FRANCO BATTIATO

Un approccio altro alla musica e alla vita

Ricordando Franco Battiato

Franco Di Giorgi

Un approccio altro alla musica e alla vita, Franco Battiato

ogni pensiero nella musica è nella più intima e nella più

inseparabile  parentela (Verwandschaft) con la totalità

dell’armonia, che è unità (da una lettera di Bettina Brentano a

Goethe, parlando della musica di Beethoven).

Un approccio altro alla musica e alla vita, Anch’io, come Marco Travaglio, non saprei da dove cominciare.

Ma inizio dal 1982. Cioè da quarant’anni fa.

Credo fosse l’estate del 1982 quando mi recai al Teatro Tenda di Torino per assistere al concerto di Franco Battiato.

Era già però da almeno tre anni che ascoltavo le sue canzoni incluse nell’Lp L’era del cinghiale bianco, del 1979.

Indimenticabili Strade dell’est (in cui compare tra l’altro un verso che mi ha sempre inquietato: da qui – cioè dove tutto ha avuto origine – la fine), e la sempre attuale Il re del mondo.

Solo più tardi avrò modo di apprezzare anche la musica sperimentale del “primo” Battiato, quello degli anni Settanta.

Già da circa dodici anni suonavo con passione e anche con un certo profitto la chitarra esercitandomi sugli spartiti di cantanti, cantautori e complessi più svariati, come pure su quelli di Mauro Giuliani e di Carlos Antonio Jobim, ma i componimenti di questo artista siciliano mi sembrarono subito strani, diversi da tutti gli altri.

Non solo ovviamente per la musica (a differenza che negli altri autori, qui le dolci melodie uscivano con semplicità e leggerezza dall’armonia e si piegavano ad ogni tipo di inflessione, di contaminazione musicale e culturale) e per i testi (i simbolismi e le metafore andavano al cuore stesso delle cose, toccavano la realtà senza per ciò stesso violentarla: si accennava inoltre a compositori classici come Corelli, Vivaldi, Schubert, Wagner, Brahms, Beethoven, si alludeva a Stockhausen), mi apparvero diversi soprattutto per il modo in cui egli li proponeva.

La prospettiva da cui osservava la realtà non era compresa nella realtà medesima.

Pur indagando in profondità l’animo umano, la psicologia dei popoli e i meandri rumorosi delle società apparentemente avanzate, il suo occhio permaneva in quiete e in silenzio, fuori dal tempo e dalla realtà, in una dimensione spirituale nella quale e rispetto alla quale anche le gioie umane più intense non sembrano altro, come egli stesso ci dice, che l’ombra della luce (1991).

Anzi, non sono che ombra che ostacolano la luce.

E ciò non, come qualcuno ha pensato, per snobismo o, peggio ancora, per qualunquismo musicale e persino politico, ma semplicemente perché il suo era un approccio altro non solo alla musica, ma anche alla vita.

Non ricordo infatti alcuna critica verso i suoi colleghi né di questi contro di lui. Anzi, al contrario.

Era molto stimato da tutti loro.

Con la sua musica egli invitava (e continua ancora ad invitare) ad andare oltre la gregarietà o l’animalità che rende infelici e che persiste in ognuno di noi (L’animale, 1985);

esortava ad assumere una prospettiva altra, un’alterità che, si intuiva, non era certo facile da raggiungere, perché presupponeva un precedente e necessario sforzo di purificazione.

Diceva infatti: Non servono tranquillanti o terapie, ci vuole un’altra vita. Non servono più eccitanti o ideologie, ci vuole un’altra vita (Un’altra vita, 2009).

Ci ricordava in altre parole che il nostro compito in questo mondo – per quanto la nostra vita sia dispersa nei moderni sottosuoli, nelle fitte e umidicce viuzze secondarie di sobborghi malfamati e maleodoranti, nelle ampie, aride e assolate strade di periferia ove sorgono condomini nei quali si può fare esperienza della vera solitudine e dell’abbandono disumano, oppure vissuta in appartate, verdeggiate e supercontrollate ville –

il nostro compito in un siffatto mondo moribondo (Clamori, 1982) è insomma, se non proprio conoscere o ritrovare sé stessi, perlomeno tendere, agire, fare, operare in modo da raggiungere sé stessi attraverso l’altro da sé, sia inteso questo come immanente o come trascendente, per essenzializzarsi (per capire meglio la propria essenza, si dice in E ti vengo a cercare, 1988) e quindi per migliorarsi, per poter, appunto, come fa lui, come fa Franco, osservare il mondo da una prospettiva altra, grazie a una sorta di innere Auge, di occhio interiore, che è il segno della sensibilità propria dei poeti veggenti.

Una volta raggiunto questo scopo, vivere venti o quarant’anni in più è uguale, perché più importante e quindi più difficile è capire ciò che è giusto (Fisiognomica, 1988);

difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire (Prospettiva Nevski, 1980) e quindi occorre, come consigliava un poeta che riusciva a penetrare la natura, a passare cioè con le mente dall’altra parte della natura, auf die andere Seite der Natur, occorre dunque mantenersi al difficile.

L’evoluzione sociale – infatti ammoniva Battiato in New Frontiers (1982) – non serve all’uomo se non è preceduta da un’evoluzione di pensiero.

In quell’anno del concerto al Teatro Tenda avevamo già alle spalle l’invasione sovietica dell’Afghanistan e l’insediamento di un papa polacco al soglio pontificio.

Dopo la crisi del Viet Nam, la Cina di Deng Xiao Ping iniziava a intrattenere rapporti diplomatici con gli Stati Uniti di Carter.

In Iran la rivoluzione khomeinista aveva avuto la meglio sul governo di Washington.

La morte di Tito e gli scioperi in Polonia erano prodromi di altre rivoluzioni, di profondi cambiamenti e di controrivoluzioni, di nuovi esodi, di movimenti sempre più ampi di popoli, di moltitudini dal nord, dal sud, da ponente, da levante (L’esodo, 1982) – in cerca di pane e di pace. Nell’89 Alexander Platz ricordava ancora la frontiera, il muro di Berlino.

Come paladini del neoliberismo, inoltre, la Thatcher e Reagan avevano impresso una violenta sterzata a destra al corso alla storia, e con la guerra in Libano si allontanava sempre di più la pace in Medioriente.

Alle nostre latitudini, nella nostra povera patria (già e ancora nel 1991!), seppur inconsapevolmente noi italiani ci portavamo sulle spalle e sul cuore un peso di numerosi assassinii, a partire da quello di Aldo Moro, di Piersanti Mattarella, di Pio Della Torre, del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Nel gorgo della strategia della tensione si apriva la piaga putrescente della Loggia P2 e si consumava la strage di Bologna; un tremendo terremoto si era nel frattempo abbattuto in Irpinia e un nuovo autunno caldo si era appena stemperato alla Fiat.

Si trattava di un pesante retaggio che la vittoria ai mondiali di calcio in Spagna servì solo ad alleggerire per poco tempo.

Negli anni Novanta, infatti, molti dei semi di questo greve pulviscolo storico trovarono terreno fertile e rifiorirono come lussureggianti fiori del male.

Di tutto questo incontrollabile e sfuggente farsi della storia, cioè di tutto questo falso progresso, parlavano a loro modo le canzoni di Battiato.

E noi giovani siciliani l’avvertivamo forse con maggiore trasporto di altri, sebbene per forza di cose anche noi fossimo prigionieri del Re del Mondo (1979), fossimo cioè anche noi pronipoti di sua maestà il denaro (La voce del padrone, 1981), reggitore di un mondo in cui più diventa tutto inutile e più credi che sia vero (1979).

