L’ITALIA AL TEMPO DELLA PANDEMIA, TRA DEMOLITORI E COSTRUTTORI

Franco Di Giorgi

O Freunde, nicht diese Töne!

Prima di scivolare anch’esso nel nulla del tunnel dentro cui il Covid-19 ci ha risucchiati e rinchiusi, il vuoto di lunedì e martedì 18 e 19 gennaio è stato colmato dalla lunga diretta televisiva sul dibattito parlamentare in merito a quella che, a detta di molti, resta una crisi di governo “incomprensibile”.

Antonello da Messina. San Sebastiano

Antonello da Messina. San Sebastiano 1478-1479

Dopo circa un anno di enormi e straordinari sacrifici determinati dalla triplice crisi (sanitaria, economica e sociale), dopo il triplo salto mortale quasi del tutto senza rete, senza copertura, a cui ognuno di noi a causa della pandemia è stato sottoposto, anche in vista degli altri anni altrettanto difficili che nonostante il vaccino ci attendono, ebbene proprio in questo naturale momento di stanchezza e di sfinimento, dalla chiarificazione parlamentare della crisi politica (che da tempo covava come un’infezione trascurata) ci si sarebbe aspettati dei toni più pacati, più comprensivi e concilianti, soprattutto in rispetto delle oltre ottantamila vittime mietute dal Coronavirus. E invece i toni aspri e aggressivi usati dai rappresentanti dell’opposizione ci hanno oltremodo avvelenato quelle due giornate, le hanno reso ancora più grigie e amare, costringendoci più di una volta a voltarci dall’altra parte colmi di disgusto e di vergogna mandando con un gesto quei politicanti a quel paese, inducendoci non a tapparci il naso ma ad abbassare e poi a togliere il volume della televisione e qualche volta addirittura a spegnerla. Eppure sapevamo già del comportamento del tutto ingiustificato, inadeguato e ostacolante mantenuto dalle opposizioni durante l’attività svolta perlopiù in apnea dal governo nel cercare di evitare il peggio, nel chiedere e nel trovare aiuti e ricoveri all’Europa. E ci chiedevamo già allora se, in un momento simile, in cui tutto un popolo viene chiamato a compiere uno sforzo comune, era possibile accettare un comportamento così disdicevole e (esso sì) incomprensibile da parte della nostra italica opposizione, incurante del numero dei morti che cresceva ogni giorno, dapprima nel nord, nella laboriosissima Lombardia, e in seguito, dopo il primo esodo invernale e soprattutto dopo quello estivo, anche nel sud e in tutto quanto il Paese.

Insopportabile, assurdo e offensivo era ed è nel frattempo l’atteggiamento negazionistico adottato dagli oppositori (e non solo da essi, purtroppo) sia contro l’esistenza stessa del virus sia contro i numerosi Dpcm. E ciò all’unico scopo di non consentire che venisse rallentato o addirittura arrestato il veloce e vorticoso movimento generato da quel loro microcosmo industrial-affaristico, in cui gli uomini sembrano condannati a ricavare un utile sempre maggiore di quello necessario per vivere. Un microcosmo in cui anziché il bene si ricerca affannosamente il benessere; in cui tutto, come in un immenso gorgo, viene triturato e visto come occasione di investimento, di guadagno immediato, di reddito, qualcosa in ogni caso di utile, di utilizzabile. Come se il loro sordido utilitarismo li spingesse all’eccedenza e all’eccessivo, a un’avidità incoercibile, a un volere tutto di tutto e di più. Un tutto che una volta ottenuto diventa subito niente. Un utilitarismo nichilista, dunque, la cui eccessività si riflette e trova il suo immediato canale espressivo nel loro linguaggio dai toni insopportabilmente eccessivi. Un linguaggio che considera tutto alla stessa stregua, che viene usato come un’arma, perché non fa differenza alcuna, non pone limiti all’indecenza e che prova anzi piacere nell’esagerazione offensiva. Ne abbiamo avuto l’ennesima riprova durante il dibattito in Senato quando i baldanzosi esponenti della destra – dallo sguardo da ballestero, ci verrebbe da dire con Revelli – facevano a gara nel dirla più grossa, nel toccare i punti deboli, nell’offendere le persone, specie quelle che andrebbero invece massimamente rispettate per il loro passato, per la loro storia, che è la nostra storia, la storia di tutti, compresi quegli stessi deputati e senatori utilitaristi, nichilisti e negazionisti.

D’altronde è chiaro: l’esecutivo ha commesso degli errori nell’affrontare le emergenze determinate dalla pandemia. Ma è altrettanto chiaro che chi si è trovato ad operare in quei momenti difficili non poteva esimersi dal commetterne. Specie per le evidenti e pregresse carenze del sistema sanitario nazionale, sia nel settore pubblico sia soprattutto in quello privato. Tutti avrebbero potuto commetterne. Chi più, chi meno. E la sorte questa volta ci è stata clemente, perché nelle folli giravolte dei governi e dei loro fantasiosi rimpasti ci ha trovati affidati nelle mani di persone sì giovani e forse ancora inesperte, ma quanto meno responsabili e dal volto umano. Certo, compito dell’opposizione è di esprimere contrarietà, obiezioni, proporre correzioni, integrazioni, alternative, come pure di manifestare sfiducia, qualora la maggioranza governativa in carica se la meriti. Ci sono tuttavia modi e modi. I suoi rappresentanti avrebbero infatti non già potuto (perché questa possibilità è a essi negata dal loro radicato utilitarismo) ma dovuto motivare il loro disappunto usando altri toni: i toni certamente severi e risentiti della critica politica, ma espressi in maniera pacata e rattenuta, propria della serietà e della responsabilità, i toni velati della mestizia che la tragedia del momento richiede, quelli della riflessione e dell’analisi rigorosa, non quelli indignati e offensivi, livorosi e aggressivi intonati dalla voce rasposa del puro cinismo demolitore. E ciò sia da parte delle componenti maschili sia (e questo ci ha sinceramente sorpresi, costringendoci a togliere il volume alle loro voci piene di veleno) di quelle femminili, all’unico scopo, appunto, di demolire quel poco di stabilità che il governo, in carica da circa un anno e mezzo, consente.Veleno di serpenti sotto le loro labbra. Piena di maledizione e di amarezza la loro bocca. Rapidi i loro piedi a versare sangue. Distruzione e disgrazia sui loro cammini. E il sentiero della pace lo ignorarono”: queste le parole che ci venivano in mente mentre, combattuti, seguivamo quella diretta. Sono quelle che Paolo di Tarso riporta nella Lettera ai Romani mutuandole dai Salmi e da Isaia.

