Rosa Luxemburg una donna chiamata rivoluzione

Lara Piccardo e Sergio Dalmasso a Genova

 

ATTAC.

Il 15 gennaio 1919 veniva assassinata a Berlino Rosa Luxemburg, il suo esempio e la sua opera offrono ancora materia di riflessione.

Ne parliamo con Lara Piccardo, docente presso Scienze Politiche – Università di Genova, e Sergio Dalmasso, autore di Una donna chiamata rivoluzione. Vita e opere di R. L., martedì 19 novembre alle 17.45 presso il Circolo Zenzero, Via Giovanni Torti 35 a Genova.

Rosa Luxembug. Lara Piccardo e Sergio Dalmasso a Genova

Copertina libro Rosa Luxemburg di Sergio Dalmasso

Attività editoriale di Lara Piccardo

Vicedirettore della rivista «De Europa», dal dicembre 2017.

Membro del comitato scientifico ed editoriale dell’«InternationalDemocracy Watch» del Centro Studi sul Federalismo di Moncalieri (Torino), http://www.internationaldemocracywatch.org/index.php, dal 1 aprile 2010.

Inoltre membro del comitato scientifico ed editoriale della rivista «Pespectives on Federalism» del Centro Studi sul Federalismo di Moncalieri (Torino), http://www.on-federalism.eu/index.php, dal 1 aprile 2008 al 31 dicembre2017.

Membro del comitato scientifico ed editoriale della rivista «BibliographicalBulletin on Federalism» del Centro Studi sul Federalismo di Moncalieri (Torino), http://www.federalism-bulletin.eu/User/, dal 1 aprile 2008 al 31 dicembre 2017.

Membro del comitato di redazione della rivista «DIREonline, rivista del Dipartimento di Ricerche Europee», dal 1° giugno 2003 al 30 giugno 2009.

Altre attività professionali

Componente della Commissione paritetica della Scuola di Scienze Sociali per la didattica e il diritto allo studio (CPS) dell’Università degli Studi di Genova per il biennio accademico 2017/2019 per il Corso di laurea magistrale in Scienze Internazionali e della Cooperazione.

Docente referente per il Corso di laurea magistrale in Scienze Internazionali e della Cooperazione dell’Università degli Studi di Genova.

Inoltre membro segretario della Commissione Cultori di materia Dipartimento di Scienze Politiche dall’a.a. 2015-2016 all’a.a. 2016-2017.

Membro della Commissione AQ del Dipartimento di Scienze Politiche dall’a.a. 2013-2014 all’a.a. 2015-16.

Membro della Commissione AVA del Dipartimento di Scienze Politiche dall’a.a. 2013-2014 all’a.a. 2015-2016

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Anti-illuminismo della destra italiana

Figure come la giovane Anne Frank e l’anziana senatrice Liliana Segre vengono derise e offese dai sostenitori, noti e ignoti, della destra italiana.

Anti-illuminismo della destra italiana. Liliana Segre con il padre

Figure come la giovane Anne Frank e l’anziana senatrice Liliana Segre vengono derise e offese dai sostenitori, noti e ignoti, della destra italiana non già e non tanto per se stesse, per quello che sono, cioè come vittime della Shoah, ma per quello che esse rappresentano, ossia per la loro ebraicità.

È questo l’aspetto più inquietante della questione, perché ancora una volta, nonostante la dura lezione del recente passato, si indulge a prendersela non con le persone, con i singoli individui, bensì con la loro presunta razza.

Da questo atteggiamento platealmente razzista, si desume che il fondamento della destra italiana, benché non lo si dica ancora apertamente, è rimasto immodificato: è rimasto cioè nostalgicamente fascista, perché continua ad opporsi a uno dei principi dell’Illuminismo, a uno dei cardini dell’etica kantiana, che dice di

trattare le persone sempre come un fine e mai come un mezzo.