Infatti, che cosa possono le leggi dove regna soltanto il denaro? (Innere Auge, 2009).

Non ci stancavamo mai di suonare e di cantare quei motivi – “alternativi” e “critici” pur nella loro allegra cantabilità –, in spiaggia e soprattutto nelle serate estive trascorse in Sicilia, sulla veranda dei miei genitori, e ciò per tutti gli anni Ottanta e Novanta.

Poi il terzo millennio se li portò via entrambi, prima l’uno, poi l’altra, e allora finimmo di cantare su quella terrazza. Non solo le canzoni di Battiato.

Ma il ricordo di quelle serate è ancora ben vivo dentro di noi, specie quando riascoltiamo qualche brano tratto dall’Lp La voce del padrone, uscito nel 1981, o da quello uscito nel dicembre 1982, L’arca di Noè.

Alla fine del concerto al Teatro Tenda, pieno d’entusiasmo mi avvicinai al palco con un libro in mano (era La dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer:

del primo autore forse Franco aveva letto gli illeggibili Minima moralia) e pregai l’artista di farmi un autografo sul retro della copertina.

Dopo la notizia della sua recente dipartita, non ho potuto fare a meno di riprendere in mano quel saggio (ormai logoro) e di ripensare a lui e al contempo anche a parte della mia vita.

Ivrea, 21 maggio 2021

download articolo, Un approccio altro alla musica e alla vita:

Franco Battiato morto

La Comune di Parigi

I 150 anni della Comune di Parigi

L’Unigramsci sezione di Genova ha trasmesso in diretta YouTube (18 maggio 2021) il seminario sulla Comune di Parigi con intervento del prof. Sergio Dalmasso.

Seminario moderato da Giovanni (detto Gianni) Ferretti autore del libro: A sinistra di Internet pubbicato nel quaderno CIPEC numero 66.

Download “Quaderno CIPEC 66 (Libro a sinistra di Internet di Gianni Ferretti)” Quaderno-CIPEC-Numero-66.pdf – Scaricato 22019 volte – 3,84 MB

La Comune

“La Comune di Parigi è la forma di organizzazione autogestionaria, di stampo socialista libertario, che assunse la città di Parigi dal 18 marzo al 28 maggio 1871.

È considerata la prima grande esperienza di autogoverno della storia contemporanea.

A seguito delle sconfitte militari sofferte dalla Francia nella guerra franco-prussiana contro la Prussia, il 4 settembre 1870 la popolazione di Parigi impose la proclamazione della Repubblica,

contando di ottenere riforme sociali e la prosecuzione della guerra.

Quando il governo provvisorio deluse le sue aspettative e l’Assemblea nazionale, eletta l’8 febbraio 1871, impose la pace e minacciò il ritorno della monarchia, il 18 marzo 1871 Parigi insorse,

cacciando il governo Thiers, che aveva tentato di disarmare la città, e il 26 marzo elesse direttamente il governo cittadino, sopprimendo l’istituto parlamentare.

La Comune, che adottò a proprio simbolo la bandiera rossa, eliminò l’esercito permanente e armò i cittadini, stabilì l’istruzione laica e gratuita, rese elettivi e revocabili i magistrati e tutti i funzionari,

retribuì i funzionari pubblici e i membri del Consiglio della Comune con salari prossimi a quelli operai,

favorì le associazioni dei lavoratori e iniziò l’epurazione degli oppositori, quali i cittadini fedeli al Governo legittimo e i rappresentanti religiosi.

L’opera della Comune fu interrotta dalla reazione del governo e dell’Assemblea nazionale, stabiliti a Versailles.

Iniziati i combattimenti nei primi giorni di aprile, l’esercito comandato da Mac-Mahon pose fine all’esperienza della Comune,

entrando a Parigi il 21 maggio e massacrando in una settimana almeno 20.000 parigini compromessi con la rivolta durante la cosiddetta semaine sanglante, settimana sanguinosa.

Seguirono decine di migliaia di condanne e di deportazioni, mentre migliaia di parigini fuggirono all’estero. “

La Comune di Parigi, Procamazione della Repubblica Parigi
Fonte Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Comune_di_Parigi_(1871)

LA SINISTRA

Quando c’era La Sinistra di Diego Giachetti

Spesso gli storici sono portati a scegliere determinati argomenti di studio, rispetto ad altri, perché mossi consapevolmente o meno da ragioni attinenti alla propria esperienza di vita, tanto è vero che si è coniata la dizione di “storia come autobiografia”.

Raccontando di fatti specifici, collocati nelle loro circostanze storiche, nello spirito del tempo, lo storico, sovente restio a produrre memoria, ci parla alla lontana di se stesso, di eventi vissuti e formativi.

Lo confessa, con discrezione, Sergio Dalmasso (La Sinistra, una stagione troppo breve,

Edizioni Punto Rosso, Milano 2021) quando ricorda che ai tempi in cui era studente liceale aspettava l’uscita del mensile La Sinistra con interesse, ancora consapevole oggi che quella lettura gli è stata molto utile, come probabilmente lo fu a quel tempo per un’area di militanti politici in quel particolare momento storico di fine anni Sessanta, caratterizzato da importanti avvenimenti nel mondo e in Italia.

A spingere La Sinistra c’era una giovane casa editrice, la Samonà e Savelli (poi solo Savelli); essa favorì la discussione politica e teorica dando spazio, accanto alla ristampa di classici di Marx, Engels, Lenin, Trotsky, ad autori non solo di area trotskista ma di diverse sensibilità politiche e culturali del movimento operaio e della sinistra rivoluzionaria, pubblicando a caldo anche testi di Fidel Castro e Che Guevara.

La Sinistra fu un azzeccato “prodotto commerciale”.

Subito mille abbonati, destinati in breve tempo a diventare 2600, secondo quanto si leggeva nel resoconto comparso sull’ultimo numero del mensile del novembre-dicembre 1967.

Le vendite oscillavano tra le 7-8 mila copie, specie in occasione di numeri dedicati al Vietnam e all’America Latina.

Si trattava di dati che reggevano bene il confronto con altre riviste di partito come il settimanale comunista Rinascita, Mondo Operaio del Partito socialista e Mondo Nuovo del Partito socialista di unità proletaria (Psiup).

Prima rivista mensile (di questa si occupa l’autore), dall’ottobre 1966 al dicembre 1967,

poi settimanale, cessa le pubblicazioni nella primavera del 1968.

I temi dominanti della prima serie sono la guerra nel Vietnam, la situazione nei paesi dell’America Latina, la giovane rivoluzione cubana, la lotta di classe negli Stati Uniti e il black power, il contrasto Cina-Unione Sovietica, la rivoluzione culturale, il Medio Oriente.

Rispetto alla politica interna primeggiano le analisi critiche sulla partecipazione socialista al governo e la relativa programmazione economica, sul ruolo e la strategia dei sindacati nella lotta operaia, sul nuovo Psiup.

Sul piano teorico-storico studi su Gramsci e il dissenso nel Pci negli anni Trenta, su Lenin e l’imperialismo.

Vi collaborano esponenti del dissenso ingraiano maturato nel PCI, del Psiup, della sinistra sindacale Cgil, della sezione italiana della IV Internazionale, inizialmente i più convinti promotori della rivista, sia Savelli che Samonà ne fanno parte, nonché alcuni intellettuali e studiosi di fama internazionale.

La dirige Lucio Colletti, che per molti anni aveva militato nel Pci, ed era noto come teorico marxista rigoroso, di cui Dalmasso traccia impietosamente la sua successiva parabola declinante, che lo porterà, come Giulio Savelli d’altronde, nelle file berlusconiane.

