Alla Bianchini di Genova per i 30 anni di Rifondazione Comunista

SABATO 18 dicembre 2021 alle ore 15:00, a GENOVA, alla BIANCHINI (p. Romagnosi, Marassi), incontro sui 30 anni di Rifondazione.

– introduzione;
– Testimonianze, ricordi, di chi ha contribuito a fondarla, nel lontano 1991, di chi ha partecipato per fasi più o meno lunghe.

Dieci anni fa, a Cuneo, organizzammo un incontro simile, con la presenza della grande Bianca BRACCI TORSI.

La situazione non è certo migliore, ma è opportuno incontrarsi, ragionare insieme, sapendo che i percorsi sono stati diversi e tormentati.

– conclusione: dal 1991 al 2021 ed oltre.

Spero che il mio recente libro RIFONDAZIONE COMUNISTA

e il primo (2002), di cui ho artigianalmente ristampato alcune copie, servano ad una riflessione collettiva, aperta.

Mi auguro che gli incontri svolti sino ad oggi :
Piemonte: Cuneo, Torino, Asti, Mondovì;
Liguria: Genova centro storico, val Polcevera, S. Teodoro, Rapallo
Resto del mondo: Bologna, Napoli,

non siano stati inutili e che il Covid ci permetta di averne altri, da nord a sud, da est ad ovest.

Un grazie alle persone che ho incontrato e conosciuto in queste chiacchierate e a chi mi ha cercato per prossime avventure.

Non mancate SABATO 18. Vi sarà anche la focaccia!

 

Sergio Dalmasso

13 dicembre 2021, via facebook

Si rendono disponibili il libro sul primo decennio di Rifondazione presente nel Quaderno CIPEC numero 31 e il primo capitolo del recente libro Rifondazione Comunista che tratta della storia del secondo decennio dal 2001 al 2011:

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Video dell’Incontro partenopeo dell’11 dicembre 2021 :

Marx Bellocchio

Marx può aspettare. Di Marco Bellocchio

Recensione del film di Sergio Dalmasso

Marco Bellocchio è stato, a metà anni ’60, con il primo Bernardo Bertolucci e le prime opere dei fratelli Taviani,

il regista più politico della nuova generazione di cineasti che interpretava (come il free cinema inglese e in modo più “politico” della nouvelle vague francese) aspirazioni, rabbie, contestazioni, anticonformismi, spinte proprie di quel decennio.

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Marx può aspettare film di Marco Bellocchio

I pugni in tasca (1965) dramma psicologico, dissacrazione della borghese vita di provincia e della famiglia, lo pone all’attenzione internazionale.

Seguono La Cina è vicina (1967), documentari politici, legati alla sua militanza nell’Unione dei comunisti, film che svolgono un discorso complessivo sulle istituzioni (ancora la famiglia, la stampa, l’esercito, i manicomi…).

L’incontro con il discusso psicanalista Massimo Fagioli produce numerose opere in cui l’introspezione psicologica prevale, anche a scapito della qualità.

Ancora L’ora di religione (2002), Vincere! (2009) sulla vicenda di Ida Dalser e del figlio avuto da Mussolini,

l’attenzione al tema dell’eutanasia che parte dal caso di Eluana Englaro, sino a Il traditore (2019) su Tommaso Buscetta (splendida l’interpretazione di Pierfrancesco Favino).

E’ recente, al festival di Cannes, l’assegnazione della Palma d’oro alla carriera che ha coinciso con la presentazione di Marx può aspettare, un documentario “familiare” che fa luce su tante sue opere.

Quanto resta della famiglia Bellocchio si incontra nel dicembre 2016.

A distanza di tanti anni, riemerge il dramma familiare di cui mai si era parlato apertamente: il suicidio di Camillo, fratello gemello di Marco, il 27 dicembre 1968.

Le interviste che compongono il film, le fotografie, le immagini “autobiografiche” di numerosi film permettono una confessione collettiva, il riemergere di quanto è stato rimosso per decenni.

Ricompaiono la figura della madre, cattolicissima, ossessionata dalla religione e dal timore dell’Inferno (chiari i riferimenti ne I pugni in tasca e ne L’ora di religione) e del fratello Paolo schizofrenico (il bestemmiatore violento dell’Ora di religione),

vi è la figura della figlia sordomuta che partecipa alla confessione collettiva, ritorna il ricordo del padre, scomparso prematuramente.

Il senso di colpa aleggia su tutti, per avere sottovalutato il dramma del fratello, la profondità del suo malessere.

Su Piergiorgio, allora impegnato nella prestigiosa attività politico-culturale dei “Quaderni piacentini”, su Marco regista di successo che non comprende come il confronto con il gemello, privo di un ruolo, possa avere pesato drammaticamente su di lui.

Fra i sospesi, il non avere risposto ad una lettera in cui Camillo gli diceva di voler fare del cinema.

La disattenzione dei due fratelli, la scarsa stima per chi non aveva avuto successo,

i risultati del regista e il prestigio intellettuale di Piergiorgio, possono avere contribuito alla scelta del suicidio?

Il titolo del film nasce da una risposta di Camillo a Marco che gli proponeva, in pieno ’68,

la militanza politica rivoluzionaria e l’immersione nei problemi collettivi anche come risoluzione del disagio personale. Marx appunto – può aspettare.

Pesano maggiormente, sino all’annullamento, le contraddizioni individuali e personali. Il senso di colpa aleggia in modo diverso sul fratello Alberto,

per anni sindacalista (ancora qualche riferimento ne La Cina è vicina) e nella sorella Letizia che spera in una vita dopo la morte per potere reincontrare la famiglia.

Confessa il regista: Mi sono accorto che era l’ultima occasione per fare i conti con qualcosa che era stato nascosto. Ora mi sento liberato, non assolto.

Con questo film, Bellocchio abbandona le metafore, i riferimenti del cinema di finzione (si pensi al suicidio del fratello al centro del discutibile Gli occhi, la bocca).

La confessione è totale,

profonda anche se razionalizzata, possibile nell’incontro collettivo in cui si ragiona su Quel manicomio che era la nostra casa, dove ognuno ragionava per se stesso.

Sergio Dalmasso, settembre 2021

https://www.citystrike.org/2021/09/18/marx-puo-aspettare-di-marco-bellocchio/

Opuscolo La Sinistra

“La sinistra” di Sergio Dalmasso. Un libro da leggere

Opuscolo La Sinistra, copertina con CHE GUEVARA

Non sono molti i ricercatori che ancora si ostinano (meritoriamente) a lavorare sulla storia del movimento operaio della seconda metà del Novecento.

Un lavoro controcorrente, ma necessario per sfatare quella pesante leggenda nera su presunti “anni di piombo” in cui ogni forma di dissenso viene ormai direttamente o indirettamente assimilata al terrorismo.

I più interessanti, almeno per me, sono i “non accademici” proprio perché ancora mantengono un approccio “politico” e non banalmente sociologico o culturale a quella stagione.

Politico ovviamente nel senso più autentico del termine, non certo un appiattimento nostalgico del tipo “come eravamo” su quei personaggi e quei fatti, ma piuttosto la volontà di farne risaltare l’autentica natura che appunto fu di aperta contestazione dell’ordine sociale esistente e di ripensamento delle esperienze del movimento operaio ufficiale, partiti e sindacati, che ormai mostrava i segni di una crisi che si sarebbe presto rivelata, come testimonia lo stato attuale della sinistra, irreversibile.

Un tentativo esauritosi velocemente, ma di tutto rispetto soprattutto se confrontato ai balbettii inconcludenti della sinistra attuale che si dichiara ancora alternativa, ma non sa andare oltre i richiami moralistici alle esternazioni di Papa Bergoglio contro le ingiustizie sociali o nei casi peggiori mettersi a rimorchio dei No vax e persino dei Talebani.

Una sinistra prigioniera di un eterno presente e di un analfabetismo politico che davvero fa impressione.