Ebbene, umiliando e sfregiando l’immagine simbolica di quelle due persone, la destra fascista italiana non fa altro che usarla come mezzo per ribadire ancora una volta, dopo quasi un secolo dalla marcia su Roma, che il progetto illuminista e internazionalista, filocomunista e filoebraico, insomma il programma democratico che la sinistra, assieme alle altre forze antifasciste, ha voluto attuare in Italia con la sua bella Costituzione democratica e repubblicana, è e resta un progetto sbagliato.

E ciò, secondo questa destra, esprime un giudizio che, nonostante i contorcimenti istituzionali sempre più difficoltosi e i giochi di palazzo, gli Italiani confermano quasi ad ogni turno elettorale.

Sarebbe pertanto auspicabile e legittimo per questa destra restaurare il progetto antitetico ad esso, ossia quello sovranista e neonazionalista, populista e neofascista, e quindi antidemocratico.

In tutto il mondo, peraltro, a partire dalle vecchie e dalle nuove superpotenze, non mancano i modelli a cui ispirarsi e da cui, sfruttando la naturale dialettica tra esse, ottenere eventuali sostegni concreti.

Ma per tornare al nostro strano Paese, che, da par suo, saprà certo plasmarsi un modello ad esso adeguato, magari sulla falsa riga del suo vecchio prototipo, l’auspicio è che questa nuova e probabile alleanza, questo nuovo asse, al quale orgogliosamente i sovranisti italiani credono di appartenere, non generi gli stessi risultati disastrosi che ha innegabilmente prodotto il precedente asse, sia sul piano militare che su quello economico.

La domanda pertanto è: vogliamo di nuovo diabolicamente ricadere nello stesso errore?

Se la risposta è sì, sappiamo già perlomeno quello che ci attende. Ma se la risposta è no, allora una sola cosa sembra ci resti da fare per salvarci da questa possibile sciagura – Kant, l’illuminista, l’autore del saggio sulla Pace perpetua, il filosofo il cui intero arco di vita è stato contrassegnato da continue guerre, lo sapeva bene: insistere sulla cultura.

Perché solo cittadini privi di memoria storica, di senso critico e di sensibilità possono assecondare propensioni miopi come quella stimolata ad arte dalla solita destra italiana fascista e velleitaria.

Se la nostra risposta è no, allora tra le priorità di governo, crisi o non crisi, ci deve essere assolutamente il sostegno all’istruzione e alla cultura.

Giacché solo la cultura ci può salvare da questo putridume, da questa china arida e scivolosa.

Franco Di Giorgi

1 novembre 2019

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Addio don Eugenio Melandri

Don Eugenio Melandri prete comunista

don Eugenio Melandri

Leggo dall’amico Alfio Nicotra la tragica notizia della morte di Eugenio Melandri.

Ho conosciuto questo missionario, mio coetaneo, nel movimento per la pace, a fine anni ’80.

Nel 1989 , scelse, per il parlamento europeo la candidatura in Democrazia Proletaria perché eravamo “i più poveracci”.

Fu (unico) eletto.

Nei suoi interventi vi era un intreccio di lettura sociale del Vangelo, socialismo popolare della sua terra (Emilia Romagna, era nato a Brisighella in provincia di Ravenna), passionalità, sdegno per i mali del mondo e per l’egoismo (anni ’80) imperante.

Fummo lieti ed onorati di conoscerlo, di ospitarlo, di dialogare con lui.

Attivissimo sulle grandi questioni internazionali, America latina, guerre, Africa, contro i blocchi economici, contro le politiche militariste, le discriminazioni.

Nel ’92, Rifondazione lo elesse deputato, ma, causa doppio incarico, si dimise dopo poche settimane.

Nel ’94, fu il primo escluso nelle nuove elezioni europee e continuo a credere (allora fui ritenuto politicamente scorretto) che Rifondazione non si comportò bene con lui.

Lavorò sui temi dell’Africa, delle migrazioni, del rapporto Nord/Sud.

Venne a Cuneo, nel 2002, in un incontro della mia sfortunata campagna per le comunali (prevalse il “voto utile”).