Mal accolta dai comunisti, l’uscita del primo numero provoca la radiazione dal partito dell’editore Giulio Savelli, la rivista si propone di rilanciare il discorso unitario di una sinistra operaia e di classe, nella prospettiva di favorire l’incontro tra tutte le forze deluse dalle vie riformiste al socialismo di matrice socialista e comunista.

Un generoso tentativo di inserire una “terza via” politica e culturale rispetto all’operaismo e al marxismo-leninismo importato dalla Cina maoista.

Si ricava quindi un suo spazio in quella che a posteriori verrà chiamata la stagione delle riviste,

iniziata nella metà degli anni Cinquanta e in piena fioritura negli anni Sessanta, ricchi di dibattito culturale, politico, di tensioni a livello nazionale e internazionale, di rimessa in discussione di certezze e dogmi ingessati dagli anni della Guerra fredda.

Un “disgelo” di domande, di creatività, di proposte e di propositi facilitati dalla speranza di vivere in un mondo che sarebbe presto cambiato, rinnovandosi e ponendo fine a vecchie diseguaglianze, oppressioni, guerre e violenze.

Si trattò di una stagione intensa ma breve, di un’esperienza di confronto politico e di elaborazione che non trovò seguito nel biennio delle lotte studentesche e operaie di lì a venire, quando collaboratori e lettori di quella rivista si dispersero nel mare del nascente movimento studentesco per poi riaggregarsi nel variegato e vivacissimo arcipelago dei “gruppi” della nuova sinistra rivoluzionaria.

Forse questa è una delle ragioni per cui, tra le riviste di quella stagione, essa è la meno ricordata.

Benvenuto quindi lo strappo dall’oblio di Sergio Dalmasso.

4 maggio 2021

DIEGO GIACHETTI

Fonte: dalla parte del torto

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25 aprile con Primo Levi

Franco Di Giorgi-Primo Levi

Per un altro 25 aprile “a distanza”, insieme a Primo Levi

A proposito di una mostra on-line a cura dell’Anpi.*

Mostra a Ivrea sulla festa della liberazione 25 aprile con Primo Levi

«L’arte e la scienza» si legge al primo comma dell’articolo 33 della nostra Costituzione «sono libere e libero ne è l’insegnamento».

Questo il principio, il fondamento.

Dalla nostra storia e soprattutto dalla nostra Resistenza, dalla quale esso è sorto, apprendiamo però che non c’è e non ci può essere in generale libertà alcuna senza l’esperienza liberatoria e liberante della lotta per la liberazione.

Liberazione anzitutto dal nazifascismo, i cui effetti, nonostante un secolo dalla fondazione e i 76 anni dalla fine della guerra, continuano ancora a farsi sentire su di noi, così come si sentivano sui giovani di allora.

«Ci proclamavamo nemici del fascismo» annotava Primo Levi ne Il sistema periodico (Oro) «ma in effetti il fascismo aveva operato su di noi, come su quasi tutti gli italiani, estraniandoci e facendoci diventare superficiali, passivi e cinici».

Ebbene, non potremmo forse dire la stessa cosa noi oggi, sotto i colpi del Coronavirus, di un nemico invisibile che ci costringe a una nuova forma di Resistenza passiva?

Passiva e deteriorante, simile nella sua inconfrontabilità all’esperienza vissuta dai deportati, e quindi – confessa Levi in una intervista concessa nel maggio del 1986 a Ferdinando Camon, a proposito della pubblicazione de I sommersi e i salvati – differente da quella attiva e vittoriosa vissuta dai partigiani (cfr. G. Poli e G. Calcagno, Echi di una voce perduta, Mursia, Milano 1992).

Il distanziamento non accresce forse la nostra estraneità, non approfondisce la nostra reciproca sospettosità, non alimenta l’intolleranza? «L’intolleranza – fa notare infatti Levi nel capitolo de I sommersi e i salvati dedicato al problema della comunicazione – tende a censurare, e la censura accresce l’ignoranza della ragione altrui e quindi l’intolleranza stessa: è un circolo vizioso rigido, difficile da spezzare».

E questa viziosa circolarità centrata sull’intolleranza non ricalca forse quella pendolarità della violenza preventiva che alimenta anziché smorzare la violenza stessa?

Un simile vizio circolare ci sembra poi che si possa cogliere anche in rapporto all’uso contemporaneo del linguaggio.

A causa del suo estremo semplificarsi richiesto dalle prestazioni tecnologiche sempre più avanzate, come pure a causa del moltiplicarsi delle emergenze nel presente, pur volendo progettare un futuro possibile e pur volendo recuperare un passato memorabile, alla fine non può fare altro che appiattirsi sul presente e sulle sue esigenze costantemente critiche.

E la precarietà, l’incertezza della vita e del domani, specialmente per quanto riguarda i giovani, non ci rende forse più superficiali, più passivi e soprattutto più cinici?

Forse proprio ai giovani di oggi, certo non per colpa loro, manca quello che, nella primavera del ’45, in un campo allestito dai russi liberatori, Levi aveva colto nella diciottenne ucraina Galina (la giovane impiegata de La tregua) «la dignità di chi lavora e sa perché, di chi combatte e sa di aver ragione, di chi ha la vita davanti» (Katowice). I giovani degli anni ’80, scriverà ancora Levi nella Conclusione de I sommersi e i salvati, tendevano a non interessarsi dell’esperienza concentrazionaria vissuta solo quarant’anni prima dai deportati nei Lager nazisti, perché «assillati dai problemi d’oggi».

Si tratta, precisa, di «una generazione scettica, priva non di ideali ma di certezze, anzi, diffidente delle grandi verità rivelate; disposta invece ad accettare le verità piccole, mutevoli di mese in mese sull’onda convulsa delle mode culturali, pilotate o selvagge».

Insomma: i segni di questa emergenza pandemica non sono forse quelli stessi che ha lasciato in noi il fascismo?

Anche noi che ci proclamiamo antifascisti dobbiamo quindi porre attenzione all’emergenza Covid-19 – ecco il senso dell’avvertimento che cogliamo nella testimonianza di Levi –, perché da questa pandemia, come si vede, si creano impercettibilmente le condizioni, l’humus venefico per l’insorgenza di quell’erba malsana, della quale tanta fatica è costato lo sradicamento.

Com’è noto, inoltre, una tra le più profonde e dolorose ferite che questo virus ha scavato nel tessuto sociale è sicuramente quella dell’ineguaglianza, piaga che si apre come un ampio solco in cui facilmente possono attecchire i semi di quell’erba velenosa.

Un disvalore che, per potersi radicare meglio, quell’erba è capace di trasformare in discriminazione sociale e perfino razziale.

Nel 1976, al teatro Carignano, in occasione della presentazione de Il sistema periodico, Levi a tal riguardo ammoniva:

«Il sentiero in discesa che comincia dalla negazione dell’uguaglianza tra gli uomini, finisce fatalmente nella perdita della libertà e nel Lager».

E l’esperienza dei deportati, come ricorderà, è «esperienza passiva e deteriorante», mentre quella dei partigiani è «esperienza della lotta vittoriosa».

Ma il Presidente Ciampi nel 2000 volle rimarcare il fatto che i primi segni della Resistenza, oltre che nella scelta partigiana dei civili l’8 settembre, compiuta dallo stesso giovane Levi, e nelle quattro giornate di Napoli, si vide anche nella maggioranza degli internati militari italiani che vennero rinchiusi negli Stammlager e negli Offlager tedeschi perché si erano rifiutati di aderire alla Repubblica di Salò e quindi al nazifascismo.