Non si può quindi che segnalare con estremo piacere “La Sinistra. Una stagione troppo breve”, l’ultimo lavoro di Sergio Dalmasso, da decenni impegnato,

lo ricordiamo fra l’altro redattore della bella rivista “Per il sessantotto”, nella ricostruzione attenta delle voci più interessanti di quella “altra sinistra”, alternativa ai grandi partiti ufficiali.

Una realtà fatta di organizzazioni, riviste e personaggi che rischiano oggi di essere dimenticati o trascurati proprio da chi ogni giorno proclama la necessità di un rilancio di un sinistra autentica ancora capace di riflettere sul presente in un rapporto autentico con la classe.

Nel suo libro, agile, ma estremamente attento ai dettagli, Dalmasso ricostruisce la genesi e la storia di una rivista che tra il 1966 e la fine del 1967 più di ogni altre seppe documentare cosa stava incubando nelle viscere di un neocapitalismo che pareva aver risolto le sue contraddizioni a partire dal conflitto capitale-lavoro.

E lo fece non limitandosi ad un’Italia dove si manifestavano i primi importanti segnali di una ripresa di combattività operaia e soprattutto di un crescente disagio giovanile che iniziava a trasformarsi in protesta organizzata,

ma offrendo ogni mese una analisi attenta di ciò che di significativo avveniva nel mondo: dalle guerriglie latinoamericane, alla rivolta dei neri negli Stati Uniti, alla Rivoluzione culturale cinese, alla guerra del Vietnam.

Articoli ovviamente non esenti da critiche, “La Sinistra” contribuì molto al diffondersi di quella mitologia terzomondista fonte poi di errori anche gravi,

tipo l’esaltazione acritica della lotta armata come pianta trapiantabile a piacere in ogni clima che avrebbe poi generato una deriva tragica.

Ma cosa molto più importante per quella generazione, la mia, che si apriva allora alla politica,

“La sinistra” rappresentò una boccata d’aria fresca e una vera e propria iniziazione ad una militanza rivoluzionaria che nell’internazionalismo, ovvero in una visione globale della lotta di classe a livello planetario, trovava il suo principale fondamento.

Grazie a “La sinistra” iniziammo a sentirci parte di un movimento di lotta che travalicava i confini nazionali.

E questo per chi militava in piccole organizzazioni o ancor più piccoli collettivi locali, non poteva che essere motivo di speranza e stimolo a continuare senza timori ad avanzare sul cammino intrapreso.

“La sinistra” prepara il ’68 e per questo muore proprio nel momento in cui le armi della critica si stavano trasformando con una rapidità travolgente in pratica di massa.

“Ben scavato, vecchia talpa” verrebbe da dire riprendendo una celebre frase del padre di tutti i futuri cattivi maestri.

***

Sergio Dalmasso, La sinistra. Una storia troppo breve, Edizioni Punto Rosso, Milano, 2021.

Download gratis del primo capitolo dell’opuscolo LA RIVISTA. La Sinistra:

Download “Capitolo primo RIVISTA LA SINISTRA” Opuscolo-La-Rivista-La-SINISTRA-capitolo-primo.pdf – Scaricato 35613 volte – 177,37 KB

 

Opuscolo La sinistra recensito da Giorgio Amico

Giorgio Amico

Download, recensione di Giorgio Amico, pubblicata il 21 agosto 2021 su VENTO LARGO

Download “La Sinistra di Sergio Dalmasso. Un libro da leggere (di Giorgio Amico)” opuscolo-di-Sergio-Dalmasso-LA-RIVISTA.-LA-SINISTRA.-Una-stagione-troppo-breve-di-Giorgio-Amico.pdf – Scaricato 20736 volte – 273,36 KB

Di seguito si mostra la copertina Anno II – N. 4/5, aprile-maggio 1967 Colletti Lucio (direttore) della rivista LA SINISTRA:

copertina Anno II - N. 4/5, aprile-maggio 1967 Colletti Lucio (direttore) della rivista LA SINISTRA, Che Guevara e Fidel Castro

 

 

L’eticità di una partita

di Franco Di Giorgi

 

l'etiticità di una partita Mancini e Vialli

Italia-Inghilterra: l’abbraccio tra Mancini e Vialli, in lacrime a fine partita (FOTO Antonio Sepe)

L'eticita' di una partita. Italia Inghilterra

In un suo interessante saggio, lo storico Emilio Gentile, attraverso un’amplissima base di fonti, conduce un’analisi dettagliata delle ragioni che hanno condotto alla Grande Guerra e con essa, come suona il titolo stesso dell’opera, all’«apocalisse della modernità»:

ragioni non soltanto politiche e militari, ma soprattutto culturali.

Tra queste emerge su tutte quella che egli sintetizza nel concetto di «eticità della guerra», consistente nella convinzione che l’idea o la realtà della guerra contengano in sé inseparabilmente un momento etico-formativo.

In effetti, considerando i gravi strascichi che quel conflitto mondiale lascerà, e riprendendo una tesi di Simone Weil sulla guerra, non si può non constatare, dice ancora lo storico in un altro saggio (Contro Cesare.

Cristianesimo e totalitarismo all’epoca dei fascismi), un’intrinseca parentela della statolatria fascista con la guerra, «proclamata e venerata come fondamentale esperienza di vita».

Ora, vista l’assurdità di questa credenza, non si può non essere d’accordo con la critica che la Arendt ne fa ne Le origini del totalitarismo, definendola un’interpretazione sofistico-dialettica della politica, un’acrobazia dialettica, addirittura una superstizione. L’enormità però non consiste tanto nell’eticità della guerra in sé, poiché ogni azione, persino la più brutale, nel bene o nel male (lo apprendiamo dalle testimonianze dei superstiti), è in grado di generare un momento etico-formativo.

L’irragionevolezza dialettica risiede piuttosto nell’idea illogica e innaturale che un momento etico-formativo, e quindi pedagogico,

non possa che generarsi dall’azione violenta, dalla guerra, e che proprio per questo essa verrà assunta dall’ideologia fascista come una fondamentale esperienza di vita propedeutica all’incontro fatidico con la bella morte.

Sicché, da questa assurda prospettiva bellicista, la guerra, il pólemos, come ritenevano a loro modo Eraclito, Lutero, Hegel e Nietzsche, risulterebbe necessario o indispensabile: in ogni caso un evento imprescindibile se si deve rivelare o salvare l’anima dell’uomo, se si intende giungere a quel momento formativo, se si vuole rafforzare la coscienza e il corpo degli individui.

Se assumiamo questo momento pedagogico come il “positivo”, allora l’evento guerra, per essenza “negativo” a causa della sua terribilità, non potrà che essere conditio sine qua non del positivo.

E questo è assurdo, oltre che inaccettabile.

La storia del XX secolo ci ha insegnato a sufficienza l’infondatezza di una tale convinzione, rivelandola, appunto, una superstizione.

Ebbene, la finale degli Europei di calcio giocata a Wembley, la partita vinta dall’Italia contro la baldanzosa Inghilterra della Brexit, proprio in quanto forma sublimata di una battle, suggerisce che anche l’esultanza, la gioia e la festa possono rappresentare un momento eticamente rilevante, un’occasione di autenticità, di identità e di appartenenza altrettanto profonda e viva quanto quella che si dà con lo stato nascente nel sentimento amoroso, o con l’angoscia della morte durante la guerra.

Si pensi solo all’esperienza rigenerativa vissuta da Novalis dinanzi agli occhi infiniti della sua giovane fidanzata, o a quella del principe Bolkonskij sotto il cielo immenso di Austerlitz in Guerra e pace di Tolstoj.

Non c’è pertanto alcun bisogno di ricorrere necessariamente alla guerra per garantirsi l’esaltante esperienza di vita auspicata dal fascismo.

Concezione, questa della necessità del negativo, le cui radici si possono rintracciare in quell’«ideologia della morte» che Domenico Losurdo scopre nel cuore tenebroso dell’Occidente, nell’Europa imperialista e colonialista.