In questa nuova circostanza, a far da testa d’ariete per loro, per oppositori di tal risma, è proprio quella del leader di Italia viva (a cui un adulatore si è rivolto chiamandolo ancora Presidente), il quale in questa sua triste esibizione, in questo suo tanto premeditato quanto sconveniente scatto d’orgoglio, ha certamente dimostrato a tutta l’assemblea chi era, di che pasta era fatto, quanto dura fosse la sua cervice e soprattutto quanto implacata ancora fosse la sua sete di vendetta per la sconfitta subita nel 2016. Nel suo tanto atteso discorso al Senato (lungo più di 20 minuti) ha usato modi, toni e termini sorprendentemente simili a quelli utilizzati dagli sdegnosi esponenti di Forza Italia, di Fratelli d’Italia e della stessa Lega, il cui motto è ovviamente “prima l’Italia e gli Italiani”. Nel suo esordio accusatorio, ossia nella sua autodifesa o, meglio, nell’apologo di sé, in una sorta di contorsione sofistica, tanto assurda quanto tragica, in cui tentava di trasformare la sua pur patente irresponsabilità in un atto responsabile, egli diceva ad esempio che occorre un “governo forte”. E in effetti, già quella analogia terminologica, il comparire del termine “Italia” in tutte le sigle dei partiti sopra citati, prelude e lascia immaginare che una certa vicinanza, una certa affinità tra di essi già esista, nel caso un domani si volesse pensare di creare un piccola coalizione alla tedesca, un patto politico per il Paese.

Certo, ben altri nel recente passato sono stati gli spettacoli indecorosi inscenati dalle medesime componenti politiche in quella stessa Camera o al Senato. Ma allora nell’aria c’era odore di mortadella e dinanzi agli occhi eccitati e golosi di alcuni membri del Parlamento oscillavano corde annodate a mo’ di cappio, e in ogni caso in quel tempo di sfascio nella memoria, nell’animo di quei rappresentanti non poteva albergare lo sconforto luttuoso dell’inarrestabile e silenziosa conta dei morti di cui ogni giorno essi pur fanno esperienza. Comunque sia, in questi due giorni si è ripetuto l’identico rituale, lo stesso meccanismo vessatorio, la medesima corsa al massacro, l’incontrollabile e contagioso dare addosso a chi, pur ammettendo platealmente di aver commesso sbagli, ha tuttavia svolto un lavoro assai duro, dei cui frutti però potranno avvantaggiarsi e beneficiare tutti gli altri, anche quelli che mentre guardavano dalla finestra intanto l’ostacolavano allungando, dove possibile, una gamba per fargli lo sgambetto. Durante le loro odiose invettive, era peraltro fin troppo evidente che questi politici della demolizione potevano impostare le loro voci raspose e graffianti, rafforzare le loro lingue intrise di odio, proprio da questo vantaggio già acquisito, cioè da quel grande mucchio di denaro che, come una grande torta, l’Europa ha per la prima volta promesso all’Italia come fondo per la ripresa. Dopo essere riuscito ad ottenere questo sostegno finanziario, ora dunque, secondo i risentiti membri dell’opposizione, il capo del governo dovrebbe farsi da parte. Be’, troppo comodo. È peraltro molto probabile che senza la garanzia di questo supporto essi non avrebbero usato gli stessi toni livorosi, ma se ne sarebbero stati zitti, come in effetti hanno fatto nonostante tutto il loro incontentabile e incontenibile strombazzamento, finché non l’avesse ottenuto. Finché, diciamo così, non avesse portato a termine il lavoro difficile e pesante. Il lavoro “sporco”. A tal proposito, fra i tanti interventi efficaci emersi dai banchi dei sostenitori del governo, ha certamente colto nel segno quello in cui si precisava che mentre al governo interessava ottenere il Recovery Fund, all’opposizione strepitante importava più che altro possederlo. E in effetti, quella a cui abbiamo assistito in due giorni trascorsi davanti alla televisione, è stata una lunga, monotona e stomachevole liturgia politica, una partita di colpi e contraccolpi giocata tra demolitori e costruttori, tra chi voleva distruggere la figura tragica del capo del governo (simile in questo penoso frangente a un San Sebastiano di palazzo Chigi, santo la cui memoria per la Chiesa cattolica ricorre proprio il 20 gennaio) e chi ogni volta cercava di ricomporla. Era un dibattito che assomigliava a una simulazione di guerra. A uno scontro tra due avversari che, pur coabitando nella stessa casa, si trattavano come nemici a causa del diverso modo di impostarne la gestione. Alle sempre più scomposte e monocordi accuse degli smantellatori, il Presidente del Consiglio (a cui, per sminuirne il valore, la rabbiosa segretaria di Fratelli d’Italia, si riferiva con il semplice appellativo di “avvocato”) nella sua replica ha reagito con composte e puntuali elencazioni delle cose già fatte dal governo, non dimenticando alla fine, a proposito del ritardo nell’incarico per gli appalti, di prospettare il concreto rischio di pericolose infiltrazioni mafiose.

Il rancore verde-scuro contro questo governo giallo-rosso discende forse da due motivi. Anzitutto dall’invidia, come si è accennato, di essere riuscito, esso, ad ottenere dall’Europa quella fiducia che i precedenti governi non si sarebbero mai neppure sognati: sia quelli guidati da esponenti del centro-destra (incancellabili le pessime figure del capo condominio della Casa delle libertà al Parlamento europeo e non solo), sia quello guidato dall’ex segretario del Pd (il quale verrà forse ricordato per il suo “Stai sereno Enrico” e per aver cancellato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori), sia infine quello giallo-verde, in cui il ministro degli Interni, in quanto sovranista, era ed è dichiaratamente antieuropeista. Ma davvero, domandava a conferma di ciò una senatrice del Pd, si sarebbe ottenuto il fondo con un governo sovranista? L’altro motivo di livore si può riscontrare nel fatto che nei gravi problemi che l’attuale esecutivo fa fatica a risolvere, gli sfascia-governi scorgono la loro stessa incapacità, rivedono cioè quegli stessi problemi che loro hanno lasciato in eredità al nuovo governo, problemi che non solo non sono stati capaci di risolvere, ma che hanno addirittura contribuito ad aggravare ulteriormente.

Ad ogni modo, i termini che in quella lunga seduta parlamentare sono filtrati con maggiore frequenza attraverso le mascherine traballanti dei depurati e dei senatori sono stati due: “incomprensibilità” e “irresponsabilità”, riferiti ovviamente alla decisione presa dal partito più piccolo della coalizione governativa. Grazie al cui contributo, tuttavia, era nato il governo Conte 2, dopo la fine del precedente esecutivo determinata dalle intenzioni esplicitamente autoritarie del segretario della Lega, il quale, si ricorderà, per poter risolvere i problemi che affliggono il Paese, e approfittando dei pur larghi consensi ottenuti sulla questione immigrati, chiedeva agli Italiani di poter avere pieni poteri.