Ad ogni modo, una volta ripulito il terreno da quell’erba infestante, da quell’invadente gramigna, nonostante la stanchezza accumulata durante il ventennio e soprattutto nei lunghi cinque anni di guerra, tra cui l’odiosa coda della guerra civile, più facile sembrò ai nostri padri, ai padri fondatori, la ricostruzione: allontanandosi da quel passato torbido, essi, anche grazie al piano Marshall, poterono guardare a un futuro più radioso con fiducia, speranza e leggerezza.

Ma oggi, ad appena un anno dall’esplosione della pandemia, siamo già molto provati e soprattutto cupi, perché sembra che essa, con le sue ferite, con i suoi 120 mila morti, ci stia di nuovo riportando nostro malgrado verso un futuro che sa molto di quel passato buio.

Dinanzi a questo grave e attuale disagio nell’affrontare l’avvenire, le parole chiare e oneste di Levi ci vengono incontro: «Il domani» ci ammonisce ne L’altrui mestiere (1985) «dobbiamo costruircelo noi, alla cieca, a tentoni».

Ecco allora l’intervento quasi sempre provvidenziale dell’arte. Anche quando rievoca il passato, essa è sempre al contempo una messa in discussione del presente, una prefigurazione critica del futuro, allusione a dimensioni altre, a spazi di libertà impensati, a eventi inauditi.

Anche a questo proposito, il testimone e scrittore torinese è molto schietto.

In uno dei suoi racconti postumi (Auschwitz, città tranquilla) osserva: la pagina documentaria «non possiede mai il potere di restituire il fondo di un essere umano: a questo scopo, più dello storico e dello psicologo sono idonei il drammaturgo e il poeta».

E noi, per questo secondo 25 aprile a distanza e segnato dalla pandemia, potremmo aggiungere a buon diritto anche i dieci artisti che hanno accettato l’invito dell’Anpi di Ivrea a celebrare la festa della Liberazione con una esposizione on-line di alcune loro opere. (https://www.facebook.com/472943589751904/videos/3822709961141953/).

* Il testo, pubblicato sulla pagina facebook dell’Anpi di Ivrea e del Basso Canavese, costituisce la presentazione della mostra a cui rimanda il link. Qui viene riproposto con un diverso titolo e con qualche aggiunta.

25 aprile con Primo Levi, Primo Levi 1960

Primo Levi seduto alla scrivania mentre legge (1960)

Incontro Rosa Luxemburg

Incontro Luxemburg – Il circolo di Rifondazione Comunista levante savonese ha organizzato il 26 aprile 2021 un evento sulla figura di Rosa Luxemburg in diretta facebook.

L’evento online su Rosa Luxemburg è stato presentato da Martin Zanchetta segretario del circolo levante savonese intitolato alla grande rivoluzionaria polacca.

È stato moderato da Franco Zunino del Partito della Rifondazione comunista di Savona.

Ha avuto come relatori: Paolo Ferrero vicepresidente del Partito della Sinistra Europea e il prof. Sergio Dalmasso autore del libro: Una donna chiamata rivoluzione. Vita e opere di Rosa Luxemburg.

Incontru su Rosa Luxemburg, copertina libro di Sergio Dalmasso

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Canale YouTube Sergio Dalmasso

La varietà di argomenti presenti nei video del canale Sergio Dalmasso crea un ambiente educativo e informativo che copre una vasta gamma di temi, contribuendo così a una comprensione più profonda della storia e della società.

Sergio Dalmasso emerge come una guida autorevole, fornendo non solo informazioni storiche accuratamente documentate, ma anche interpretazioni illuminate che stimolano la riflessione critica.

Il canale rappresenta una piattaforma imprescindibile per chiunque desideri approfondire la propria comprensione della storia e della politica attraverso la prospettiva di un esperto appassionato.

Il digitale come ci cambia
Il digitale, come ci cambia. A sinistra di Internet Giovanni Ferretti

Il digitale, come ci cambia?

Giovanni Ferretti

Due indagini condotte nel 20181 affermano che circa il 40% dei giovani tra i 18 e 29 anni dicono di essere on-line quasi costantemente, al pari del 36% delle persone di età compresa tra i 36 e i 49 anni.

Nella Generazione Z, cioè quella dei ragazzi nati tra il 1995 e il 2010, la percentuale risulta ancora incrementata: il 95% di loro usa uno smartphone, e il 45% sostiene di farlo quasi costantemente.

Benessere e felicità personali sono strettamente connessi alla possibilità di avere un’attività comunicativa on-line.

Shoshana Zuboff, nel proprio libro Il capitalismo della sorveglianza, afferma che gli I-like di Facebook sono diventati la cocaina della nuova generazione, sono come scariche di dopamina. 

Già nel 1993, Derrick de Kerckhove, nel libro Brainframes, parla di psicotecnologie: il telefono, la radio, la televisione, i computer, i satelliti modificano le relazioni all’interno del tessuto sociale; questo significa che essi ristrutturano e modificano le caratteristiche psicologiche dei singoli.

Venendo ad epoca più recente, i social media, Facebook innanzitutto,

alterano la presentazione del sé, aggravano l’incapacità dei ragazzi di sviluppare un io pienamente indipendente, fanno perdere la capacità di stare da soli, la capacità di vedere gli altri come soggetti separati e indipendenti.

A seguito di ciò, statisticamente parlando, aumenta la necessità di costruire la propria identità e la propria personalità esclusivamente in funzione del gradimento degli altri, talvolta sostituendo la realtà percepita del sé con i simulacri degli avatar.

Esistono studi svolti in ambito scolare che evidenziano come gli alunni non siano più capaci di guardare negli occhi, che siano indifferenti al linguaggio dei corpi, che non capiscano quando feriscono qualcuno e che siano incapaci di costruire amicizie basate sulla fiducia. 

Un’altra indagine2, questa volta operata su studentesse universitarie, ha evidenziato che nell’ultimo periodo, caratterizzato da una crescita esponenziale del tempo che viene trascorso dai giovani sui social media, è aumentata quella che viene definita la paura del botta e risposta, del non preparato, che è propria del dialogo, con una conseguente fuga dai contatti personali diretti.

Questo conduce a un vero e proprio analfabetismo emotivo.

I tempi della chat permettono di controllare le proprie emozioni, con l’aggravante che in rete si è quello che si vuole essere: aumenta il narcisismo, si perdono inibizioni e, come già accennato, si rileva una maggiore incapacità di interessarsi ai problemi degli altri;

un mondo distonico, privo di empatia, come reazione alla paura di essere inadeguati, soprattutto fisicamente (lo shame of body, la vergogna del corpo) e, soprattutto, il FOMO (dall’acronimo Fear of missing out), paura del non esserci, del perdere qualcosa, che poi è la molla che rende così appetibili i social network.

Nel 2007, Barry Wellman, parlando di Villaggio Globale3,

definisce la comunità come la rete dei legami interpersonali che forniscono appoggio, informazioni, senso di appartenenza e, quindi, anche identità sociale.

Fino a poco tempo fa tutto questo era dato dalla prossimità di luogo: la casa, i lavoro, il paese.

Oggi al centro della comunità c’è la rete di contatti della singola persona, contatti sviluppati soprattutto per senso di appartenenza e di interesse. Anche in questo caso si evidenzia come il singolo si trinceri sempre più in comunità di simili e si precluda il confronto e l’ibridazione sociale e culturale.

Al centro della comunità non c’è più il paese, la piazza, il condominio, bensì il computer e quello che Howard Rheingold definisce il telecomando della vita: il telefonino.