Nella sua forma speculativa essa è rilevabile soprattutto in Heidegger, come pure, andando a ritroso, in Patmos di Hölderlin, nella pedagogia delle dittature, ossia nel Drill, nella teologia luterana della croce come unica possibilità di salvezza, nelle Predigten di Meister Eckhart, in Agostino, in Paolo, in Gesù stesso, che doveva necessariamente sacrificarsi per il bene dell’umanità, e infine in Giobbe, nel giusto per antonomasia, la cui salvezza però non poteva essere ottenuta senza aver prima subito l’ingiusto patimento, secondo la logica tutta occidentale della necessaria priorità del negativo.

Anche il gioco, dunque, in quanto forma di contesa sublimata dall’impegno culturale, anche il ludus – come vediamo in questi giorni di genuino entusiasmo sportivo, in cui la gente, in barba alla variante delta, festeggia esultante per le strade di tutte le città italiane (e non solo italiane) –;

anche il gioco può dunque suscitare entusiasmo vitale, affratellamento, senso di unità, di collettività, sentimenti che i totalitarismi sanno imporre solo con il terrore e con la coercizione.

Tuttavia, a voler essere pessimisti, anche se questo ludere, se questo festeggiare, si risolvesse solo in un’illusione, non ha importanza.

L’importante è che si possa continuare a giocare, a prendere sul serio il gioco e a rispettare le sue regole.

Tutto, purché non si ritorni, per usare ancora qualche espressione della Arendt, a scambiare il cinismo per saggezza, a covare l’odio indefinito per tutto e per tutti, cioè il nietzscheano odio profondo e impersonale, purché insomma non si continui a pensare alla superstizione della guerra e al suo inevitabile carico di morti come sola modalità per esperire più a fondo la vita.

Ivrea, 17 luglio 2021

FRANCO BATTIATO

Un approccio altro alla musica e alla vita

Ricordando Franco Battiato

Franco Di Giorgi

Un approccio altro alla musica e alla vita, Franco Battiato

ogni pensiero nella musica è nella più intima e nella più

inseparabile  parentela (Verwandschaft) con la totalità

dell’armonia, che è unità (da una lettera di Bettina Brentano a

Goethe, parlando della musica di Beethoven).

Un approccio altro alla musica e alla vita, Anch’io, come Marco Travaglio, non saprei da dove cominciare.

Ma inizio dal 1982. Cioè da quarant’anni fa.

Credo fosse l’estate del 1982 quando mi recai al Teatro Tenda di Torino per assistere al concerto di Franco Battiato.

Era già però da almeno tre anni che ascoltavo le sue canzoni incluse nell’Lp L’era del cinghiale bianco, del 1979.

Indimenticabili Strade dell’est (in cui compare tra l’altro un verso che mi ha sempre inquietato: da qui – cioè dove tutto ha avuto origine – la fine), e la sempre attuale Il re del mondo.

Solo più tardi avrò modo di apprezzare anche la musica sperimentale del “primo” Battiato, quello degli anni Settanta.

Già da circa dodici anni suonavo con passione e anche con un certo profitto la chitarra esercitandomi sugli spartiti di cantanti, cantautori e complessi più svariati, come pure su quelli di Mauro Giuliani e di Carlos Antonio Jobim, ma i componimenti di questo artista siciliano mi sembrarono subito strani, diversi da tutti gli altri.

Non solo ovviamente per la musica (a differenza che negli altri autori, qui le dolci melodie uscivano con semplicità e leggerezza dall’armonia e si piegavano ad ogni tipo di inflessione, di contaminazione musicale e culturale) e per i testi (i simbolismi e le metafore andavano al cuore stesso delle cose, toccavano la realtà senza per ciò stesso violentarla: si accennava inoltre a compositori classici come Corelli, Vivaldi, Schubert, Wagner, Brahms, Beethoven, si alludeva a Stockhausen), mi apparvero diversi soprattutto per il modo in cui egli li proponeva.

La prospettiva da cui osservava la realtà non era compresa nella realtà medesima.

Pur indagando in profondità l’animo umano, la psicologia dei popoli e i meandri rumorosi delle società apparentemente avanzate, il suo occhio permaneva in quiete e in silenzio, fuori dal tempo e dalla realtà, in una dimensione spirituale nella quale e rispetto alla quale anche le gioie umane più intense non sembrano altro, come egli stesso ci dice, che l’ombra della luce (1991).

Anzi, non sono che ombra che ostacolano la luce.

E ciò non, come qualcuno ha pensato, per snobismo o, peggio ancora, per qualunquismo musicale e persino politico, ma semplicemente perché il suo era un approccio altro non solo alla musica, ma anche alla vita.

Non ricordo infatti alcuna critica verso i suoi colleghi né di questi contro di lui. Anzi, al contrario.

Era molto stimato da tutti loro.

Con la sua musica egli invitava (e continua ancora ad invitare) ad andare oltre la gregarietà o l’animalità che rende infelici e che persiste in ognuno di noi (L’animale, 1985);

esortava ad assumere una prospettiva altra, un’alterità che, si intuiva, non era certo facile da raggiungere, perché presupponeva un precedente e necessario sforzo di purificazione.

Diceva infatti: Non servono tranquillanti o terapie, ci vuole un’altra vita. Non servono più eccitanti o ideologie, ci vuole un’altra vita (Un’altra vita, 2009).

Ci ricordava in altre parole che il nostro compito in questo mondo – per quanto la nostra vita sia dispersa nei moderni sottosuoli, nelle fitte e umidicce viuzze secondarie di sobborghi malfamati e maleodoranti, nelle ampie, aride e assolate strade di periferia ove sorgono condomini nei quali si può fare esperienza della vera solitudine e dell’abbandono disumano, oppure vissuta in appartate, verdeggiate e supercontrollate ville –

il nostro compito in un siffatto mondo moribondo (Clamori, 1982) è insomma, se non proprio conoscere o ritrovare sé stessi, perlomeno tendere, agire, fare, operare in modo da raggiungere sé stessi attraverso l’altro da sé, sia inteso questo come immanente o come trascendente, per essenzializzarsi (per capire meglio la propria essenza, si dice in E ti vengo a cercare, 1988) e quindi per migliorarsi, per poter, appunto, come fa lui, come fa Franco, osservare il mondo da una prospettiva altra, grazie a una sorta di innere Auge, di occhio interiore, che è il segno della sensibilità propria dei poeti veggenti.

Una volta raggiunto questo scopo, vivere venti o quarant’anni in più è uguale, perché più importante e quindi più difficile è capire ciò che è giusto (Fisiognomica, 1988);

difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire (Prospettiva Nevski, 1980) e quindi occorre, come consigliava un poeta che riusciva a penetrare la natura, a passare cioè con le mente dall’altra parte della natura, auf die andere Seite der Natur, occorre dunque mantenersi al difficile.

L’evoluzione sociale – infatti ammoniva Battiato in New Frontiers (1982) – non serve all’uomo se non è preceduta da un’evoluzione di pensiero.

In quell’anno del concerto al Teatro Tenda avevamo già alle spalle l’invasione sovietica dell’Afghanistan e l’insediamento di un papa polacco al soglio pontificio.

Dopo la crisi del Viet Nam, la Cina di Deng Xiao Ping iniziava a intrattenere rapporti diplomatici con gli Stati Uniti di Carter.

In Iran la rivoluzione khomeinista aveva avuto la meglio sul governo di Washington.

La morte di Tito e gli scioperi in Polonia erano prodromi di altre rivoluzioni, di profondi cambiamenti e di controrivoluzioni, di nuovi esodi, di movimenti sempre più ampi di popoli, di moltitudini dal nord, dal sud, da ponente, da levante (L’esodo, 1982) – in cerca di pane e di pace. Nell’89 Alexander Platz ricordava ancora la frontiera, il muro di Berlino.

Come paladini del neoliberismo, inoltre, la Thatcher e Reagan avevano impresso una violenta sterzata a destra al corso alla storia, e con la guerra in Libano si allontanava sempre di più la pace in Medioriente.