Dell’irresponsabilità abbiamo già accennato a proposito non tanto del trasformismo politico, ma del funambolismo semantico, perché, come si è già detto, proprio uno dei sostenitori di quella scelta scellerata, di quell’azzardo politico, cioè uno degli irresponsabili, sosteneva che la loro decisione sarebbe stata dettata da un atto di responsabilità, al fine di stimolare il governo a far meglio e più in fretta. Ma il risultato, sotto gli occhi di tutti, è stato purtroppo quello di averne rallentato l’azione. Peggio ancora: è stato quello di aver distolto temporaneamente l’attenzione e con essa anche il volto dal problema principale, di fare del dibattito politico una distrazione, tanto gradevole quanto pericolosa, dal dramma della pandemia. A proposito della leggerezza con cui sono state usate le parole in quel tempio laico della parola che è il Parlamento, a un certo punto, addirittura, una senatrice di Forza Italia ha sbottato impudicamente dicendo che il Consiglio dei Ministri approfitta delle difficoltà generate dalla pandemia per restare attaccato alle poltrone. Come e quanto deve essere contorta la mente di una persona per concepire una diavoleria simile? Davvero così poco pesa la sostanza della sua coscienza? E soprattutto, si può giocare, si può speculare così con la vita e con la morte degli esseri umani? Fino a che punto si può essere insensibili alla pietà per i morti? Si tratta peraltro della stessa persona che, per rimarcare l’inesperienza politica del Presidente del Consiglio, con una metafora eccessiva e scabrosamente materiale lo definisce “vergine”. A rincarare ancora la dose, per rimarcarne il supposto trasformismo, a darle manforte un senatore di Fratelli d’Italia che definisce “liquida” la personalità del Presidente. Anche perché, aggiunge, eccedendo nei toni sprezzanti e offensivi rivolti più alla persona che alla funzione, “non è un’aquila”, ma “un’anatra zoppa”. Bene ha fatto pertanto il Presidente nella replica, rispondendo pacatamente sulla questione delle poltrone che l’importante non è tanto occuparle o mantenerle, ma sedervisi con “dignità e onore”.

Da quanto si è detto si può pertanto desumere che per la coalizione governativa la grave responsabilità degli irresponsabili azzardosi dipende da due gravi ingenuità: in primo luogo nel non essersi resi conto che l’apertura della crisi politica potrebbe mettere in serio pericolo gli aiuti europei e con ciò stesso l’intero sistema Paese; e in secondo luogo nel non prevedere che quella mossa azzardata potrebbe consegnare l’Italia ed eventualmente gli stessi 209 miliardi del Fondo nelle mani della destra, di questa destra ingorda di potere, nel malaugurato caso in cui si dovesse andare ad elezioni anticipate. Non è detto infatti che vi si vada. Ma un calcolo anche approssimativo dà subito l’idea della compattezza del centro-destra. Ecco il motivo che ha responsabilmente spinto un senatore del Psi a rompere la sua alleanza con Iv, a prendere le distanze da quello che egli stesso ha denominato “azzardo non condivisibile”, e a dare quindi il suo sostegno al governo. Anche un esponente del M5s ha definito gioco d’azzardo quello del Giamburrasca toscano (così lo definisce Augias), ma ha in più avvertito che la cooptazione dei cosiddetti “responsabili” in questa nuova guerra tra guelfi e ghibellini, tra nazionalisti e internazionalisti, tra demolitori e costruttori si potrebbe rivelare un sorta di cavallo di Troia. Nel senso che gli astiosi e astuti achei potrebbero usarli per impossessarsi della rocca di Ilio.

Quanto infine all’incomprensibilità di quella strana mossa sulla affollatissima scacchiera della politica italiana, certo del tutto indecifrabile essa è subito parsa a molti politici. Una mossa laterale e latente, tipica del cavallo, dettata da ragioni non solo politico-strategiche, ma anche psico-politiche. Non vogliamo qui tornare su queste ultime, ossia sui noti aspetti caratteriali del soggetto, del giocatore d’azzardo. Più interessante è piuttosto soffermarsi sulla trama politica che con quella manovra avrebbe voluto tessere e realizzare. Non è tanto difficile da cogliere e da comprendere. Avrebbe voluto sparigliare il tavolo del governo affinché lui, che ne ha favorito la nascita, e i componenti della sua piccola ma imprescindibile squadra, potessero avere un ruolo chiave nella gestione dell’emergenza. Perché lui, con la sua annosa esperienza politica alle spalle, fatta dei già citati momenti gloriosi, si ritiene in queste cose più capace di un semplice “avvocato”. Lui, che certamente dirà che la sua astensione è stata anch’essa motivata da un atto di responsabilità. Mentre invece non è, lo si comprende facilmente, che un modo come un altro per lasciarsi aperta una porta dalla quale potrebbe essere ripescato per via di qualche strano calcolo di palazzo. Nel caso in cui poi questa porta non riuscisse a dischiudersi (ecco un altro elemento della sua comprensibile trama), potrebbe aprirglisi, lo abbiamo già accennato, la finestra, il possibile spiraglio di un governo di solidarietà nazionale in una coalizione partitica a guida centro-destra. Col rischio, in quest’ultimo caso, che nel momento in cui si andrà alle urne, nel 2023, egli sarà costretto a ripassare all’opposizione, visto che molto verosimilmente il centro-destra riuscirà a governare con le sue sole forze. Ma chi se la sentirà, chi avrà l’ardire allora nel centro-sinistra di stipulare un nuovo patto di legislatura con questo senatore poco affidabile, con questo nuovo Don Chisciotte della politica? Egli, come si è visto, ama il rischio, l’impresa ad effetto. Anche se a rischiare non è tanto e solo lui, ma anche l’insieme dei Sancho Panza, cioè l’intero Paese. E se crede, come dice il poeta, che è dal pericolo che potrebbe nascere la sua salvezza, noi da parte nostra confidiamo che pur nella sua costitutiva balnearità questo governo parlamentare abbia comunque in sé la capacità di sottrarci alle grinfie del nulla, di portarci tutti quanti, prima o poi, fuori dal buio, lungo e noioso tunnel della pandemia. Ma questo esito positivo, ormai dovrebbe essere chiaro a tutti, dipenderà anche da noi. Soprattutto da noi.

Ivrea, 23 gennaio 2021

Quaderno 68

 

È online il quaderno Cipec numero 68 che raccoglie tutti gli interventi al Consiglio regionale del Piemonte di Sergio Dalmasso dal 2007 al 2010.

 

DOWNLOAD QUADERNO 68

Download “Quaderno CIPEC N. 68 (Interventi al Consiglio regionale del Piemonte di Sergio Dalmasso parte seconda 2007-2010)” Quaderno-CIPEC-Numero-68.pdf – Scaricato 16978 volte – 858,96 KB

Il cartaceo sarà dato alle stampe nel secondo semestre del prossimo anno.

Il quaderno serve come documentazione.

Un intervento del Quaderno N. 68

Legislatura n. VIII – Seduta n. 322 del 09/05/08 – DALMASSO Sergio – Argomento: Commemorazioni

Commemorazione dell’on. Aldo Moro

Velocemente, come il Consigliere Leo.

C’è stata una trasmissione televisiva, qualche giorno fa, in cui a giovani di vent’anni è stato chiesto se sapevano chi fosse Aldo Moro.

Leggo due risposte testuali: “Mah, è quello che fotografava i vip, quello dello scandalo” – Lele Mora – “Non so, non sono mica comunista io e in classe dormivo quando si parlava di questo”.

È chiaro che fatti accaduti trent’anni fa siano lontani dai giovani come poteva essere la guerra di Spagna per me, cronologicamente.

Al tempo stesso, è molto più vero, rispetto ad anni fa, che se i giovani vivono appiattiti sull’oggi (come dice un grande storico marxista inglese) è estremamente difficile far presente loro i fatti passati.

Quindi chiederei anch’io – adesso non mi era neanche venuto in mente ma senza fare robe bipartisan, è tanto bravo il Consigliere Leo, ecc.

evitiamo questo – se in una prossima riunione del Comitato che è stato ricordato non si possa ragionare e pensare a qualche iniziativa, non tanto la processione nelle scuole, quanto qualche iniziativa significativa e collettiva, che cerchi di mettere in luce i fatti in modo chiaro, evitando per favore, spiegazioni unilaterali.