1 Perrin e Jiang, “About a quarter of U.S. adults …”, Pew Research Center, 14 marzo 2018; Monica Anderson e Jingjing Jiang, “Teens, social media & technology 2018”, Pew Research Center, 31 maggio 2018.

2 Sherry Turkle: indagine su studentesse Baylor University – su Internazionale, marzo 2016.

TG2 Sangiuliano

Domenica 11 aprile 2021, TG2 delle ore 13:00.

La conduttrice del TG2 Sangiuliano (quella che, poco laicamente, ha sempre una enorme croce) annuncia un libro di Mario Segni che riporta la verità sui fatti dell’estate 1964, intervista di Luciano Ghelfi.

Conduttrice TG2 con collana e croce

Mario SEGNI, democristiano di destra, conservatore, principale attore dell’infausto referendum del 1993 che cancellò il sistema proporzionale (vediamo i risultati), poi lanciatosi in avventure politiche finite male (almeno quello!) svela, dopo lunghi e documentati studi, la verità: – nel 1964 non vi fu alcun tentativo di colpo di stato, – il PIANO SOLO è una invenzione, – suo padre, allora Presidente della repubblica, è stato oggetto di calunnie.

Mario Segni

Vi erano semplicemente diverse valutazioni sul governo, sul centro- sinistra, come conferma lo stesso Nenni.

Non dice che colpevoli delle calunnie erano i soliti comunisti, ma poco ci manca.
Che simili panzane vengano veicolate è grave.

Che l’informazione su questo e altro, non preveda neppure un contraddittorio, un dubbio è segno dei tempi.
La storia è ormai raccontata in questo modo (pensate alle vicende jugoslave, agli anni ’70, solo di piombo, al 68 padre di ogni male.

Che cosa possono fare le piccole minoranze che tentano ancora di ragionare?

Sergio Dalmasso

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Commentatori del post si dicono allibiti da quella intervista!

AVANGUARDIA OPERAIA

 

Volevamo cambiare il mondo, Storia di Avanguardia Operaia 1968-1977

In “La Sinistra in Zona / CostituzioneBeniComuni”, Finalmente un libro su Avanguardia Operaia, 4 aprile 2021.

Volevamo cambiare il mondo. Storia di Avanguardia Operaia 1968-1977, (a cura di) Roberto Borcio e Matteo Pucciarelli, ed. Mimesis, 302 p., 2020.

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E’ numerosa, anche se non numerosissima, la pubblicistica sulle formazioni della nuova sinistra (o estrema sinistra o sinistra extraparlamentare) italiana.

Numerosi i testi su Lotta Continua, indubbiamente la formazione che ha maggiormente espresso, in positivo ed in negativo lo spirito del periodo storico, non pochi, soprattutto presso Derive e approdi, quelli sull’operaismo che molt* considerano la matrice più originale del neo-marxismo italiano.

Sull’arcipelago marxista-leninisita, gli studi e le testimonianze sono piuttosto datati, propri della fortuna del maoismo in Italia e nel mondo occidentale, legata alle diverse interpretazioni della rivoluzione culturale e del conflitto URSS-Cina.

Avanguardia Operaia recensione di Sergio Dalmasso
Anche su PdUP e manifesto, le formazioni che mantenevano un maggiore legame con matrici della sinistra storica e maggioritaria (ricordate i dibattiti sulla storia del PCI,

su Togliatti e il togliattismo, la singolarità e radicalità della sinistra socialista, le polemiche sull’esistenza o meno di un filo rosso?)

i testi più noti risalgono a decenni or sono, ma l’interesse per la figura di Lucio Magri (da Il sarto di Ulm, ad Alla ricerca di un altro comunismo,

sino alla recente biografia, ad opera di Simone Oggionni), oltre al cinquantesimo del quotidiano hanno riportato alla luce alcuni temi e passaggi.

Su Avanguardia operaia, una delle maggiori formazioni dell’area e certo tra le più significative ed interessanti, mancava uno studio di insieme.

Esistevano solamente qualche breve passaggio nel testo di Giuseppe Vettori La sinistra extraparlamentare in Italia (1973) e qualche memoria, oltre all’interessante studio sui CUB torinesi, frutto di testimonianze personali e di racconti di tante vite che confluivano contemporaneamente nella Torino, allora operaia.

Volevamo cambiare il mondo copre, anche se parzialmente, questo vuoto.

Il merito è di Giovanna Moruzzi, moglie di uno dei fondatori di A.O, Michele Randazzo, da anni scomparso, e di Fabrizio Billi che cura l’Archivio Marco Pezzi di Bologna ed ha all’attivo numerosi studi,

oltre che di Roberto Biorcio, insegnante a Milano-Bicocca e di Matteo Pucciarelli, giornalista di “Repubblica” che hanno curato il testo.

Il metodo scelto ricalca quello della storia orale e della conricerca ed è il prodotto di 110 interviste (tutte consultabili nell’archivio Pezzi),

raccolte tra ex militanti e dirigenti del movimento, con una opportuna scelta “scientifica” che ha reso il campione particolarmente realistico (età, formazione, famiglia, occupazione…).

Nascita di Avanguardia operaia

Avanguardia operaia nasce a Milano nel 1967, fra un gruppo legato alla IV Internazionale (Gorla, Vinci) e avanguardie (si diceva così) di alcune fabbriche.

Autonomizzatosi dalla IV Internazionale, che, nel 1968, conosce in Italia una crisi frontale, A.O. inizia a costruire i primi CUB nei luoghi di lavoro, cresce nelle facoltà scientifiche (alla Statale l’egemonia è di Capanna),

dà vita ad una rivista, inizia i collegamenti con formazioni locali affini, nell’ipotesi di costruire una struttura nazionale che si richiami al marxismo rivoluzionario, in modo non dogmatico alla rivoluzione culturale, che rifiuti lo stalinismo

(da qui i dissensi con il movimento della statale e con il MLS) e lo spontaneismo di Lotta Continua.

La formazione ha una progressiva crescita, coprendo quasi tutto il territorio nazionale grazie alla confluenza di tante formazioni locali ed allargando il quadro dirigente

(Corvisieri, Rieser, Pugliese…) divenendo una delle tre maggiori formazioni dell’area (con L.C. E il PdUP-manifesto).

Nel 1974 nasce il “Quotidiano dei lavoratori” (vivrà circa cinque anni) che si somma agli altri due (in una breve fase anche più) quotidiani dell’estrema sinistra.

In questo periodo, si ha una oggettiva modificazione della linea politica.

Se nei primi anni si ha una concezione astensionistica, se I CUB sono letti come contrapposti ai sindacati e la crescita avviene in contrapposizione alle altre formazioni politiche dell’area, ora si opera una svolta per cui si parla di area della rivoluzione,

con altre formazioni anche non espressamente leniniste e si aderisce criticamente ai sindacati (CGIL, ma nella particolare situazione del momento, anche alla CISL).

Da questa scelta deriva la presentazione alle elezioni del 1975, in alcune regioni con il PdUP (sigla Democrazia Proletaria), in altre non in alleanza, con la sigla Democrazia operaia.

È l’anno della grande crescita del PCI, della conquista delle “giunte rosse”.

Le liste di nuova sinistra si collocano al 2% circa.

Significativo il dato di Milano, con l’elezione di tre consiglieri comunali, frutto della grande presenza sul territorio.

L’anno successivo, alle politiche, la sigla D.P. raccoglie tutta la nuova sinistra, ma il risultato è modesto (1,5%).

L’unità della formazione va in frantumi, davanti alla modificazione della realtà, alla caduta di speranze e di prospettive.