Alle nostre latitudini, nella nostra povera patria (già e ancora nel 1991!), seppur inconsapevolmente noi italiani ci portavamo sulle spalle e sul cuore un peso di numerosi assassinii, a partire da quello di Aldo Moro, di Piersanti Mattarella, di Pio Della Torre, del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Nel gorgo della strategia della tensione si apriva la piaga putrescente della Loggia P2 e si consumava la strage di Bologna; un tremendo terremoto si era nel frattempo abbattuto in Irpinia e un nuovo autunno caldo si era appena stemperato alla Fiat.

Si trattava di un pesante retaggio che la vittoria ai mondiali di calcio in Spagna servì solo ad alleggerire per poco tempo.

Negli anni Novanta, infatti, molti dei semi di questo greve pulviscolo storico trovarono terreno fertile e rifiorirono come lussureggianti fiori del male.

Di tutto questo incontrollabile e sfuggente farsi della storia, cioè di tutto questo falso progresso, parlavano a loro modo le canzoni di Battiato.

E noi giovani siciliani l’avvertivamo forse con maggiore trasporto di altri, sebbene per forza di cose anche noi fossimo prigionieri del Re del Mondo (1979), fossimo cioè anche noi pronipoti di sua maestà il denaro (La voce del padrone, 1981), reggitore di un mondo in cui più diventa tutto inutile e più credi che sia vero (1979).

Infatti, che cosa possono le leggi dove regna soltanto il denaro? (Innere Auge, 2009).

Non ci stancavamo mai di suonare e di cantare quei motivi – “alternativi” e “critici” pur nella loro allegra cantabilità –, in spiaggia e soprattutto nelle serate estive trascorse in Sicilia, sulla veranda dei miei genitori, e ciò per tutti gli anni Ottanta e Novanta.

Poi il terzo millennio se li portò via entrambi, prima l’uno, poi l’altra, e allora finimmo di cantare su quella terrazza. Non solo le canzoni di Battiato.

Ma il ricordo di quelle serate è ancora ben vivo dentro di noi, specie quando riascoltiamo qualche brano tratto dall’Lp La voce del padrone, uscito nel 1981, o da quello uscito nel dicembre 1982, L’arca di Noè.

Alla fine del concerto al Teatro Tenda, pieno d’entusiasmo mi avvicinai al palco con un libro in mano (era La dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer:

del primo autore forse Franco aveva letto gli illeggibili Minima moralia) e pregai l’artista di farmi un autografo sul retro della copertina.

Dopo la notizia della sua recente dipartita, non ho potuto fare a meno di riprendere in mano quel saggio (ormai logoro) e di ripensare a lui e al contempo anche a parte della mia vita.

Ivrea, 21 maggio 2021

download articolo, Un approccio altro alla musica e alla vita:

Franco Battiato morto

Il digitale come ci cambia
Il digitale, come ci cambia. A sinistra di Internet Giovanni Ferretti

Il digitale, come ci cambia?

Giovanni Ferretti

Due indagini condotte nel 20181 affermano che circa il 40% dei giovani tra i 18 e 29 anni dicono di essere on-line quasi costantemente, al pari del 36% delle persone di età compresa tra i 36 e i 49 anni.

Nella Generazione Z, cioè quella dei ragazzi nati tra il 1995 e il 2010, la percentuale risulta ancora incrementata: il 95% di loro usa uno smartphone, e il 45% sostiene di farlo quasi costantemente.

Benessere e felicità personali sono strettamente connessi alla possibilità di avere un’attività comunicativa on-line.

Shoshana Zuboff, nel proprio libro Il capitalismo della sorveglianza, afferma che gli I-like di Facebook sono diventati la cocaina della nuova generazione, sono come scariche di dopamina. 

Già nel 1993, Derrick de Kerckhove, nel libro Brainframes, parla di psicotecnologie: il telefono, la radio, la televisione, i computer, i satelliti modificano le relazioni all’interno del tessuto sociale; questo significa che essi ristrutturano e modificano le caratteristiche psicologiche dei singoli.

Venendo ad epoca più recente, i social media, Facebook innanzitutto,

alterano la presentazione del sé, aggravano l’incapacità dei ragazzi di sviluppare un io pienamente indipendente, fanno perdere la capacità di stare da soli, la capacità di vedere gli altri come soggetti separati e indipendenti.

A seguito di ciò, statisticamente parlando, aumenta la necessità di costruire la propria identità e la propria personalità esclusivamente in funzione del gradimento degli altri, talvolta sostituendo la realtà percepita del sé con i simulacri degli avatar.

Esistono studi svolti in ambito scolare che evidenziano come gli alunni non siano più capaci di guardare negli occhi, che siano indifferenti al linguaggio dei corpi, che non capiscano quando feriscono qualcuno e che siano incapaci di costruire amicizie basate sulla fiducia. 

Un’altra indagine2, questa volta operata su studentesse universitarie, ha evidenziato che nell’ultimo periodo, caratterizzato da una crescita esponenziale del tempo che viene trascorso dai giovani sui social media, è aumentata quella che viene definita la paura del botta e risposta, del non preparato, che è propria del dialogo, con una conseguente fuga dai contatti personali diretti.

Questo conduce a un vero e proprio analfabetismo emotivo.

I tempi della chat permettono di controllare le proprie emozioni, con l’aggravante che in rete si è quello che si vuole essere: aumenta il narcisismo, si perdono inibizioni e, come già accennato, si rileva una maggiore incapacità di interessarsi ai problemi degli altri;

un mondo distonico, privo di empatia, come reazione alla paura di essere inadeguati, soprattutto fisicamente (lo shame of body, la vergogna del corpo) e, soprattutto, il FOMO (dall’acronimo Fear of missing out), paura del non esserci, del perdere qualcosa, che poi è la molla che rende così appetibili i social network.

Nel 2007, Barry Wellman, parlando di Villaggio Globale3,

definisce la comunità come la rete dei legami interpersonali che forniscono appoggio, informazioni, senso di appartenenza e, quindi, anche identità sociale.

Fino a poco tempo fa tutto questo era dato dalla prossimità di luogo: la casa, i lavoro, il paese.

Oggi al centro della comunità c’è la rete di contatti della singola persona, contatti sviluppati soprattutto per senso di appartenenza e di interesse. Anche in questo caso si evidenzia come il singolo si trinceri sempre più in comunità di simili e si precluda il confronto e l’ibridazione sociale e culturale.

Al centro della comunità non c’è più il paese, la piazza, il condominio, bensì il computer e quello che Howard Rheingold definisce il telecomando della vita: il telefonino.

1 Perrin e Jiang, “About a quarter of U.S. adults …”, Pew Research Center, 14 marzo 2018; Monica Anderson e Jingjing Jiang, “Teens, social media & technology 2018”, Pew Research Center, 31 maggio 2018.

2 Sherry Turkle: indagine su studentesse Baylor University – su Internazionale, marzo 2016.

AVANGUARDIA OPERAIA

 

Volevamo cambiare il mondo, Storia di Avanguardia Operaia 1968-1977

In “La Sinistra in Zona / CostituzioneBeniComuni”, Finalmente un libro su Avanguardia Operaia, 4 aprile 2021.

Volevamo cambiare il mondo. Storia di Avanguardia Operaia 1968-1977, (a cura di) Roberto Borcio e Matteo Pucciarelli, ed. Mimesis, 302 p., 2020.

Download “Avanguardia Operaia (Scheda di Sergio Dalmasso)” Volevamo-cambiare-il-mondo-Avanguardia-Operaia.pdf – Scaricato 19140 volte – 730,31 KB

E’ numerosa, anche se non numerosissima, la pubblicistica sulle formazioni della nuova sinistra (o estrema sinistra o sinistra extraparlamentare) italiana.

Numerosi i testi su Lotta Continua, indubbiamente la formazione che ha maggiormente espresso, in positivo ed in negativo lo spirito del periodo storico, non pochi, soprattutto presso Derive e approdi, quelli sull’operaismo che molt* considerano la matrice più originale del neo-marxismo italiano.