Gli anni ’70 non sono stati solamente violenza, ma sono stati anche altro: il diritto di famiglia, la legge Basaglia e mille altri aspetti di questo tipo.

Credo che sarebbe utile non solo per Torino, ma per la regione intera.

 

Sergio Dalmasso

IL LAVORATORE

Pubblicato nel periodico di Trieste Il Lavoratore il mio scritto sul volume Lucio LIBERTINI.


In “Il Lavoratore”, dicembre 2020, Trieste.

Sergio Dalmasso, LUCIO LIBERTINI, lungo viaggio nella sinistra italiana, Milano, ed. Punto rosso, 2020.

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Nei suoi ultimi anni, Lucio Libertini (Catania 1922- Roma 1993) aveva intenzione di scrivere la propria biografia politica, Lungo viaggio nella sinistra italiana.Libro di Sergio DALMASSO su Lucio Libertini

I pressanti impegni politici (tutt* ricordano la sua generosità) e la morte improvvisa (agosto 1993) hanno impedito che il testo andasse oltre le prime pagine ed un schema, scritto a mano.

Il mio libro non è una tradizionale biografia. Mancano totalmente dati sulla vita personale (ambiente famigliare, studi, adolescenza, gioventù…).

Inoltre, la chiusura di biblioteche ed archivi, causa Covid, mi ha impedito, al momento della stesura definitiva, di accedere ad alcuni documenti che avrei voluto consultare.

Ho tentato di scrivere una “storia” interamente politica seguendo lo schema e l’impostazione che lo stesso Libertini avrebbe voluto offrire.

Libertini ha fatto parte, dal 1944, di molte formazioni. La prima è, per brevissimo tempo, quella dei demolaburisti (Bonomi, Ruini) di cui parlava con molta reticenza e da cui esce, dopo pochi mesi, con i giovani, vicini alle posizioni, europeiste e federaliste, del socialista Eugenio Colorni.

Quindi, nel PSI, la corrente di Iniziativa socialista, che tenta con mille difficoltà e contraddizioni, di non appiattirsi sulle due opzioni maggioritarie, quella filosovietica e frontista e quella tradizionalmente riformista.

L’equilibrio è difficile, contraddittorio, proprio di giovani privi di esperienza politica e schiacciati dalla morsa della bipolarizzazione del mondo e, conseguentemente, degli schieramenti politici nazionali.

L’approdo è la scissione socialdemocratica di Saragat (gennaio 1947) nel tentativo di costruzione di una forza socialista autonoma fra i due blocchi.

La scelta governista e atlantista di Saragat e il suo progressivo abbandono dell’ipotesi di “socialismo dei ceti medi” e di un “umanesimo marxista”, proprio del suo pensiero negli anni ’30, produce una diaspora nel gruppo di Iniziativa.

Libertini, dopo una battaglia interna che tenta di rilanciare una ipotesi autonoma, ma che è sconfitta dall’apparato socialdemocratico, lascia (1949) il nuovo partito.

Dal 1951 al 1957, la partecipazione all’Unione socialisti indipendenti (USI), la formazione di Magnani e Cucchi, usciti dal PCI sulle posizioni di una “via nazionale”, considerata tradizionalmente una sorta di eresia “titina”, ma capace di posizioni originali sulla politica internazionale, l’autonomia sindacale, il rifiuto dei blocchi.

Nel 1957, dopo i fatti del 1956 (denuncia del culto di Stalin, repressione dei moti ungheresi …) l’USI confluisce nel PSI.

E’ la scelta per la sinistra del partito, contraria all’accordo di governo con la DC, ma soprattutto del rapporto organico con Raniero Panzieri che produce la migliore stagione della rivista “Mondo operaio” e le Sette tesi sul controllo operaio,

il documento più organico di una sinistra diversa da quella maggioritaria (Togliatti e Nenni), che vede nella centralità operaia e nell’”uscita a sinistra” dallo stalinismo, il cardine per la costruzione dell’egemonia del movimento operaio,

in una fase di profonda modificazione della struttura economica nazionale (inserimento dell’Italia nel capitalismo avanzato, crescita industriale, migrazione interna…).

Le sue capacità giornalistiche lo portano ad essere direttore del periodico della sinistra “Mondo nuovo” (lo era stato anche del settimanale dell’USI, “Risorgimento socialista”).

L’ingresso del PSI nei governi di centro-sinistra produce una nuova scissione e la formazione del PSIUP, di cui è fondatore, dirigente e in cui assume posizioni di sinistra, critiche verso le opzioni maggioritarie (Due strategie), sia sulle ipotesi nazionali (critica frontale al centro-sinistra,

alla socialdemocratizzazione, ai progressivi spostamenti del PCI), sia su quelle internazionali (critica al socialismo realizzato, attenzione alle esperienze rivoluzionarie nel “terzo mondo”).

Alla scomparsa di questo (1972), la scelta è per il PCI, formazione che maggiormente esprime istanze operaie e popolari.

Non rinnega le esperienze passate, ma ne coglie criticamente, il minoritarismo, l’inefficacia.

Dopo un ostracismo iniziale, in cui paga le posizioni eterodosse lungamente espresse, è vice-presidente della Giunta regionale piemontese, parlamentare, responsabile nazionale della commissione trasporti.

Negli anni dell’”unità nazionale” è continua la sua preoccupazione di un progressivo distacco rispetto alle istanze di base, ai bisogni popolari che non possono essere immolati sull’altare degli accordi politici.

Tra il 1989 e il 1991, l’opposizione alle scelte di Occhetto (la Bolognina) e la fondazione di Rifondazione.
E’ il primo capogruppo al Senato, instancabile organizzatore.

Può sembrare contraddittorio il suo avvicinamento a Cossutta, nello scontro interno che porta alla sostituzione, come segretario, di Sergio Garavini (luglio 1993).

Al di là delle banali accuse di “scissionismo”, di “globe trotter” della politica”, stupidamente presenti in molti commenti seguiti alla sua scomparsa e colpevolmente al centro di un comizio di Occhetto ai cancelli della FIAT (1992),

Libertini ha sempre rivendicato una linearità e una coerenza, segnata dal rifiuto dei blocchi, dalla critica allo stalinismo, dalla ricerca di una sinistra popolare ed autonoma.

Rifondazione esprimeva la continuità di un impegno, la certezza nel futuro della prospettiva comunista, oggi minoritaria,

ma storicamente vincente, la possibilità di ricostruire un rapporto di massa con i grandi settori popolari, davanti al ritorno della destra e alla semplificazione autoritaria portata dal sistema elettorale maggioritario.

Il libro ricostruisce questo percorso, i suoi molti scritti, “eresie” dimenticate, dibattiti, scelte generose,

anche se minoritarie, figure della sinistra maggioritaria e di un’altra, spesso emarginata (Magnani, Codignola, Maitan, Panzieri, Ferraris…),

sconfitta, ma capace di contributi e di analisi sulla realtà nazionale e internazionale, le sue trasformazioni, le prospettive.