Negli ultimi anni, il tumore (il drago), affrontato con grande coraggio, sofferenze fisiche e morali, certezza di sconfiggerlo.

Negli ultimi giorni, la gioia per il ritorno a “celebrare la messa” da cui era stato sospeso per la sua candidatura in DP, forse anche la convinzione di avere superato la malattia e di poter tornare ai suoi impegni (a cominciare dalla rivista sulla quale scriveva).

Pochi giorni fa, uno scritto di Maurizio Acerbo condivideva la gioia per il suo “dire messa” e proponeva un convegno presso i missionari saveriani.

Speravo fosse un segno positivo.

Oggi la notizia della morte.

Ricordo i dibattiti con lui, le visite alle carceri, l’incontro alla viglia della prima sciagurata guerra del golfo, i suoi messaggi, su facebook, in cui dava conto della malattia.

Un laico convinto come me ha tanto imparato da Girardi, don Mazzi, La Valle.

Anche dal mio amico Eugenio Melandri e dalla sua splendida testimonianza di vita.

Sergio Dalmasso
27 ottobre 2019

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Articolo dell’Avvenire, 29 ottobre 2019, per ricordare Eugenio Melandri

Anne Frank

Alberto Cavaglion presenta il libro

“Anne Frank. Diario. Le stesure originali”

Mondadori

Oltre all’autore interviene FRANCO DI GIORGI, già professore di Storia e Filosofia presso il Liceo Scientifico “A Gramsci” di Ivrea.

Mondadori Bookstore – Ivrea Freguglia

PIAZZA FREGUGLIA, 13

10015 , IVREA (TO)

Venerdì, 18 Ottobre 2019 ore 21.00 – 23.00

28 marzo 1944. Il governo olandese in esilio lancia via radio un appello ai connazionali perché conservino ogni testimonianza utile a raccontare ciò che sta accadendo nei Paesi Bassi occupati dai nazisti.

Ad ascoltarlo c’è un’adolescente ebrea che vive ad Amsterdam in un nascondiglio.

Da grande vuole fare la giornalista o la scrittrice, e da circa due anni tiene un diario: un testo intimo, destinato solo a sé.

Ma a partire da quel giorno la “bambina di Amsterdam” si dedica consapevolmente a riscrivere il diario, proprio per conferirgli quel valore eterno.

Preziosa fonte storiografica e precoce laboratorio di scrittura, il Diario, nella sua duplice redazione (A e B), mette in luce tutta la valenza umana e letteraria di un «libro composto sul confine dell’abisso».

A partire dal mese di Gennaio 2019, finalmente anche in Italia esce per le edizioni Mondadori la duplice redazione delle stesure originali del Diario, curata e magistralmente introdotta da Alberto Cavaglion.

L’incontro è organizzato in collaborazione con A.N.P.I. IVREA E BASSO CANAVESE

ALBERTO CAVAGLION, Laureatosi in lettere e filosofia all’Università di Torino nel 1982, fu dal 1982 al 1984 borsista dell’Istituto italiano per gli studi storici e della Fondazione Luigi Einaudi.

Studioso dell’ebraismo, insegna all’Università di Firenze. È membro del comitato di redazione de “L’indice dei libri del mese” e dal 2012 del comitato scientifico dell’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia.

Ha curato edizioni commentate delle lettere di Felice Momigliano a Giuseppe Prezzolini (Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1984) e a Benedetto Croce (“Nuova Antologia”, n. 2156, ottobre-dicembre 1985, pp. 209–226) e di Se questo è un uomo di Primo Levi (Torino : Einaudi, 2000; n. ed. 2012); l’edizione italiana del Dizionario dell’Olocausto (Torino, Einaudi, 2004), gli Scritti novecenteschi di Piero Treves (con Sandro Gerbi, Bologna, Il Mulino, 2006), e gli Scritti civili di Massimo Mila (Milano, Il Saggiatore, 2011).

Un cordiale invito a tutti!