Sull’arcipelago marxista-leninisita, gli studi e le testimonianze sono piuttosto datati, propri della fortuna del maoismo in Italia e nel mondo occidentale, legata alle diverse interpretazioni della rivoluzione culturale e del conflitto URSS-Cina.

Avanguardia Operaia recensione di Sergio Dalmasso
Anche su PdUP e manifesto, le formazioni che mantenevano un maggiore legame con matrici della sinistra storica e maggioritaria (ricordate i dibattiti sulla storia del PCI,

su Togliatti e il togliattismo, la singolarità e radicalità della sinistra socialista, le polemiche sull’esistenza o meno di un filo rosso?)

i testi più noti risalgono a decenni or sono, ma l’interesse per la figura di Lucio Magri (da Il sarto di Ulm, ad Alla ricerca di un altro comunismo,

sino alla recente biografia, ad opera di Simone Oggionni), oltre al cinquantesimo del quotidiano hanno riportato alla luce alcuni temi e passaggi.

Su Avanguardia operaia, una delle maggiori formazioni dell’area e certo tra le più significative ed interessanti, mancava uno studio di insieme.

Esistevano solamente qualche breve passaggio nel testo di Giuseppe Vettori La sinistra extraparlamentare in Italia (1973) e qualche memoria, oltre all’interessante studio sui CUB torinesi, frutto di testimonianze personali e di racconti di tante vite che confluivano contemporaneamente nella Torino, allora operaia.

Volevamo cambiare il mondo copre, anche se parzialmente, questo vuoto.

Il merito è di Giovanna Moruzzi, moglie di uno dei fondatori di A.O, Michele Randazzo, da anni scomparso, e di Fabrizio Billi che cura l’Archivio Marco Pezzi di Bologna ed ha all’attivo numerosi studi,

oltre che di Roberto Biorcio, insegnante a Milano-Bicocca e di Matteo Pucciarelli, giornalista di “Repubblica” che hanno curato il testo.

Il metodo scelto ricalca quello della storia orale e della conricerca ed è il prodotto di 110 interviste (tutte consultabili nell’archivio Pezzi),

raccolte tra ex militanti e dirigenti del movimento, con una opportuna scelta “scientifica” che ha reso il campione particolarmente realistico (età, formazione, famiglia, occupazione…).

Nascita di Avanguardia operaia

Avanguardia operaia nasce a Milano nel 1967, fra un gruppo legato alla IV Internazionale (Gorla, Vinci) e avanguardie (si diceva così) di alcune fabbriche.

Autonomizzatosi dalla IV Internazionale, che, nel 1968, conosce in Italia una crisi frontale, A.O. inizia a costruire i primi CUB nei luoghi di lavoro, cresce nelle facoltà scientifiche (alla Statale l’egemonia è di Capanna),

dà vita ad una rivista, inizia i collegamenti con formazioni locali affini, nell’ipotesi di costruire una struttura nazionale che si richiami al marxismo rivoluzionario, in modo non dogmatico alla rivoluzione culturale, che rifiuti lo stalinismo

(da qui i dissensi con il movimento della statale e con il MLS) e lo spontaneismo di Lotta Continua.

La formazione ha una progressiva crescita, coprendo quasi tutto il territorio nazionale grazie alla confluenza di tante formazioni locali ed allargando il quadro dirigente

(Corvisieri, Rieser, Pugliese…) divenendo una delle tre maggiori formazioni dell’area (con L.C. E il PdUP-manifesto).

Nel 1974 nasce il “Quotidiano dei lavoratori” (vivrà circa cinque anni) che si somma agli altri due (in una breve fase anche più) quotidiani dell’estrema sinistra.

In questo periodo, si ha una oggettiva modificazione della linea politica.

Se nei primi anni si ha una concezione astensionistica, se I CUB sono letti come contrapposti ai sindacati e la crescita avviene in contrapposizione alle altre formazioni politiche dell’area, ora si opera una svolta per cui si parla di area della rivoluzione,

con altre formazioni anche non espressamente leniniste e si aderisce criticamente ai sindacati (CGIL, ma nella particolare situazione del momento, anche alla CISL).

Da questa scelta deriva la presentazione alle elezioni del 1975, in alcune regioni con il PdUP (sigla Democrazia Proletaria), in altre non in alleanza, con la sigla Democrazia operaia.

È l’anno della grande crescita del PCI, della conquista delle “giunte rosse”.

Le liste di nuova sinistra si collocano al 2% circa.

Significativo il dato di Milano, con l’elezione di tre consiglieri comunali, frutto della grande presenza sul territorio.

L’anno successivo, alle politiche, la sigla D.P. raccoglie tutta la nuova sinistra, ma il risultato è modesto (1,5%).

L’unità della formazione va in frantumi, davanti alla modificazione della realtà, alla caduta di speranze e di prospettive.

A.O. si divide: la “sinistra”, con parte del PdUP forma Democrazia Proletaria.

La minoranza confluisce nel PdUP (segretario Magri).

I meriti del testo

Le 300 pagine del libro sono dense e ricche, anche se diseguali. La scelta è stata quella di non ripercorrere la storia in ordine cronologico, ma di analizzare i singoli temi.

Dopo l’introduzione dei due curatori e l’analisi di Biorcio circa i rapporti fra l’organizzazione, la nuova sinistra e i movimenti,

Franco Calamida analizza la vicenda dei CUB, come nuova forma di democrazia (diretta) e di partecipazione dei lavoratori, Marco Paolini le lotte studentesche,

Grazia Longoni il movimento delle donne e il suo impatto nell’organizzazione (conflittuale, anche se meno esplosivo che in Lotta Continua), nella messa in discussione della centralità del conflitto capitale/lavoro.

Ha suscitato grande interesse l’analisi di Vincenzo Vita sulla politica culturale, di cui fu giovanissimo responsabile nazionale.

Sorprende, oggi, leggere i nomi dei/delle tant* artist*, personaggi dello spettacolo e della cultura che hanno lavorato nella commissione cultura e nelle iniziative sul tema (dalla famiglia Rossellini ad Ottavia Piccolo a Lino Del Fra…).

I due fratelli Madricardo trattano della politica sul territorio (case, affitti, bollette, carovita, costruzione dell’Unione Inquilini) e dell’intervento politico nelle forze armate che riprende la storica tradizione socialista e antimilitarista, tesa a combattere il condizionamento, la distruzione della personalità, l’autoritarismo.

Il tema più delicato è quello dell’antifascismo e del servizio d’ordine, affidato a Paolo Miggiano.

Il suo saggio ha prodotto dibattito e interpretazioni anche differenziate.

Ferita ancora aperta è la morte del fascista Sergio Ramelli (si veda, di molti anni successivo, il convegno, anche autocritico, di D.P.)

e il violentismo dei servizi d’ordine, indotto e dalle violenze poliziesche e dalla presenza fascista (da S. Babila ai tanti militanti di sinistra uccisi).

Da analizzare resta il rapporto fra gruppo dirigente e un relativo autonomizzarsi del servizio d’ordine (è stato sciolto dopo il caso Ramelli?)

Il libro non pretende di esaurire il tema di una storia esaustiva dell’organizzazione. Il limite di una carenza del quadro complessivo in cui si inseriscono i fatti raccontati è ovvio.

Così, alcuni saggi (i lavoratori studenti…) non hanno trovato spazio.

Forse altri sudi potranno coprire le parziali lacune. Ancora, non vi è una analisi delle riviste (per anni, per un vecchio principio “egualitario”, gli scritti compaiono senza firma) e del quotidiano.

Il taglio di storia orale ricostruisce il quadro di una organizzazione priva di leaderismi, di quel narcisismo tanto addebitato (ricordo l’analisi di Massimo Bontempelli).

Ha il merito di dare una immagine reale della stagione sessantottesca, spesso ridotto con una voluta operazione storiografico-politica a pura violenza (la formula degli anni di piombo è l’unica usata mediaticamente.