In appendice, i suoi scritti sulla rivista “La Sinistra” (1966-1967) che sarà oggetto di un mio prossimo opuscolo e una testimonianza di Luigi Vinci.

Attraverso una figura lineare e coerente, il testo ripercorre mezzo secolo della nostra storia, di successi, errori, scacchi, potenzialità, occasioni mancate dell’intera sinistra italiana.

Non è un caso che, in un supplemento di “Liberazione”, a lui dedicato, poco dopo la sua morte, il grande storico Enzo Santarelli, ne ripercorresse soprattutto le pagine meno note, ormai perse nel tempo, forse quelle, che pur non maggioritarie, meglio delineano questa personalità che il mio libro tenta di riportare all’attenzione

Spero che i mesi prossimi permettano presentazioni, discussioni, critiche, ad oggi impedite dal Covid, su queste pagine.

Sergio Dalmasso

 

Indice dei nomi

 

Addio Lidia Menapace

di Sergio Dalmasso

Ho incontrato, per la prima volta Lidia Menapace a Roma, nel luglio 1970, ad una delle prime assemblee nazionali del Manifesto.

Eravamo partiti da Genova, viaggiando di notte (le cuccette erano un lusso impossibile) in treno, Giacomo Casarino ed io, arrivando a Roma, morti di sonno, in una giornata caldissima di luglio.

Morta Lidia Menapace 7 dicembre 2020Ci era stata consegnata la prima stesura delle “Tesi sul comunismo”, in una assemblea che si sarebbe dovuta svolgere a piazza del Grillo, ma data la partecipazione, si svolse a Montesacro.

Lidia era la più simpatica, la più disponibile fra i/le dirigenti che, a noi ventenni, sembravano di altra età, generazione, formazione e incutevano rispetto (Natoli, Rossanda…).

Quando si telefonava a Roma per chiedere che qualcun* partecipasse a dibattiti, incontri… arrivava sempre Lidia, puntualissima, precisissima.

Decine di riunioni della commissione scuola (ricordate le critiche ai “decreti Malfatti”?, poi il referendum per difendere il divorzio.

Ancora lei, dappertutto.

Ai temi usuali, il Manifesto aggiungeva tematiche insolite e originali, riprendendo riflessione dell’UDI sulla famiglia, il ruolo della donna; Lidia, per la sua formazione cattolica e democristiana era anche tramite con comunità di base, settori allora attivissimi su questo e altri temi.

Rimase stupita quando ad Alba (Cuneo), la sala prenotata si dimostrò troppo piccola per la partecipazione enorme e fummo messi in una palestra. Lo racconto sul “manifesto”.

Poi l’ennesima scissione, DP e PdUP, il suo ruolo di consigliera regionale nel Lazio, i suoi articoli e libri, le migliaia di assemblee, incontri su scuola, pace/guerra, il no al servizio militare per le donne, l’originalità e centralità della tematica di genere che spesso, a sinistra, veniva ridotta a servizi sociali, maternità, asili…

Nei primi anni di questo secolo, l’avvicinamento e poi l’iscrizione a Rifondazione. Incontri dappertutto, pur in una situazione difficilissima, partecipazione a convegni, direttorA (non voleva il termine direttrice che le ricordava le scuole elementari) della prima “Su la testa,” rivista mensile, consigliera provinciale (dopo due consigli regionali e il Senato!) a Novara, città in cui era nata.

A più di 90 anni era sempre in moto, in treno, dalla sua Bolzano nell’Italia intera per collettivi di donne, associazioni pacifiste, ambientaliste, per l’ANPI di cui era dirigente nazionale: “Sono ex insegnante, ex senatrice, ma sempre partigiana”.

Tre aneddoti:

– 2004. Abbiamo un incontro pubblico con lei, a Cuneo. Leggo su “Liberazione” della morte del marito. Le scrivo dicendole che possiamo annullarlo, che non si faccia obblighi con noi. Risposta: “Arriverò. Alla mia età, se ci si ferma, non si riparte più”.

– 2010: per le elezioni regionali piemontesi, nostra assemblea a Bra, città sede di uno dei più attivi e capaci circoli del vecchio PdUP. Era convinta che tant* sarebbero venuti a rivederla, salutarla, dopo una militanza comune, di anni. Neppure un*. Il deserto. Era rimasta molto addolorata e colpita. Non uso aggettivi e tristi considerazioni antropologiche sul settarismo di “sinistra”.

– 2016. per il compleanno di Rosa Luxemburg, a Cuneo, viene fondato un circolo Arci che prende il suo nome. Mi viene chiesta una relazione su vita ed opere. Al dibattito partecipa anche Lidia (per me un onore).

Al termine mi dice di mettere per scritto quanto ho detto. Lei avrebbe aggiunto un suo testo e ne sarebbe nato un libro, a quattro mani, per l’editore Manni. Altro onore per me. Scrivo, diligentemente il mio compitino. Il suo testo non arriverà mai, nonostante, lettere, e-mail, telefonate…

Dopo due anni e mezzo alla “critica roditrice del computer”, “Una donna chiamata rivoluzione” uscirà presso la Redstarpress che ancora ringrazio.

Mesi fa se ne è andata Rossana Rossanda. Prima di lei Natoli, Pintor, Magri, vinto anche dalla sconfitta politica e da un mondo in cui non si riconosceva più. È il nostro passato che ci lascia, in una realtà sempre più drammatica.

Lidia Menapace negli anni Sessanta

Essere stato amico di Lidia e avere condiviso tratti di percorso con lei è stato per me (e non solo) molto bello ed importante.

Con affetto.

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Ibsen Mimesis

 

 

Intervista a Franco Di Giorgi

di Domenico Capano

FRANCO DI GIORGI, Il dramma dell’esistenza mancata. Dell’esser sé stessi e della falsificazione. Saggio su Ibsen (Mimesis, 2020, 316 pagg.).

Professor Di Giorgi, dopo il suo corposo lavoro su Giobbe (Giobbe e gli altri, del 2016), dopo il saggio in cui ha avuto modo di riflettere sul vangelo apocrifo di Tommaso (Il Luogo della Vita, del 2018) e quello su San Paolo, Hodòs eirènes. Il “sentiero della pace” nelle lettere paoline (del 2019), ora è uscito per Mimesis questo nuovo saggio su Ibsen, Il dramma dell’esistenza mancata. Dell’essere sé stessi e della falsificazione. Ce ne vuole parlare? A cosa si deve il titolo?

Ibsen Mimesis di Franco Di Giorgi Il titolo di questo mio saggio – Il dramma dell’esistenza mancata – trae spunto in generale dai drammi di Ibsen e in particolare dal titolo di un’opera di Ludwig Binswanger, Tre forme di esistenza mancata, del 1956. Nel 1949 però Binswanger aveva già pubblicato un altro scritto, sempre sull’autore norvegese: Henrik Ibsen. La realizzazione di sé nell’arte. Binswanger è uno psichiatra svizzero che ha sviluppato un’antropoanalisi ispirandosi all’analitica esistenziale svolta da Heidegger in Essere e tempo, nel 1927. La tesi di questo studioso è che forme di esistenza mancata come la stramberia, la fissazione e il manierismo non si debbono necessariamente ridurre solo a semplici patologie, ma si possono anche considerare come delle possibilità esistenziali, dei modi di vivere. Egli ravvisa infatti la fissazione in uno dei personaggi di Ibsen più rappresentativi, più noti e più rappresentati, Il costruttore Solness (1892), uno dei drammi della maturità ibseniana, scritti in patria, in Norvegia, dopo aver vissuto e lavorato per molti anni, per 27 anni, all’estero, in Italia (Roma) e in Germania (Dresda e Monaco).