A.O. si divide: la “sinistra”, con parte del PdUP forma Democrazia Proletaria.

La minoranza confluisce nel PdUP (segretario Magri).

I meriti del testo

Le 300 pagine del libro sono dense e ricche, anche se diseguali. La scelta è stata quella di non ripercorrere la storia in ordine cronologico, ma di analizzare i singoli temi.

Dopo l’introduzione dei due curatori e l’analisi di Biorcio circa i rapporti fra l’organizzazione, la nuova sinistra e i movimenti,

Franco Calamida analizza la vicenda dei CUB, come nuova forma di democrazia (diretta) e di partecipazione dei lavoratori, Marco Paolini le lotte studentesche,

Grazia Longoni il movimento delle donne e il suo impatto nell’organizzazione (conflittuale, anche se meno esplosivo che in Lotta Continua), nella messa in discussione della centralità del conflitto capitale/lavoro.

Ha suscitato grande interesse l’analisi di Vincenzo Vita sulla politica culturale, di cui fu giovanissimo responsabile nazionale.

Sorprende, oggi, leggere i nomi dei/delle tant* artist*, personaggi dello spettacolo e della cultura che hanno lavorato nella commissione cultura e nelle iniziative sul tema (dalla famiglia Rossellini ad Ottavia Piccolo a Lino Del Fra…).

I due fratelli Madricardo trattano della politica sul territorio (case, affitti, bollette, carovita, costruzione dell’Unione Inquilini) e dell’intervento politico nelle forze armate che riprende la storica tradizione socialista e antimilitarista, tesa a combattere il condizionamento, la distruzione della personalità, l’autoritarismo.

Il tema più delicato è quello dell’antifascismo e del servizio d’ordine, affidato a Paolo Miggiano.

Il suo saggio ha prodotto dibattito e interpretazioni anche differenziate.

Ferita ancora aperta è la morte del fascista Sergio Ramelli (si veda, di molti anni successivo, il convegno, anche autocritico, di D.P.)

e il violentismo dei servizi d’ordine, indotto e dalle violenze poliziesche e dalla presenza fascista (da S. Babila ai tanti militanti di sinistra uccisi).

Da analizzare resta il rapporto fra gruppo dirigente e un relativo autonomizzarsi del servizio d’ordine (è stato sciolto dopo il caso Ramelli?)

Il libro non pretende di esaurire il tema di una storia esaustiva dell’organizzazione. Il limite di una carenza del quadro complessivo in cui si inseriscono i fatti raccontati è ovvio.

Così, alcuni saggi (i lavoratori studenti…) non hanno trovato spazio.

Forse altri sudi potranno coprire le parziali lacune. Ancora, non vi è una analisi delle riviste (per anni, per un vecchio principio “egualitario”, gli scritti compaiono senza firma) e del quotidiano.

Il taglio di storia orale ricostruisce il quadro di una organizzazione priva di leaderismi, di quel narcisismo tanto addebitato (ricordo l’analisi di Massimo Bontempelli).

Ha il merito di dare una immagine reale della stagione sessantottesca, spesso ridotto con una voluta operazione storiografico-politica a pura violenza (la formula degli anni di piombo è l’unica usata mediaticamente.

Parla, invece, di un fenomeno di massa, della presa di coscienza di masse giovanili, della riscossa della classe operaia,

piegata per decenni, della politicizzazione di ceti professionali tradizionalmente conservatori (gli anni di Magistratura democratica, di Psichiatria democratica, del movimento nelle caserme, nella polizia, tra i credenti…).

Parla della crescita del movimento delle donne che chiede l’uscita da una concezione economicistica della politica.

Ricorda che gli anni ’70 non sono solamente quelli dei terrorismi (la pubblicistica dimentica sempre quello di destra e il ruolo dello Stato e del quadro internazionale), ma vedono grandi riforme: ente regionale, divorzio, Statuto dei lavoratori, diritto di famiglia, “legge Basaglia”, sanità, aborto,.. e che anche i parziali spostamenti politici (crescita del PCI, giunte di sinistra) sono il prodotto della grande spinta sociale e culturale che in Italia è data dal “68 lungo”.

Ancora ne emerge il quadro di un gruppo molto attento all’organizzazione, alla formazione, allo studio, alla teoria, al confronto anche netto, con altre formazioni, sui “fondamentali”, di un impegno spesso totalizzante.

Non credo sia un caso se, tra le tante (troppe) formazioni della nuova sinistra è quella che meno è stata percorsa da pentitismi, carrierismi dei/delle tant* finit* dalla certezza nella rivoluzione a scelte opportunistiche (evito un triste elenco anche parziale).

Il libro offre anche uno spaccato “sociologico”.

L’età dei/delle militanti intervistat* era “allora” molto bassa, dai 20 ai 25 anni, e dai 25 ai 30, a dimostrazione di una politicizzazione molto veloce.

Le famiglie di provenienza erano in maggioranza operaie o piccolo borghesi. Se forte era la presenza di genitori comunisti, fortissima è la matrice iniziale cattolica che vede una rapidissima e radicale trasformazione.

Un lavoro di cui non possiamo che essere grati a chi lo ha pensato, voluto, costruito con un lavoro certosino (110 interviste).

Sarebbe opportuno che i mille filoni in cui si è divisa una storia così significativa usassero questi strumenti per una discussione collettiva, per una riflessione sulle forme di democrazia di base, del tutto in antitesi con i leaderismi populistici di oggi.

La storia, in parte ancora da approfondire dell’Organizzazione comunista Avanguardia operaia merita conoscenza, studio e riflessione.

Sergio Dalmasso

RANIERO PANZIERI

 

L’iniziatore dell’altra sinistra

PAOLO FERRERO Panzieri, l’iniziatore dell’altra sinistra, Shake ed., 2021, 320 pp.

 

RANIERO PANZIERI

Paolo Ferrero ripubblica, aggiornato, un importante testo sulla grande figura di Raniero Panzieri, uscito nel 2006 per Punto Rosso, con il titolo Un uomo di frontiera, contenente testimonianze, una breve antologia, una nota biografica, la prefazione di Marco Revelli, l’introduzione dello stesso Ferrero.

La ripubblicazione di questo testo, ampliato ed aggiornato, costituisce uno dei pochi segni di interesse per il centenario della nascita di Panzieri che non ha prodotto dibattito, confronti, ricordi, anche valutazioni critiche che una pietra miliare nella storia della sinistra italiana avrebbe meritato.

Anche Panzieri è stato colpito dalla amnesia che ormai avvolge personaggi e fasi di quello che fu il movimento operaio più interessante e originale a livello europeo.

In qualche raro caso, la sua figura è stata ricordata per la fase più significativa, quella dei “Quaderni rossi”, dal 1961, letti semplicisticamente come prodromo dell’operaismo, dimenticando tutta l’attività politica precedente nasce nell’immediato dopoguerra, nel PSI, su posizioni morandiane (nella fase dei Consigli di gestione), prosegue a Messina presso la cattedra di Galvano Della Volpe e nel PSI siciliano impegnato nell’occupazione delle terre.

Persa la possibilità di carriera accademica, per il continuo impegno politico (segretario regionale siciliano), nel 1953 si trasferisce a Roma come funzionario di partito incaricato della stampa e propaganda, quindi nel 1955 della commissione cultura (cfr. Mariamargherita SCOTTI, Da sinistra. Intellettuali, PSI e organizzazione della cultura -1953/1960-, Roma, Ediesse, 2011) che tenta una politica culturale non subordinata a quella del PCI.