Parla, invece, di un fenomeno di massa, della presa di coscienza di masse giovanili, della riscossa della classe operaia,

piegata per decenni, della politicizzazione di ceti professionali tradizionalmente conservatori (gli anni di Magistratura democratica, di Psichiatria democratica, del movimento nelle caserme, nella polizia, tra i credenti…).

Parla della crescita del movimento delle donne che chiede l’uscita da una concezione economicistica della politica.

Ricorda che gli anni ’70 non sono solamente quelli dei terrorismi (la pubblicistica dimentica sempre quello di destra e il ruolo dello Stato e del quadro internazionale), ma vedono grandi riforme: ente regionale, divorzio, Statuto dei lavoratori, diritto di famiglia, “legge Basaglia”, sanità, aborto,.. e che anche i parziali spostamenti politici (crescita del PCI, giunte di sinistra) sono il prodotto della grande spinta sociale e culturale che in Italia è data dal “68 lungo”.

Ancora ne emerge il quadro di un gruppo molto attento all’organizzazione, alla formazione, allo studio, alla teoria, al confronto anche netto, con altre formazioni, sui “fondamentali”, di un impegno spesso totalizzante.

Non credo sia un caso se, tra le tante (troppe) formazioni della nuova sinistra è quella che meno è stata percorsa da pentitismi, carrierismi dei/delle tant* finit* dalla certezza nella rivoluzione a scelte opportunistiche (evito un triste elenco anche parziale).

Il libro offre anche uno spaccato “sociologico”.

L’età dei/delle militanti intervistat* era “allora” molto bassa, dai 20 ai 25 anni, e dai 25 ai 30, a dimostrazione di una politicizzazione molto veloce.

Le famiglie di provenienza erano in maggioranza operaie o piccolo borghesi. Se forte era la presenza di genitori comunisti, fortissima è la matrice iniziale cattolica che vede una rapidissima e radicale trasformazione.

Un lavoro di cui non possiamo che essere grati a chi lo ha pensato, voluto, costruito con un lavoro certosino (110 interviste).

Sarebbe opportuno che i mille filoni in cui si è divisa una storia così significativa usassero questi strumenti per una discussione collettiva, per una riflessione sulle forme di democrazia di base, del tutto in antitesi con i leaderismi populistici di oggi.

La storia, in parte ancora da approfondire dell’Organizzazione comunista Avanguardia operaia merita conoscenza, studio e riflessione.

Sergio Dalmasso

Quella grande speranza chiamata RIFONDAZIONE

(parte seconda)

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Lo scioglimento del PCI, dopo 70 anni, vede nascere il PDS e Rifondazione comunista che, sovvertendo tutte le previsioni raggiunge una dimensione inattesa e si configura non solamente come piccolo movimento nostalgico.

La sua composizione è varia e articolata: al nucleo “cossuttiano”, costruito in un lavoro di opposizione e organizzativo di anni si aggiungono settori “ingraiani”, un dirigente sindacale (Sergio Garavini) che nel ’56 fu critico sull’invasione dell’Ungheria e non votò nel 1969 la radiazione del Manifesto, Lucio Libertini il cui antistalinismo data dall’immediato dopoguerra, Democrazia Proletaria che decide il proprio scioglimento nel giugno del 1991, l’ex PdUP, con Lucio Magri, Luciana Castellina e Famiano Crucianelli che aderisce dopo alcuni mesi.

Sono, però, soprattutto prevalenti due elementi: l’enorme adesione spontanea di base di un popolo che tenta di ricostruire una identità svanita negli anni e la necessità di rimettere in discussione certezze, ritenute intoccabili e crollate nel giro di breve tempo (l’URSS, l’infallibilità dei dirigenti, il partito come comunità…) che apre una breve fase di discussione “senza rete”.

I problemi non mancano: diverse sono le proposte organizzative, diverse le letture della realtà internazionale.

Quando, nell’agosto 1991, fallisce un tentativo di golpe a Mosca, ma emerge il ruolo dirigente di Boris Eltsin, la mediazione di Garavini è molto positiva, ma non mancano malumori. Al congresso costitutivo (Roma, dicembre) la diarchia Garavini/Cossutta rischia di esplodere.

Garavini sotto accusa

Sotto accusa è l’apertura di Garavini ad altre formazioni di sinistra e a settori rimasti nel PDS, scelta che metterebbe in discussione la identità comunista che è alla base del partito. Lo scontro si acuisce dopo le elezioni politiche del 1992, quando il PDS non va oltre il 16% e Tangentopoli mette in crisi l’ipotesi di un suo rapporto con i socialisti. Garavini vede nel malessere presente nel partito della Quercia e nell’uscita di Ingrao e Bertinotti, l’occasione per proporre una aggregazione più ampia (Ingrao e “il manifesto” parlano di polo della sinistra antagonista).

E’ l’occasione per l’ala cossuttiana, con forte intervento di Libertini, pochi giorni prima della scomparsa, di proporsi come difesa del partito. Garavini si dimette ed assumerà un ruolo sempre più marginale.

Dopo un breve interregno, la scelta per la segreteria cade su Fausto Bertinotti, nella convinzione che sua sia l’immagine esterna, ma che l’apparato, l’organizzazione, i quadri restino nelle mani della componente cossuttiana.

Il male del referendum Segni

Nell’aprile 1993, il “referendum Segni” contro il sistema proporzionale e a favore del maggioritario ha grande successo.

Sul sistema elettorale e sui partiti si fanno ricadere tutte le cause degli scandali, della crisi politico – istituzionale, anche le difficoltà sociali, nella certezza che altro sistema elettorale, con scelta diretta degli eletti, possa risolverli.

Per un paradosso, questo meccanismo spinge Rifondazione a recuperare elementi di unità, non solamente elettorale, con altre forze politiche, motivo delle accuse a Garavini.

Nasce, per le elezioni anticipate del 1994, la coalizione dei Progressisti, guidata da Achille Occhetto e travolta dalla “rivoluzione liberale” di Silvio Berlusconi che forma con Lega Nord e fascisti il primo organico governo di destra del dopoguerra. Il governo regge per pochi mesi e cade sulla riforma delle pensioni, ma anche sulla critica di settori borghesi (si veda il “Corriere della sera”).

La scelta va sul ministro di Berlusconi Lamberto Dini.

I voti di Rifondazione possono essere determinanti per la sua tenuta, mentre la destra chiede che si torni al voto.

“Il manifesto” titola baciare il rospo

Inizia la logica del meno peggio.

Una parte dei gruppi parlamentari non segue le indicazioni del partito (voto contrario).

Quando Dini procede alla riforma delle pensioni, la divisione si riproduce. 25 dirigenti, fra cui Garavini, Magri, Castellina se ne vanno, accusando Bertinotti e Cossutta di massimalismo e settarismo, di rottura con la storia del comunismo italiano, di riallacciarsi al massimalismo socialista.

Il problema dell’autonomia o dell’adesione, anche critica, al centro sinistra, complici i meccanismi elettorali, dividerà Rifondazione in tutta la sua storia e sarà causa di contraddizioni, polemiche, scissioni continue.

Nascita di Liberazione

Nel 1995 nasce il quotidiano “Liberazione”, segno di autonomia rispetto al “manifesto” e a una generica “unità della sinistra”.

Nel 1996, complice la divisione fra la destra di Berlusconi e Fini e la Lega, il centro sinistra di Prodi (l’Ulivo) vince le elezioni.

Per Rifondazione, anche grazie all’immagine del segretario, è il miglior dato elettorale (8,6%).

Al governo con l’Ulivo

I due anni di governo dell’Ulivo vedono Rifondazione arretrare su molti punti programmatici (dalle finanziarie a Maastricht alla bicamerale), puntare sulla riduzione dell’orario settimanale a 35 ore.