In che cosa consiste esattamente l’esistenza mancata?

L’esistenza mancata è una categoria esistenziale che, secondo una certa gradualità, si attaglia a molti dei personaggi ibseniani, il cui travaglio, la cui condizione costituisce la sostanza della drammi di Ibsen. L’esistenza mancata viene vissuta come imperfezione, errore ed erranza, come vita deviata, sbagliata, non colta appieno, non vissuta in modo autentico. C’è un termine paolino che la definisce bene, l’hamartía, il peccato.

Per poter comprendere la condizione esistenziale travagliata di questi personaggi – nei quali si riflette anche la nostra attuale condizione – occorre distinguere il concetto di esistenza in ex-sistenza e in vivere. Nella prima vi è la consapevolezza dell’essere nel mondo, nel secondo no.

Il dramma dell’esistenza mancata prorompe nei personaggi ibseniani quando prendono coscienza della loro condizione. Questa consapevolezza è presente solo in alcuni di essi: ad esempio in Skule ne I pretendenti al trono (1864), in Bernick ne I pilastri della società (1877), nella stessa Nora de La casa di una bambola (1879); ma la maggioranza di essi vive e si lascia vivere senza preoccuparsi della propria vita, anzi cerca in tutti i modi di non preoccuparsene, come ad esempio Hjalmar nell’Anitra selvatica (1886). I più coscienti sono quelli che vogliono instaurare un rapporto veritativo con sé stessi; gli altri, pur di vivere o di sopravvivere, cercano in tutti i modi, come già osservavano Pascal e Kierkegaard, di dimenticarsi del sé stessi, cioè della propria vita.

Occorre distinguere infatti anche tra propria vita, che è quella autentica del Sé stesso; vita propria, che è la vita in sé, intesa come processo; e vita impropria, che è quella vissuta falsamente e in modo inautentico dai più, e quindi una non-vita, una vita falsa.

Ma occorre distinguere altresì pure all’interno del medesimo in-dividuo, nel quale sono compresenti un Sé stesso, perlopiù relegato a utopia se non a atopia, e un Io, un’istanza che pur di sopravvivere, si rende disponibile a obliare il vero Sé stesso e ad assumere qualità e ruoli che non gli sono affatto propri. Da qui, da questa duplicità interiore vissuta nei consapevoli come lacerazione, il motivo per cui nel saggio il termine in-dividuo compare sempre con il trattino in mezzo. In molti di questi Io, ad esempio in Hjalmar, l’oblio del Sé stesso, diviene addirittura una seconda natura, in alcuni altri, invece, nei pochi, ad esempio in Skule, crea profondo disagio.

Una visione certamente pessimistica quella che emerge dall’opera di Ibsen. Ma c’è in questo drammaturgo una via per redimersi da un siffatto peccato, dall’hamartía, dall’esistenza mancata?

In Ibsen non c’è nessuna redenzione. C’è tuttavia una possibilità di risveglio al Sé stesso. Ma non dipende mai dalla volontà del singolo in-dividuo. Il risveglio è sempre il frutto del mero caso. Immerso nell’oblio, l’Io da solo non sarà mai in grado di ridestare il vero Sé stesso. Per giungere a questo risveglio è sempre necessario, per Ibsen come per Socrate, la semplice e casuale presenza di un Tu, il quale per ottenere quel risveglio, deve essere necessariamente pathico, deve cioè suscitare un pathos, un dolore nella coscienza addormentata dell’Io. Questo pathos, questo dolore, è l’effetto dell’in-essenzializzazione che il Tu pathico genera nell’Io, il quale raggiunge la sua essenzializzazione, e quindi il possibile recupero del Sé stesso perduto, solo mediante la sua inessenzializzazione, cioè solo attraverso la spoliazione delle sue innumerevoli maschere.

Ma ammesso che sia superabile, questo disagio esistenziale prevede solo la figura dell’Io e del Tu? Non c’entra per nulla la società in cui essi vivono?

È importante sottolineare che per Ibsen questo doloroso travaglio esistenziale, causato dalla lacerazione intima Io-Sé stesso, non riguarda solo l’individuo, la sfera individuale, riguarda anche la società, la sfera sociale, e quindi anche gli altri. La lacerazione individuale riflette quella sociale e viceversa. Se la società è malata è perché l’individuo è malato. E viceversa. È questa interrelazione tabifica che caratterizza i drammi di Ibsen, è un’aria mefitica che vi si respira.

Nella società la dialettica Io-Sé stesso corrisponde non solo e non tanto alla classica lotta di classe borghesia-proletariato, ma corrisponde soprattutto a quella contraddizione ancora più classica, quella esiodea, tra il bene e il benessere, a causa della quale il bene viene sistematicamente sacrificato per il benessere. Si vedano a tal proposito le ragioni del dottor Stockmann ne Il nemico del popolo, del 1882.

Non solo. Per garantire questo suo benessere la società deve creare la lacerazione nell’in-dividuo, affinché esso rimanga sempre disponibile per le esigenze di questa società unidimensionale, anche se ciò implica per ogni singolo il dover rinunciare al Sé stesso, il tradimento della propria vocazione, la repressione della propria predisposizione.

Da un lato, dunque, la società non può non falsificare la coscienza dell’in-dividuo, favorendone cin tal modo l’alienazione, l’estraneazione e la contraffazione del Sé stesso con l’Io; dall’altro lato, tuttavia, l’individuo, pur di non avvertire quel dolore, quel pathos che ogni vero risveglio comporta, finisce con l’assuefarsi a quel sistema sociale, cercando anzi di fare in modo che nulla cambi rispetto a quell’ordine delle cose.

Foto del Libro di Franco Di Giorgi su Ibsen

Il dramma dell’esistenza mancata. Dell’essere sé stessi e della falsificazione. Saggio su Ibsen, Franco Di Giorgi, 2020

Disponibile anche su Amazon

Torino, 3 dicembre 2020

Giornata internazionale CONTRO la violenza sulle donne

25 novembre, 2020.

L’altra storia di Lilìth di Franco Di Giorgi

L’altra storia di Lilìth, commento al video

No violenza

No violenza. Lo stupro, opera di Caterina D’Amico, scultura in gesso dipinta con colori acrilici, misure reali, anno 1994).

Il sesso non ricambiato è violenza e reato.

L’opera di Caterina D’Amico è a grandezza naturale e intende denunciare la sconvolgente esperienza dello stupro. Ricoperta di frammenti di specchio, la veste ribaltata sul volto della donna evidenzia la non partecipazione all’atto sessuale.

Secondo alcune testimonianze, il corpo violentato della donna rimane come un involucro privo di forza e di volontà di vivere, tale per cui l’essere umano si sente sporco, dentro.