ALDO NATOLI

Un comunista senza partito

Ella BAFFONI, Peter KAMMERER, Aldo Natoli, un comunista senza partito, Roma, ed dell’asino, 2019.

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Libro su Aldo Natoli

Scheda di Sergio Dalmasso scritta per la rivista dell’Istituto storico di Cuneo “Il presente e la storia”.

Il testo di Baffoni e Kammerer ha il grande merito di riportare alla luce la figura di Aldo Natoli, su cui, non solamente dopo la morte (2010) è scesa una sorta di damnatio memoriae, per la sua partecipazione all’eresia del “manifesto” ed anche per le posizioni storiografiche spesso eterodosse.

Il libro è diviso in tre parti: una sintetica biografia, la raccolta di numerose testimonianze, una intervista allo stesso Natoli in cui questi ripercorre alcune tappe della propria vita.

Natoli nasce a Messina nel 1913. Vive i primi anni nelle baracche costruite dopo il tremendo terremoto che ha distrutto la città. Il padre, laureato in lettere antiche alla Normale di Pisa, insegna, per scelta pedagogica, alle medie inferiori.

Aldo si laurea in medicina, è interessato alla ricerca scientifica e nel 1939 viene inviato all’Istituto per il cancro di Parigi.

Qui entra in contatto con i comunisti in esilio e inizia una attività di tramite fra la centrale all’estero del PCI e “l’interno”, anche grazie al fratello maggiore Glauco, lettore all’università di Strasburgo. Fra le amicizie, Paolo Bufalini, Lucio e Laura Lombardo Radice, Bruno Sanguinetti, la futura moglie Mirella De Carolis.

Il 21 dicembre 1939 è arrestato e condannato a cinque anni (due saranno condonati).

Il carcere di Civitavecchia è per lui “scuola di comunismo” e di incontro con la classe operaia.

E’ liberato (amnistia) nel dicembre 1942,

arruolato nell’esercito e dal settembre 1943 lavora all’edizione clandestina dell’”Unità”.

Dopo la liberazione di Roma, è dirigente della federazione del PCI (segretario dal 1946 al 1954), consigliere comunale, parlamentare dal 1948 al 1972.

Gli autori sottolineano l’impegno di Natoli verso le periferie della città, i quartieri rossi e poveri, di borgate e borghetti, l’interesse, spesso non compreso nel partito,

per il sottoproletariato (significativo il dibattito su Una vita violenta di Pasolini), ma soprattutto la battaglia contro la speculazione edilizia, il sacco di Roma,

alla base della campagna condotta dall’”Espresso” Capitale corrotta, nazione infetta.

E’ un impegno che forse avrebbe salvato la città, in mano ai “palazzinari”, da colate di cemento, ma che – sostiene Natoli nella testimonianza- non è fatta propria interamente neppure dal PCI che la segue con sufficienza e la ritiene secondaria rispetto ad altre.

Inizia un nuovo campo di attività e diviene il vice di Luigi Longo alla sezione lavoro di massa.

Sono gli anni delle grandi trasformazioni strutturali del paese e delle condizioni di lavoro, della sconfitta della CGIL alla FIAT, della biblica migrazione interna,

del dibattito sul neocapitalismo, ma anche delle domande sullo stalinismo, sull’URSS, dopo il XX congresso dei comunisti sovietici, gli scioperi in Polonia e la rivolta ungherese.

Natoli, che ha accettato i processi di Mosca negli anni ’30 e il patto sovietico/tedesco, nella fedeltà al partito come unico strumento per agire, esprime i primi dubbi, le prime critiche, “da destra”, quasi in consonanza con Antonio Giolitti, di cui, però, non segue il percorso.

Diverso è invece il giudizio sulla realtà italiana e sulla necessità di una diversa strategia.

Questo lo avvicina ad Ingrao e alla battaglia, sconfitta frontalmente, che questi tenta nell’XI congresso del PCI (1966).

La sinistra interna è emarginata, perde ogni ruolo nell’organigramma del partito.