Vedono anche accentuarsi le differenze tra i due maggiori dirigenti, la coppia più bella del mondo, già nel 1997, quando l’ipotesi di rottura con il governo rientra, quindi l’anno successivo, quando davanti alla scelta di non votare la Finanziaria, la minoranza legata a Cossutta, soprattutto per l’iniziativa dei suoi due delfini Oliviero Diliberto e Marco Rizzo, decide una nuova scissione e la formazione del Partito dei Comunisti italiani (PdCI), maggiormente ancorato, simbolicamente, culturalmente, organizzativamente alla tradizione togliattiana.

Allo slogan Svolta o rottura, agitato da Bertinotti, Cossutta ha sempre replicato:

Tirare la corda senza spezzarla e la nascita del PdCI mira a mantenere in vita un governo di centro sinistra, senza precipitare nel rischio di nuove elezioni.

Quella indotta da Bertinotti è una nuova mutazione genetica in una formazione comunista.

Anche il nuovo governo sarà segnato da un deficit di riforme sociali e trasformazioni, oltre che dall’adesione di Cossiga, dalla drammatica guerra contro la Jugoslavia.

Cambi di linea di Bertinotti

Bertinotti ritiene questa rottura (che verrà contraddetta più e più volte) come una nuova rifondazione e dà vita ad un processo di trasformazione del partito, anche se con frequenti ed improvvisi cambi di linea o di accenti.

Nonostante la guerra in Jugoslavia e la consegna del leader curdo Ocalan, nel 2000 Rifondazione, alle regionali, è in alleanza con il centro sinistra. Crollata al 4% alle europee del 1989, torna al 5% (2% al PdCI).

Non in alleanza alle politiche del 2001 (5%) vinte dalle destre che tornano al governo con Berlusconi.

E’ qui il nodo del ruolo di Rifondazione nel movimento altermondialista.

Le giornate di Genova 2001

Nelle giornate di Genova (luglio 2001) è fortemente egemone e coglie le novità che emergono dal “movimento dei movimenti”.

Oltre ai drammatici scontri e alla morte di Carlo Giuliani, le giornate si ricordano per il grande protagonismo di nuove soggettività politiche, per l’aver messo al primo posto la questione ecologica e quelle del rapporto fra nord e sud del pianeta e di genere.

Vi sarebbero le possibilità per costruire, anche all’interno del bipolarismo maggioritario coatto, una alternativa di sinistra che abbia in Rifondazione il centro e leghi esperienze e storie anche diverse.

Articolo 18

Il referendum per estendere l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori alle piccole imprese può costituire elemento di aggregazione. Il risultato è negativo.

Il 15 e 16 giugno 1993 vota solamente il 25,7% degli aventi diritto. Si potrebbe fare appello ai 10 milioni di elettori, ipotizzare una articolazione di questi voti per la costruzione di una alternativa politica e sociale.

La scelta di Bertinotti è opposta ed è l’inizio della china degli anni successivi: non vi è uno spazio autonomo, il ruolo del PRC è nel condizionamento del centro sinistra all’interno del quale deve portare la voce e il peso dei movimenti.

Inizia una nuova fase.

Sergio Dalmasso

Pubblicato su “Il Lavoratore” di Trieste, 31 marzo 2021

Presente in Archivio, Scritti storici, Articoli e saggi

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La rivista “La Sinistra”

Una stagione troppo breve

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Può sembrare strano – e forse nostalgico – un saggio su una rivista, vissuta per soli quindici mesi nei lontani anni ’60, di cui i più ignorano l’esistenza mentre altri l’hanno completamente dimenticata.

Libro La rivista La sinistra

Ma “La Sinistra” rientra a pieno titolo nella stagione delle riviste degli anni ’60, ricchi di dibattito culturale, politico, di tensioni a livello nazionale e internazionale e di forte rimessa in discussione di certezze e di dogmi.

In questo panorama, segnato ad inizio decennio, dai “Quaderni rossi”, dalla divisione con “Classe operaia”, e quindi dalla forte crescita dei “Quaderni piacentini”, la rivista che più interpreta il movimento del ’68, “La Sinistra”, ha un ruolo minore, ma specifico.

Novità Edizioni Punto Rosso.

In uscita il 21 marzo 2021

(per richiedere i libri scrivere a edizioni@puntorosso.it)

L’autore del libro Sergio Dalmasso è nato a Boves (Cuneo).

Vive a Genova.

È stato per quarant’anni insegnante di scuola media superiore.

Militante della sinistra, dal movimento studentesco a Manifesto, PdUP, DP, Rifondazione.

È stato consigliere comunale, provinciale, regionale.

Già redattore di riviste storiche, si occupa di storia del movimento operaio, della sinistra politica e sociale in Italia, della stagione dei movimenti, di figure dei partiti di sinistra.

Ha recentemente pubblicato per la Redstarpress due brevi biografie su Lelio Basso e Rosa Luxemburg e per le Edizioni Punto Rosso una monografia su Lucio Libertini.

Cura i quaderni “Storia, cultura, politica” del CIPEC.

Formato 11×16, Pagg. 120, 10 euro.

ISBN 9788883512582

Edizioni Punto Rosso

Viale Monza 255 – 20126 Milano

edizioni@puntorosso.it – www.puntorosso.it

Milano, 15 marzo 2021, Roberto Mapelli

Download articolo recensione di Roberto Mapelli

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I difficili anni 80 del PCI, Il Lavoratore di Trieste

Marzo 2021, Il Lavoratore di Trieste

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QUELLA GRANDE SPERANZA CHIAMATA RIFONDAZIONE

I difficili anni ’80 del PCI

Vi è chi dice che la fine del PCI dati dalla drammatica morte di Berlinguer (giugno 1984).

I suoi funerali, immensi e commossi, ci presentano un popolo, società nella società, che mai più incontreremo nei decenni successivi e vengono sempre paragonati a quelli di Togliatti (agosto 1964), simbolicamente fine di un’epoca.

Alessandro Natta

La segreteria di Alessandro Natta si presenta come di mediazione, di continuità, ma regge con difficoltà le trasformazioni sociali e culturali, l’offensiva frontale del PSI di Craxi, segni di dissenso nello stesso partito, in cui non mancano le accuse al moralismo e alla rigidità di Berlinguer, le aperture alla socialdemocrazia europea, i primi segni di volontà di superamento di nome e simbolo.

La sconfitta elettorale del 1987 riporta il PCI ai livelli degli anni ’60, prima della ondata di lotte e spinte sociali che avevano prodotto i grandi successi del biennio 1974-1976.

Occhetto segretario

Viene eletto vicesegretario Achille Occhetto che, nonostante il suo passato “di sinistra”, si caratterizza immediatamente per il “nuovismo”, per il prevalere degli elementi istituzionali su quelli sociali.

Queste caratteristiche emergono, ancora maggiormente, l’anno successivo quando Occhetto diventa segretario e imprime una forte accelerazione alle tendenze “americanizzanti” (simbolica l’attenzione mediatica alle foto in cui bacia la moglie), aprendo la segreteria a una nuova generazione.

Cornice liberal del PCI

La cornice “liberal” del nuovo partito porta a una scelta movimentista (pensiero di genere, ambiente, nonviolenza…) che supera la tradizionale attenzione alla centralità del lavoro e ai rapporti di produzione, ad una svolta storiografica che comprende un rovesciamento del giudizio sulla rivoluzione francese, una critica netta alla figura di Togliatti, ad una progressiva apertura alla socialdemocrazia.

In questo quadro, segnato da un netto tentativo di omologazione, dalla certezza che il superamento della “anomalia comunista”, potrà portare a un bipolarismo proprio degli altri Paesi europei, la caduta dei regimi dell’Europa orientale offre ad Occhetto l’occasione per bruciare le tappe.

La Bolognina

La “svolta” della Bolognina, significativamente annunciata a partigiani, attori di una storica battaglia (così come la perestrojka fu annunciata da Gorbaciov a combattenti della seconda guerra mondiale), sembra la logica conclusione di un processo avviato da tempo, ma incontra, invece, resistenze molto maggiori e al vertice e nella base (nasce l’interessante movimento degli autoconvocati).