Assaliti dalla curiosità, durante le esposizioni alcuni uomini si avvicinavano chiedendo: “Chi è quel purcun che ha fatto questa scultura?” La risposta che si poteva dare era: “Il purcun è colui che anche davanti a questo corpo violentato e abbandonato vede solo sesso, solo un’ulteriore preda da usare come vittima”.

Durante la fruizione ravvicinata dell’opera, facendolo rispecchiare in quei cocci di vetro spezzato, l’artista cerca di mettere in grado lo spettatore di ribaltare il senso della vergogna su un potenziale stupratore, su colui che ha potuto o che, date certe condizioni, potrebbe osare quella violenza.

Sull’opera si veda il video su YouTube “Sguardo oltre la pelle” (2005) di Lino Budano.

No violenza, Lo stupro, opera di Caterina D'Amico

Video Sguardo oltre la pelle di Lino Budano:

No violenza

L’altra storia di Lilìth

di Franco Di Giorgi

 Sin dall’inizio nel giardino apparvero in due. Le prime parole che lui le rivolse quando se la vide dinanzi furono queste, ispirate da un poeta dell’amore eterno: «Mi piaci quando taci perché sei come assente. Distante e dolorosa come se fossi morta». Dentro di sé, infatti, cercava il silenzio primigenio, desiderava la solitudine originaria, l’integrità fisica, il primato e il privilegio dell’unicità, quella beatitudine di cui aveva goduto ancor prima di quell’inizio e che Dio purtroppo gli aveva negato pensando che egli, Adam, si annoiasse e che non stesse bene che fosse solo. Lui, il solo a non essere stato generato da una donna, lui che non conosceva madre, ora se ne trovava invece una davanti, molto simile a sé, Lilìth, la madre di tutte le altre madri, la quale per di più pretendeva di essere la madre anche di lui, di Adam, perché ogni uomo, e a maggior ragione anche il primo, è destinato a una donna che ricorda la propria madre. Con la stessa pasta, con la medesima ’adamàh, Dio aveva creato due esseri, di cui uno, l’essere femminile, riteneva di essere la madre dell’essere maschile. Era lui, invece, che voleva essere la madre anche di lei, della donna. Non ci mise molto a disfarsi di Lilìth e addormentandosi si dispose in modo che Dio gliene formasse un’altra secondo l’immagine che avrebbe visto in sogno, però utilizzando questa volta la propria ’adamàh, la sua stessa materia maschile. Da lui, da Adam, dall’ish nacque così, subito dopo il primo femminicidio, lei, Eva, l’ishàh.

L’occhio pietoso dell’arte, però, ritorna sul corpo abbandonato di Lilìth, procedendo a una specie di silente “exoscopia”, a un esame dettagliato dell’epidermide, della pelle, sotto la pelle, oltre la pelle, a un’amorosa perlustrazione purificante della carne violentata, mentre il rumore del mondo scorre via veloce come il tempo e qualsiasi parola diviene luogo comune, betîse, chiacchiera, sfondo sonoro neutro che alla lunga neutralizza anche quel corpo abusato e persino la stessa violenza, ormai accettata da quasi tutti gli uomini come qualcosa di inevitabile, come una dannazione. Sì, una maledizione, un destino ineluttabile come la morte, incancellabile come una stimmate, insanabile come la gelosia, quella «piaga biforcuta», quella specie di peste che ci viene inflitta nello stesso istante in cui nasciamo, ebbe a dire nel frattempo un altro poeta eterno. Ma ogni gesto, soprattutto quello suscitato dal dubbio, quello arrogante e aggressivo che non vuole e non riesce a riconoscere l’assoluta indipendenza dell’altro da sé, della donna dei suoi sogni, è il prodotto di una ferinità che la cultura umana, specie quando si rende dogmatica, ha più volte suscitato sperando di rimuoverla. La quotidiana violenza sul corpo femminile, sull’altro genere umano, ha quindi la sua spiegazione nel nostro lontano passato, sia nella preistoria immaginata che nella storia vissuta, specialmente in quella riportata nei testi sacri, come pure in quelli non sacri ma che da quelli sacri hanno tratto ispirazione.

La comunicazione del misfatto, poi, quanto più sembra essere preoccupata, tanto più diventa nefandezza, favorendo e accelerando in tal modo la liquefazione e il definitivo oblio del corpo offeso, sul quale, naturalmente, una volta erasa l’immagine umana, l’evento brutale si traduce in affare commerciale soggetto alla legge del mercato, da cui, com’è noto, dipende la saldezza dei sistemi economici e delle stesse nazioni.

Non resta allora che l’attento esame delle lividure esterne e interne, sopra, sotto e oltre la pelle, per cercare di andare oltre il dolore; non rimane che la comprensiva osservazione di quella carne lacerata, di quelle ferite immedicabili, cercando, attraverso quei deboli riflessi di luce che nella notte dei tempi ancora rivelano il corpo ribelle di Lilìth, di ricavare segni con cui formare pazientemente parole, parole nuove per un linguaggio nuovo, grazie al quale gli uomini, i discendenti di Adam, possano finalmente apprendere il modo per superare la loro dannata violenza innata, che è il vero peccato originale.

Questo testo vuole essere una libera interpretazione del video (Sguardo sotto la pelle: https://www.youtube.com/watch?v=mcpDyo9XG4E) che l’artista Lino Budano ha realizzato nel 2005 in collaborazione con Caterina D’Amico e che quest’anno hanno voluto riproporre in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne.

Dopo escursioni nel campo della pittura e della scultura, da circa 20 anni Lino Budano si occupa di “ricerca visiva”, dedicandosi al lavoro dell’immagine come contaminazione di generi e di linguaggi diversi.

Il mondo della pictoscultura di Caterina D’Amico sottolinea «il senso di straniamento e disagio dei personaggi che mostrano di subire, senza speranza, un mondo che li opprime, mortificando la libertà e soffocando l’unicità e la personalità individuale, in vista di una ampia, omogenea realtà massificata e senza anima» (Enzo De Paoli).

Ivrea, 26 novembre 2020

Franco Di Giorgi

 

25 novembre 2020

L’attualità del pensiero di Gramsci

 Intervengono Sergio Dalmasso e Giordano Bruschi.

Moderatrice Cecilia Balbi.

Intervento iniziale di Pino Cosentino.

Locandina Attualità del pensiero di Gramsci

L’Attualità del pensiero di Gramsci, temi del primo incontro:

“Vita e opere di Gramsci” con Sergio Dalmasso

“L’incontro con Gramsci della generazione della resistenza” con Giordano Bruschi

Video su L’attualità del pensiero di Gramsci:

Ciclo di incontri promosso da APS Consorzio Zenzero, Attac Genova, ANPI Sezione Genova S. Fruttuoso, Goodmorning Genova, Il Ce.Sto.

Primo incontro, martedì 20 ottobre 2020.

In diretta dal circolo ARCI Zenzero di Genova.

“Vita e opere di Gramsci” con Sergio Dalmasso storico del movimento operaio.
“L’incontro con Gramsci della generazione della resistenza” con Giordano Bruschi Partigiano e insignito della medaglia il Grifo d’oro massima onorificenza della città di Genova

Introduce Cecilia Balbi del Circolo Zenzero.

Tecnico audio Stefano Gualtieri

Tecnico video Dimitri Colombo

Conferenza trasmessa in diretta streaming il 20 ottobre 2020 su Facebook da Goodmorning Genova.