Nel 1969, un piccolo gruppo di ingraiani (senza il leader) riprende molti dei temi e delle proposte,

facendo leva sull’esplosione del movimento del ’68, della spinta studentesca ed operaia, sul radicalizzarsi della situazione internazionale (Cina, Vietnam, America latina).

Nasce (giugno) la rivista “il manifesto” che produce la radiazione dei suoi redattori (Rossanda, Pintor, Caprara, Magri …).

E’ Natoli, nel comitato centrale che vota, quasi all’unanimità, il provvedimento, a pronunciare un lungo intervento in cui ribadisce le posizioni del gruppo e che si chiude sostenendo che si può essere comunisti anche al di fuori del partito.

Inizia un nuovo percorso, ma anche qui si accumulano le contraddizioni.

Natoli riferisce di scontri con Magri che chiede strette organizzative, mentre sarebbe più utile un lavoro di lunga lena, a tempi più lunghi, senza una precisa definizione partitica.

E’, quindi, contrario al breve rapporto con Potere operaio, alla partecipazione alle elezioni (1972),

alla costruzione di un piccolo partito, anche alle scelte successive sino alle liste con Lotta Continua nel 1976,

all’identificazione fra il quotidiano “il manifesto” e una organizzazione politica.

Termina qui, in questi anni che il libro racconta in modo eccessivamente affrettato, la militanza di partito ed inizia una intensa, anche se poco nota, attività culturale.

Partecipa alle attività del circolo culturale di Montesacro, formato soprattutto da giovani che, tra il 1969 e il 1970,

hanno lasciato il PCI e collabora con l’Istituto di filosofia dell’università di Urbino con corsi, seminari e convegni (Mao, Marx, lo stalinismo…).

Molti i suoi libri; nel 1971, pubblica La linea di Mao. Spontaneità e direzione nella rivoluzione culturale cinese, con Lisa Foa (Bari , De Donato, 1971), nel 1979 Sulle origini dello stalinismo, saggio popolare (Firenze, Vallecchi),

oggi datato, ma testimonianza del grande lavoro fatto per comprendere l’origine di tanti scacchi della sinistra.

L’interesse per Gramsci e dimostrato dall’innovativo Antigone e il prigioniero.

Tania Schucht lotta per la vita di Gramsci (Roma, ed. Riuniti, 1991) in cui “scopre” la figura della sorella della moglie di Gramsci,

Tatiana Schucht, la persona che più ha seguito il carcerato in tutto il suo percorso.

Natoli è il primo a pubblicare con Gramsci- Tatiana Schucht, Lettere 1926-1935, non solo le lettere di Gramsci, ma anche quelle della cognata,

per decenni ignorate, ricomponendo – nella sua interezza – un dialogo sino ad allora sconosciuto.

L’ultimo testo esce nel 2013, tre anni dopo la sua morte, ed è un dialogo, con un altro grande della sinistra, Vittorio Foa, bilancio di una vita, Dialogo sull’antifascismo. Il PCI e l’Italia repubblicana, (Roma, Editori Riuniti University Press).

Le testimonianze presentano tanti volti, anche familiari e privati, di Natoli, letti da persone di età ed esperienza politica diversa (tra gli altri Sandro Portelli, Rossana Rossanda, Enzo Collotti, Celeste Ingrao).

Nessuna ha, però, la bellezza di una vecchia intervista, curata da Sandro Portelli per “i giorni cantati” che si chiude con un episodio toccante.

Natoli prende un tram verso la stazione Termini, un tranviere lo riconosce e gli chiede: “Aldo che cosa fai?”; “Sono un comunista senza partito.”; “Anch’io”.

Foto di Aldo Natoli

Aldo Natoli

Vergognosa TV di “Stato”

Mercoledì 25 settembre, ore 21.

Vergognosa. “Dibattito” (termine improprio) sulla recente risoluzione del parlamento europeo di equiparazione del nazismo al comunismo.