Se qualche opposizione alla linea maggioritaria era venuta da posizioni “ingraiane” (al congresso del 1986 gli emendamenti di Ingrao e Castellina su pace e nucleare), l’unico tentativo di opposizione strutturata e nel tempo nasce dalla componente “filosovietica” o “cossuttiana” (le virgolette sono d’obbligo).

Il primo atto è del dicembre 1981, dopo il colpo di stato di Jaruzelski in Polonia e la dichiarazione di Berlinguer per il quale si è esaurita la spinta propulsiva proveniente dalla rivoluzione sovietica.

Cossutta replica: è errato porre URSS e USA sullo stesso piano e dichiarare esaurita la spinta dell’Ottobre sovietico.

Strappo di Berlinguer

Quello di Berlinguer è uno “strappo”; negli anni successivi userà l’espressione ”mutazione genetica”.

Su queste basi, nasce l’agenzia “Interstampa”, si formano nuclei consistenti in numerose federazioni, vengono presentati alcuni emendamenti al congresso nazionale del 1983, ancor maggiormente a quello del 1986, dove la componente critica lo strappo dall’URSS, la mancanza di una opzione antimperialistica, il rapporto con la socialdemocrazia.

Superamento del capitalismo

Ha un certo seguito l’emendamento che ribadisce che i comunisti operano per il superamento del capitalismo.

La strumentazione di questa area va da riviste, “Orizzonti” che vive un breve periodo, “Marxismo oggi”(dal 1987) alla Associazione culturale marxista che raccoglie grandi figure di intellettuali, emarginati dal “nuovismo” del partito.

Al congresso del 1989, per la prima volta, è presente un documento alternativo che raccoglie solamente il 4%, ma infrange l’unanimismo che ha sempre accompagnato le assisi comuniste e sindacali.

PDS e Rifondazione

Dopo la dichiarazione di Occhetto, l’opposizione nel vertice del partito è maggiore di quanto avrebbe immaginato, ma durissima è la reazione di parte della base che si sente improvvisamente privata di riferimenti, certezze.

Ancor più grave è avere appreso della decisione dalla TV e dai giornali, come testimoniano le lettere all’“Unità”:

Ho pianto tre volte, quando è morta mia madre, quando è morto Berlinguer, quando Occhetto ha detto che non dovevamo più chiamarci comunisti.”

Il PCI non si può liquidare

“Il PCI non si può liquidare: per noi comunisti convinti, il comunismo è una fede radicata nella storia e se ci togliete la falce e il martello, noi lavoratori a chi potremo mai fare riferimento?”

“Cambiare nome è come cambiare pelle, corpo, cuore.”

Occhetto chiede un congresso straordinario che si svolge a Bologna nel marzo 1990:

66% dei consensi alla mozione maggioritaria che apre il processo costituente di una nuova formazione politica (la “cosa”), 30,6% alla mozione Natta, Ingrao, Tortorella, 3,4% a quella cossuttiana.

Tutti i presupposti su cui scommette la “svolta” risultano erronei:

  • nella nuova formazione politica entreranno molte forze esterne, creando un partito di sinistra plurale;

  • in Italia, si formerà un bipolarismo tra una destra moderata e liberale e un centrosinistra progressista;

  • nel mondo, la fine del bipolarismo aprirà un periodo di pace che permetterà di affrontare i nodi sociali e ambientali (è noto il riferimento alla foresta dell’Amazzonia).

L’opposizione ricorda come nessuno di questi punti si stia realizzando ma, nonostante questo, il processo non si arresta. 150.000 iscritt* sfiduciati, non rinnovano la tessera e non partecipano ai congressi.

Cossutta parla di “scissione silenziosa”

Il congresso di scioglimento del partito, a 70 anni dalla fondazione, si svolge a Rimini dal 31 gennaio al 3 febbraio 1991.

Nuovo nome: Partito democratico della sinistra (PDS) e nuovo simbolo: una grande quercia alla base del quale vi è il tradizionale logo del PCI.

La minoranza decide di unificarsi e usa il significativo titolo di Rifondazione comunista, ma è penalizzata dai tanti abbandoni e dalla scelta per la maggioranza di Tortorella, Ingrao… che decidono di aderire al PDS (“Vivere nel gorgo”).

Qualche seguito alla mozione, intermedia, di Antonio Bassolino.

Nascita di Rifondazione

Al termine del congresso, prima che venga proclamato lo scioglimento del PCI e venuti meno gli appelli all’unità e alla federazione, novanta delegat* su 1260 lasciano il salone principale, si riuniscono in un’aula laterale, colma di bandiere del vecchio PCI, dove Garavini, Cossutta, Serri, Libertini, Salvato annunciano la nascita del Movimento per la Rifondazione comunista.

Gli stessi, con Guido Cappelloni e Bianca Bracci Torsi, confermano, davanti a notaio, con atto pubblico, la continuità del partito comunista.

Nessuno scommetterebbe sulle dimensioni che questa formazione assumerà.

Il gruppo dirigente PDS guarda quasi con favore il distacco dell’ingombrante ala nostalgica e filosovietica.

La rottura immediata serve a negare la filiazione diretta tra PCI e PDS, a far leva sull’elemento simbolico, sul patriottismo di partito contrapposto al discorso sull’unità, sulla fiducia nel gruppo dirigente, sulla volontà di mantenere unita una comunità, usato fortemente dal gruppo dirigente.

Rifondazione nata dal popolo comunista

Rifondazione nasce sulla spinta e la volontà di un popolo comunista non omologato, su esigenze anche diverse, dal ricostruire il partito di Togliatti e Berlinguer alla necessità di ricercare direttive e metodi diversi, capaci di declinare le spinte di classe con le grandi emergenze (ambientalista, pacifista, di genere, altermondialista…) e si trova, da subito, a doversi misurare con una situazione modificata in peggio da:

– crisi frontale del movimento comunista ed esaurimento della stessa socialdemocrazia;

– crisi del paradigma antifascista e della discriminante verso il MSI, a livello culturale, politico, storiografico, di senso comune;

– crollo del sistema della “prima repubblica”, con gli scandali di Tangentopoli;

– sostituzione del sistema elettorale maggioritario a quello proporzionale, giudicato responsabile di ogni difficoltà e di ogni male.

Le sfide di Rifondazione

Rifondazione deve navigare tra queste difficoltà e questi problemi inediti, a iniziare dal tentato colpo di stato in Russia, nell’agosto 1991, sul quale si registrano posizioni divergenti nel gruppo dirigente, mediate da Garavini, sino alla diversa interpretazione dei rapporti con le altre formazioni di sinistra (Verdi, Rete, sinistra PDS) e dell’identità di partito.

Alcuni contrasti emergeranno nel congresso costitutivo (Roma, dicembre 1991), ma torneranno nella gestione successiva che pure produrrà risultati positivi, dalle elezioni del 1992 (5,6% alla Camera, 6,5% al Senato), alle amministrative del 1992, al tesseramento (superato il numero di 120.00 adesioni, sino alla caduta di Garavini – luglio 1993).

Questa prima fase, pur nella sua eterogeneità, resta una delle 17 migliori di Rifondazione:

volontà di confrontarsi, di capire, fine delle certezze, desiderio di ricominciare, di non arrendersi,

certezza di poter offrire alla sinistra, non solamente italiana, una forza politica non minoritaria, legata alla propria storia, ma non dogmatica.

Possiamo dire: Ci abbiamo provato.

Nonostante tutto, proviamoci ancora. (fine della prima parte)

Articolo pubblicato nel marzo 2021 in Il Lavoratore di Trieste.

Sergio Dalmasso

Approfondimenti

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Download “Quaderno CIPEC Numero 31 (Libro sul primo decennio di Rifondazione di S. Dalmasso)” Quaderno-CIPEC-Numero-31.pdf – Scaricato 29697 volte – 1,03 MB

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Gratis di seguito il primo capitolo del libro:

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