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Ancora la pubblicazione, dopo la morte prematura, delle opere di Rodolfo Morandi, il lavoro, dal 1956, per evitare l’identificazione stalinismo/comunismo e per l’uscita a sinistra dallo stalinismo, la co-direzione della rivista “Mondo operaio” che, nel biennio 1957-1958, conosce il suo periodo più innovativo.

Sette tesi sul controllo operaio

Le Sette tesi sulla questione del controllo operaio, (in “Mondo operaio, febbraio 1958) scritte in una preziosa collaborazione con Lucio Libertini, costituiscono il tentativo più ricco e più organico di una ipotesi alternativa a quelle maggioritarie nella sinistra, legate anche alle Tredici tesi sul partito di classe (in “Mondo operaio”, novembre 1958).

Dal 1961, Panzieri si sente estraneo al partito, incamminato verso la partecipazione ai governi di centro-sinistra.

Il lavoro di consulente presso l’Einaudi, a Torino, lo mette in contatto con la realtà viva di fabbrica nella fase di rilancio del protagonismo operaio, dopo l’estate del 1960, nel pieno della migrazione interna, del prezioso lavoro del sindacato torinese, dell’espansione industriale che produce il moltiplicarsi di problemi sociali (casa, servizi…).

Si lega a lui un gruppo di giovani torinesi (Rieser, Mottura, i Lanzardo, Soave…) che coglie la originalità della sua analisi e della pratica.

Nascono contatti con posizioni simili che stanno maturando a Roma (Tronti, Asor Rosa) e in Veneto (Negri).

L’analisi panzieriana che si esprime nei “Quaderni rossi” è innovativa

Va intanto alle fonti, alla lettura diretta e non travisata di Marx, a parti del Capitale mai analizzate.

Rompe totalmente con la interpretazione della seconda e della terza Internazionale centrate sull’ipotesi del partito guida.

Il rilancio della via consiliare con riferimenti alla stagione dell’”Ordine nuovo”, all’autogestione jugoslava, ai consigli polacchi e ungheresi del 1956, indirettamente a tutta la tradizione consiliare che percorre l’intero secolo, permette di ipotizzare una classe operaia che costruisca i propri istituti, una democrazia che si basi su un rapporto fra istituti elettivi e di base.

Dopo il 1956

E’ chiaro, dopo il 1956, un passaggio dalla morandiana politica unitaria di classe al controllo operaio e quindi ad un particolare “leninismo” centrato su un “dualismo di potere”, ma sono evidenti elementi di continuità di un percorso teorico- politico che sarebbe errore limitare agli ultimi tre anni di vita.

E’ fondamentale, al di là dell’interpretazione che poi alcune formazioni politiche ne daranno, l’analisi della tecnologia, della non neutralità della scienza (L’uso delle macchine nel neocapitalismo) che tanto peso avrà negli anni successivi.

Lo sviluppo tecnologico non è neutro.

La macchina e la scienza sono funzioni del capitale: La macchina non libera dal lavoro l’operaio, ma toglie il contenuto del suo lavoro.

Lo strumento di conoscenza non ideologica della realtà è l’inchiesta, soprattutto se diviene co-inchiesta (cfr. Uso socialista dell’inchiesta operaia, sul numero 5 dei Q:R), costruita insieme al soggetto politico e sociale da analizzare che diventa attore esso stesso, superando la visione mistica del soggetto rivoluzionario che spesso nasce dall’esterno.

Le difficoltà, però, si moltiplicano.

Il rapporto con il sindacato torinese si interrompe, già dopo il primo numero, su cui hanno scritto Garavini, Foa, Alasia, Pugno.

Nell’estate 1961, una lettera di Garavini e Pugno accusa la rivista di semplicismo e schematismo, segnando la fine della breve collaborazione.

Ancor più tese divengono le relazioni dopo gli scontri di piazza Statuto ( luglio 1962).

Nel mese di settembre, il servizio d’ordine sindacale impedisce a Panzieri di entrare in un teatro in cui si svolge una manifestazione.

La redazione dei “Quaderni rossi” si divide su linee politiche

La componente che fa capo a Mario Tronti, Toni Negri, Alberto Asor Rosa ritiene che la maturazione politica della classe sia tale da permettere il salto organizzzativo rivoluzionario, accusa di “sociologismo” la pratica panzieriana e darà vita a “Classe operaia”.

Panzieri replica ritenendo queste posizioni frutto di misticismo rivoluzionario, una sorta di filosofia della storia centrata sulla classe operaia, accusa alcune valutazioni di rozza ideologia del sabotaggio.

Panzieri non vede rinnovato il contratto con l’Einaudi, insieme a Renato Solmi, per avere sostenuto la pubblicazione di una inchiesta di Goffredo Fofi sulla migrazione meridionale.

L’accusa è di voler usare la casa editrice per fini ideologici.

Ancora una volta, come dopo la rinuncia alla carriera accademica, l’attività di Panzieri sembra, per coerenza estrema, dover iniziare da capo.

Quando sembra avere allacciato un rapporto con la Nuova Italia di Firenze, arriva improvvisa la morte, per embolia cerebrale, il 9 ottobre 1964.

Libro di Paolo Ferrero

Il libro di Ferrero uscito opportunamente nel centenario della nascita, contiene uno scritto dell’autore che mette in luce gli elementi di attualità del pensiero e della pratica di Panzieri, creando un legame fra le tesi sul controllo operaio e la tematica dei “Quaderni rossi”.

Panzieri è antidoto rispetto alle visioni autoritarie, statolatriche, centralistiche, antidemocratiche del marxismo e del comunismo che è, invece, partecipazione e democrazia dal basso.

Molte le testimonianze, a cominciare dalla moglie Pucci Saija, traduttrice del Capitale, a tant* militanti scompars*, Dario Lanzardo, Giorgio Bouchard, Gianni Alasia, Pino Ferraris, Giovanni Jervis, Edoarda Masi, Vittorio Rieser… a chi lo ha accompagnato in una breve stagione, drammaticamente interrotta: Cesare Pianciola, Giovanni Mottura, Liliana Lanzardo, Sergio Bologna, Goffredo Fofi.

Importanza del testo

Ne emerge un quadro composito che non solamente ci fa ricordare una delle più grandi figure della nostra storia, ma ne fa risaltare i non pochi elementi di attualità, quanto mai da conoscere e discutere nel vuoto attuale.

Consigli, democrazia diretta, Cina, migrazione meridionale, composizione di classe, neocapitalismo, sviluppo economico dell’Italia, coscienza di classe, uso della tecnologia, rapporto tra spinta di massa/partiti di classe/sindacato.

Un testo per una riflessione collettiva.

Sergio Dalmasso

in “Lavoro e Salute” n. 3 Marzo 2021.

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Quella grande speranza chiamata RIFONDAZIONE

(parte seconda)

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Lo scioglimento del PCI, dopo 70 anni, vede nascere il PDS e Rifondazione comunista che, sovvertendo tutte le previsioni raggiunge una dimensione inattesa e si configura non solamente come piccolo movimento nostalgico.

La sua composizione è varia e articolata: al nucleo “cossuttiano”, costruito in un lavoro di opposizione e organizzativo di anni si aggiungono settori “ingraiani”, un dirigente sindacale (Sergio Garavini) che nel ’56 fu critico sull’invasione dell’Ungheria e non votò nel 1969 la radiazione del Manifesto, Lucio Libertini il cui antistalinismo data dall’immediato dopoguerra, Democrazia Proletaria che decide il proprio scioglimento nel giugno del 1991, l’ex PdUP, con Lucio Magri, Luciana Castellina e Famiano Crucianelli che aderisce dopo alcuni mesi.