“Il consiglio comunale di Genova, minoranza e maggioranza – esclusi i consiglieri di Fratelli D’Italia che hanno deciso di votare contro – ha detto sì alla proposta di assegnare il Grifo d’Oro, massima onorificenza cittadina, a Giordano Bruschi.

Il partigiano “Giotto”, che presto compirà 95 anni, è conosciuto come memoria storica della resistenza e del novecento genovese, ma anche per la sua esperienza politica, sempre a sinistra, nel Pci, per cui fu consigliere comunale, e poi come scrittore, ambientalista e come anima dei comitati della Val Bisagno.

Sull’assegnazione del Grifo a Bruschi il plauso della Camera del Lavoro di Genova e del segretario Igor Magni.

Magni: “Grande soddisfazione per questo importante riconoscimento a Bruschi che con il suo impegno di militanza, esercitato sempre, anche nei momenti più difficili, rappresenta un esempio per tutti noi.

Un abbraccio fraterno da tutte e tutti noi della Cgil di Genova”. ”

Scuola Costituzione

L’IDEA DI SCUOLA NELLO SPIRITO DELLA COSTITUZIONE

Franco Di Giorgi

Scuola e Costituzione articolo di Franco Di Giorgi

La scuola viene generalmente considerata come una fonte inesauribile di acqua alla quale, simili a otri vuoti o ad agnelli guidati da pastori istruiti, gli studenti vengono per un certo tempo a riempirsi o a colmare la loro potenziale sete di sapere.

A distanza di qualche anno dall’insegnamento mi rendo conto però che l’avevo sempre praticata diversamente, cioè al contrario.

Ho sempre insegnato infatti nella convinzione che l’aula di una scuola fosse una conca vuota situata al centro di un’arida agorà, libera e aperta a tutti e ad ogni discussione, una sorta di bacino verso il quale studenti e docenti confluissero ogni giorno per riempirla con la propria acqua, ognuno con le proprie energie intellettuali, con i propri flussi vitali, coi i propri vissuti.

In tal modo, ciascuno, come si dice, portava acqua al mulino della scuola, dissetandosi vicendevolmente con la medesima acqua, scambiandosi talvolta i bicchieri l’uno con l’altro,

acqua che nel tempo la scuola stessa distribuiva a tutti i futuri alunni e insegnanti sotto forma di esperienza didattica, competenza metodologica, ricchezza pedagogica e culturale.

Ma questo diverso modo di intendere e di praticare la scuola, non rispecchia forse l’idea che sta alla base della nostra Costituzione?

Ogni cittadino della nostra Repubblica, volutamente democratica e proprio in quanto democratica, non è forse esortato da questa Carta ad adempiere il dovere etico e quindi civico di recare allo Stato, secondo il principio della proporzionalità,

il suo personale contributo sia come esborso sia come impegno che come partecipazione attiva, diretta o indiretta, alla cosa pubblica, e ciò all’unico scopo di mettere lo Stato in grado di redistribuire questi beni, acquisiti dal senso del dovere, sotto forma di diritti?

Pertanto, se oggi, in questo aspro e lungo periodo di pandemia, in attesa del vaccino salvifico e del Recovery Fund, la scuola più che un comune abbeveratoio culturale si rivela purtroppo in una delle sue funzioni più criticate,

cioè quella di Recovery Place, ciò non deve indignare oltremodo, almeno o soprattutto in questo momento, poiché, pur determinando in parte un inevitabile aumento dei contagi, essa va incontro alle esigenze delle famiglie,

il cui lavoro, come sappiamo, è fondamentale e quindi indispensabile sia per esse, affinché possano dare il loro doveroso contributo allo Stato, sia alla stessa Repubblica, affinché possa redistribuirli ai cittadini in forma di diritti.

Non per nulla, infatti, il lavoro compare già al primo fra gli articoli fondamentali della Costituzione.

Sicché, come ogni studente e ogni docente, al di là di ogni programma e programmazione, ha il dovere di apportare nella propria classe il proprio singolare e personale contributo spirituale, così, in quanto facente parte di uno Stato, ogni cittadino, all’interno del comune di appartenenza, acquisisce e matura diritti di cui può godere solo dopo aver adempiuto al proprio dovere.

IVREA, 10 ottobre 2020

Franco Di Giorgi docente di storia e filosofia

Ciao compagni

La ricchezza delle nostri grandi storie

 

Due giorni fa ci ha lasciati Giuseppe PRESTIPINO, 98 anni, filosofo e militante politico.

Lo avevo conosciuto nell’ultima fase di DP e rivisto in Rifondazione.

Persona profonda, umile, disponibile alla discussione e all’ascolto.

Ieri notte, se ne è andata Rossana ROSSANDA, 96 anni.

Il Manifesto è stata la mia prima formazione politica.

Ricordo la prima riunione, a Genova, in via S. Lorenzo, con Manlio Calegari, Giacomo Casarino, Franco Carlini, Fernanda La Camera, Arcadio Nacini…, le prime riunioni nazionali, a Roma (luglio ’70), a Firenze (settembre ’70).

L’emozione nel vedere Pintor, Natoli, Caprara, Magri, Castellina, Rossanda, tant* giovani.

Le analisi di Rossanda erano profonde e documentate, anche se la fase la portava ad un eccessivo ottimismo (Italia e Francia) e ad un giudizio acritico sulla rivoluzione culturale cinese.

L’ho seguita in tutti questi anni: un comunismo non dogmatico, capace di comprendere il femminismo, l’ecologia politica, le trasformazioni con una lettura marxista assente nei tanti ortodossi che avevano bollato lei e il Manifesto con accuse infamanti, purtroppo veicolate da tant* militanti in buona fede.

Ricordate il “Chi vi paga?”.

“La ragazza del secolo scorso” è una biografia eccezionale, almeno nella prima parte anche capolavoro letterario.

Ciao Compagni. La ragazza del secolo scorso Rossana Rossanda

L’ho incontrata molte volte, ma una sola volta ho parlato a lungo con lei.

Dovevo scrivere un testo sulle origini del Manifesto (rivista, gruppo politico) e cercavo di comprendere le radici della sinistra “ingraiana” (11° congresso).

Lei accentuava il valore della alternativa della sinistra ingraiana, della battaglia per “linee interne”.

Io, forse schematizzando, insistevo sui limiti di questa.

Aveva chiuso in modo un po’ brusco dicendo: “Se non scriveremo noi di questi temi, non lo farà nessuno“.

In una realtà politico-culturale fatta di slogans, di assenza di analisi (strutturali e non), era capace, ogni volta, di richiamarci a principi basilari, ad una analisi marxista della realtà, oggi considerata inutile ed abbandonata anche da chi si considerava “ortodosso”.

La sua morte ci richiama alla mente oltre mezzo secolo del nostro impegno, delle nostre organizzazioni, delle nostre sconfitte frontali.

E’ triste pensare a chi se ne va per sempre, ma anche al fatto che la politica, di oggi e non solo, sia opera di nani, privi di formazione e che la ricchezza delle grandi storie che abbiamo alle spalle stia scomparendo.

 

Sergio Dalmasso
Genova, 20 settembre 2020