggerlo.

Negli ultimi giorni, la gioia per il ritorno a “celebrare la messa” da cui era stato sospeso per la sua candidatura in DP, forse anche la convinzione di avere superato la malattia e di poter tornare ai suoi impegni (a cominciare dalla rivista sulla quale scriveva).

Pochi giorni fa, uno scritto di Maurizio Acerbo condivideva la gioia per il suo “dire messa” e proponeva un convegno presso i missionari saveriani.

Speravo fosse un segno positivo.

Oggi la notizia della morte.

Ricordo i dibattiti con lui, le visite alle carceri, l’incontro alla viglia della prima sciagurata guerra del golfo, i suoi messaggi, su facebook, in cui dava conto della malattia.

Un laico convinto come me ha tanto imparato da Girardi, don Mazzi, La Valle.

Anche dal mio amico Eugenio Melandri e dalla sua splendida testimonianza di vita.

Sergio Dalmasso
27 ottobre 2019

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Articolo dell’Avvenire, 29 ottobre 2019, per ricordare Eugenio Melandri

Libro su Lelio Basso a Genova

Prosegue il tour italiano di presentazione dei libri di Sergio DALMASSO a Genova con

Lelio Basso. Un socialista eretico

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LELIO BASSO A GENOVA PRA’, Sabato 6 aprile 2019 alle ore 18.00 presentazione, presso il Circolo PRC Curiel – Casa della Sinistra Orsola Paone in Piazza Sciesa Amatore, Genova, del libro Lelio Basso. La ragione militante: vita e opere di un socialista eretico.

 

Lelio Basso Genova Pra'

Seguirà Apericena di autofinanziamento

Un cordiale invito a tutti coloro che vorrano e potranno esserci.

Sergio

 

Libro Lelio Basso presentazione a Genova Pra'

Non aveva ancora compiuto 25 anni, Lelio Basso, quando venne tratto in arresto e confinato all’isola di Ponza.

La sua “colpa”, nel 1928, era quella di essere un convinto antifascista e di comportarsi come tale.

Intanto, se allo studioso Lelio Basso si dovrà, tra le tante cose, la diffusione del pensiero di Rosa Luxemburg in Italia, fu grazie alla sua visione della lotta partigiana se la Resistenza guadagnò un respiro di massa.

Ancora, per comprendere la complessità e l’importanza del personaggio, è a Lelio Basso, in quanto membro della Costituente, che si devono gli articoli 3 e 49 della Costituzione mentre, da strenuo difensore dei diritti umani quale fu, diede un contributo fondamentale alla fondazione di organismi quali il Tribunale Russell, chiamato a giudicare i crimini statunitensi in Vietnam.

Con partecipazione e competenza, Sergio Dalmasso rievoca la vita di Lelio Basso, dà voce alle sue lotte e entra nei particolari del suo lavoro politico, spiegando le rielaborazione bassiana del materialismo storico e restituendo il giusto merito a una delle figure più importanti della storia italiana contemporanea.

Prefazione di Piero Basso.

Libro disponibile anche su AMAZON

Conferenza su Rosa Luxemburg a Vigevano

Sabato 23 marzo 2019 si è svolta la conferenza su Rosa Luxemburg di Sergio Dalmasso presso il circolo del PRC Hugo Chavez a Vigevano.

In occasione sono stati presentati agli astanti il libro su Lelio Basso e  su Rosa Luxemburg di Sergio Dalmasso. La conferenza è stata videoripresa da Rino Arrigoni.

Locandina Conferenza Rosa Luxemburg Vigevano

Notizia pubblicata anche sul sito Rifondazione comunista Vigevano

Un momento della conferenza estrapolata dal filmato:

Conferenza Rosa Luxemburg Vigevano

 

 

Per tutti coloro che non lo hanno e volessero acquistare il libro Una donna chiamata rivoluzione, Rosa Luxemburg ricordiamo che è presente in anche in Amazon, assieme all’ottimo testo su Lelio Basso un socialista eretico.

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Rosa Luxemburg in breve

“Rosa Luxemburg (1871-1919) è stata una filosofa, economista e politica polacco-tedesca, figura di spicco del socialismo e del marxismo nel primo XX secolo.

Militante attiva durante la rivoluzione tedesca del 1918-1919, Luxemburg ha contribuito alla teoria marxista con opere come “Riforma o rivoluzione” e “Accumulazione del capitale”.

La sua critica al revisionismo e alla socialdemocrazia l’ha resa una voce distintiva nell’ambito socialista.

Luxemburg ha anche difeso l’internazionalismo e si è opposta alla prima guerra mondiale.

La sua vita è stata segnata da coraggio e passione, culminando con il suo tragico assassinio nel 1919.”