Sono, però, soprattutto prevalenti due elementi: l’enorme adesione spontanea di base di un popolo che tenta di ricostruire una identità svanita negli anni e la necessità di rimettere in discussione certezze, ritenute intoccabili e crollate nel giro di breve tempo (l’URSS, l’infallibilità dei dirigenti, il partito come comunità…) che apre una breve fase di discussione “senza rete”.

I problemi non mancano: diverse sono le proposte organizzative, diverse le letture della realtà internazionale.

Quando, nell’agosto 1991, fallisce un tentativo di golpe a Mosca, ma emerge il ruolo dirigente di Boris Eltsin, la mediazione di Garavini è molto positiva, ma non mancano malumori. Al congresso costitutivo (Roma, dicembre) la diarchia Garavini/Cossutta rischia di esplodere.

Garavini sotto accusa

Sotto accusa è l’apertura di Garavini ad altre formazioni di sinistra e a settori rimasti nel PDS, scelta che metterebbe in discussione la identità comunista che è alla base del partito. Lo scontro si acuisce dopo le elezioni politiche del 1992, quando il PDS non va oltre il 16% e Tangentopoli mette in crisi l’ipotesi di un suo rapporto con i socialisti. Garavini vede nel malessere presente nel partito della Quercia e nell’uscita di Ingrao e Bertinotti, l’occasione per proporre una aggregazione più ampia (Ingrao e “il manifesto” parlano di polo della sinistra antagonista).

E’ l’occasione per l’ala cossuttiana, con forte intervento di Libertini, pochi giorni prima della scomparsa, di proporsi come difesa del partito. Garavini si dimette ed assumerà un ruolo sempre più marginale.

Dopo un breve interregno, la scelta per la segreteria cade su Fausto Bertinotti, nella convinzione che sua sia l’immagine esterna, ma che l’apparato, l’organizzazione, i quadri restino nelle mani della componente cossuttiana.

Il male del referendum Segni

Nell’aprile 1993, il “referendum Segni” contro il sistema proporzionale e a favore del maggioritario ha grande successo.

Sul sistema elettorale e sui partiti si fanno ricadere tutte le cause degli scandali, della crisi politico – istituzionale, anche le difficoltà sociali, nella certezza che altro sistema elettorale, con scelta diretta degli eletti, possa risolverli.

Per un paradosso, questo meccanismo spinge Rifondazione a recuperare elementi di unità, non solamente elettorale, con altre forze politiche, motivo delle accuse a Garavini.

Nasce, per le elezioni anticipate del 1994, la coalizione dei Progressisti, guidata da Achille Occhetto e travolta dalla “rivoluzione liberale” di Silvio Berlusconi che forma con Lega Nord e fascisti il primo organico governo di destra del dopoguerra. Il governo regge per pochi mesi e cade sulla riforma delle pensioni, ma anche sulla critica di settori borghesi (si veda il “Corriere della sera”).

La scelta va sul ministro di Berlusconi Lamberto Dini.

I voti di Rifondazione possono essere determinanti per la sua tenuta, mentre la destra chiede che si torni al voto.

“Il manifesto” titola baciare il rospo

Inizia la logica del meno peggio.

Una parte dei gruppi parlamentari non segue le indicazioni del partito (voto contrario).

Quando Dini procede alla riforma delle pensioni, la divisione si riproduce. 25 dirigenti, fra cui Garavini, Magri, Castellina se ne vanno, accusando Bertinotti e Cossutta di massimalismo e settarismo, di rottura con la storia del comunismo italiano, di riallacciarsi al massimalismo socialista.

Il problema dell’autonomia o dell’adesione, anche critica, al centro sinistra, complici i meccanismi elettorali, dividerà Rifondazione in tutta la sua storia e sarà causa di contraddizioni, polemiche, scissioni continue.

Nascita di Liberazione

Nel 1995 nasce il quotidiano “Liberazione”, segno di autonomia rispetto al “manifesto” e a una generica “unità della sinistra”.

Nel 1996, complice la divisione fra la destra di Berlusconi e Fini e la Lega, il centro sinistra di Prodi (l’Ulivo) vince le elezioni.

Per Rifondazione, anche grazie all’immagine del segretario, è il miglior dato elettorale (8,6%).

Al governo con l’Ulivo

I due anni di governo dell’Ulivo vedono Rifondazione arretrare su molti punti programmatici (dalle finanziarie a Maastricht alla bicamerale), puntare sulla riduzione dell’orario settimanale a 35 ore.

Vedono anche accentuarsi le differenze tra i due maggiori dirigenti, la coppia più bella del mondo, già nel 1997, quando l’ipotesi di rottura con il governo rientra, quindi l’anno successivo, quando davanti alla scelta di non votare la Finanziaria, la minoranza legata a Cossutta, soprattutto per l’iniziativa dei suoi due delfini Oliviero Diliberto e Marco Rizzo, decide una nuova scissione e la formazione del Partito dei Comunisti italiani (PdCI), maggiormente ancorato, simbolicamente, culturalmente, organizzativamente alla tradizione togliattiana.

Allo slogan Svolta o rottura, agitato da Bertinotti, Cossutta ha sempre replicato:

Tirare la corda senza spezzarla e la nascita del PdCI mira a mantenere in vita un governo di centro sinistra, senza precipitare nel rischio di nuove elezioni.

Quella indotta da Bertinotti è una nuova mutazione genetica in una formazione comunista.

Anche il nuovo governo sarà segnato da un deficit di riforme sociali e trasformazioni, oltre che dall’adesione di Cossiga, dalla drammatica guerra contro la Jugoslavia.

Cambi di linea di Bertinotti

Bertinotti ritiene questa rottura (che verrà contraddetta più e più volte) come una nuova rifondazione e dà vita ad un processo di trasformazione del partito, anche se con frequenti ed improvvisi cambi di linea o di accenti.

Nonostante la guerra in Jugoslavia e la consegna del leader curdo Ocalan, nel 2000 Rifondazione, alle regionali, è in alleanza con il centro sinistra. Crollata al 4% alle europee del 1989, torna al 5% (2% al PdCI).

Non in alleanza alle politiche del 2001 (5%) vinte dalle destre che tornano al governo con Berlusconi.

E’ qui il nodo del ruolo di Rifondazione nel movimento altermondialista.

Le giornate di Genova 2001

Nelle giornate di Genova (luglio 2001) è fortemente egemone e coglie le novità che emergono dal “movimento dei movimenti”.

Oltre ai drammatici scontri e alla morte di Carlo Giuliani, le giornate si ricordano per il grande protagonismo di nuove soggettività politiche, per l’aver messo al primo posto la questione ecologica e quelle del rapporto fra nord e sud del pianeta e di genere.

Vi sarebbero le possibilità per costruire, anche all’interno del bipolarismo maggioritario coatto, una alternativa di sinistra che abbia in Rifondazione il centro e leghi esperienze e storie anche diverse.

Articolo 18

Il referendum per estendere l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori alle piccole imprese può costituire elemento di aggregazione. Il risultato è negativo.

Il 15 e 16 giugno 1993 vota solamente il 25,7% degli aventi diritto. Si potrebbe fare appello ai 10 milioni di elettori, ipotizzare una articolazione di questi voti per la costruzione di una alternativa politica e sociale.

La scelta di Bertinotti è opposta ed è l’inizio della china degli anni successivi: non vi è uno spazio autonomo, il ruolo del PRC è nel condizionamento del centro sinistra all’interno del quale deve portare la voce e il peso dei movimenti.

Inizia una nuova fase.

Sergio Dalmasso

Pubblicato su “Il Lavoratore” di Trieste, 31 marzo 2021

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