Breve servizio introduttivo: solo in Italia vi è polemica sulla risoluzione da parte della sinistra che pure la ha votata (???).

La professoressa Colarizi, memore della sua formazione defeliciana, la difende.

Insiste sul patto Molotov- Ribbentrop come causa del conflitto.

Va più in là Gervasoni: nazismo e comunismo sono totalitarismi, diverso il fascismo.

Solito comizio contro l’egemonia culturale della sinistra e il fatto che sia incapace di criticare i suoi errori.

Il vice direttore de “La verità” se la prende con i libri di storia faziosi.

Un minuto a due brevi dichiarazioni registrate di Smeriglio e Canfora, immediatamente contraddetti e criticati dai presenti in studio.

Questo è il dibattito storico della nostra TV, retta da un direttore (Marcello Foa) voluto dallo ‘splendido’ governo Lega 5 stelle.

Queste le verità che vengono proposte a milioni di persone senza che neppure, nel “confronto” vi siano tesi alternative.

Non una parola sul comunismo italiano (Gramsci, Terracini), sullo “strappo” di Berlinguer, sulla tesi di chi distingue fra comunismo e stalinismo, su eresie comuniste che della critica al socialismo realizzato e del rapporto libertà/socialismo hanno fatto la loro base.

Ignobile TV di regime che dà spazio alle lodi del poeta/soldato (Gabriele D’Annunzio) che 100 anni fa difendeva l’italianità.

Ancora una volta paghiamo l’incapacità di una lettura alternativa, critica, ma non tale da cancellare le nostre storie.

Rifondazione era nata anche per questo. La nostra sconfitta produce anche questi orrori.

Sergio Dalmasso

Veronica Perego

In foto, Veronica Perego

La malattia di Alzheimer

 

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SALVARE DALL’OBLIO E DALLA MEMORIA

di Franco Di Giorgi

La Malattia di Alzheimer

1  . Una delle categorie kantiane fondamentali della ragione pura è la relazione. E ciò non solo dal punto di vista logico-trascendentale, ma anche da quello ontologico e neurologico. Quando, infatti, nel suo primo saggio, ossia nella sua tesi di laurea (La malattia di Alzheimer: percezione del tempo e memoria. Riflessioni tra neurologia e filosofia, Caosfera 2019), Veronica Perego ribadisce che compito della moderna neurontologia è «rintracciare nell’ontologia cerebrale l’origine delle strutture del pensiero consapevole» (p. 5), con ciò implicitamente intende riprendere la lezione di Aristotele, secondo cui la filosofia è la scienza che ricerca le cause dell’essere. Che cosa vuol dire infatti «rintracciare nell’ontologia cerebrale l’origine delle strutture del pensiero consapevole», se non, appunto, ricercare le cause materiali dell’essere? E l’ontos cerebrale, il cervello, vale a dire, appunto, la materia grigia, è certamente la sostanza in cui è possibile reperire le strutture della mens, della mente, come pure della mnemé, della memoria, e quindi del pensiero consapevole. Una di queste strutture della mens risiede proprio nella categoria kantiana di relazione, la quale, non a caso, corrisponde a una delle dieci categorie aristoteliche alle quali il pensatore di Könisberg ha applicato il suo ordine prussiano. Sicché, pure dal punto di vista neurontologico la relazione si può considerare non solo una condizione trascendentale della possibilità del conoscere, ma anche una condizione fisiologica, se non addirittura istologica di quella medesima possibilità.

Il rapporto fondamentale di causa-effetto, su cui si fonda l’intera impalcatura della logica, della scienza e quindi dell’epistemologia, rientra ovviamente nella categoria di relazione, giacché esiste un legame dialetticamente intrinseco tra i due elementi. Non si può considerare logicamente l’uno senza presuppore neuro-logicamente anche l’altro. E poiché quel legame, quella relazione si produce a livello inconscio, cioè a priori, si può parlare in riferimento a questa categoria di una trascendentalità fisica o fisio-logica. Compito della filosofia sarà di coglierla a livello logico-trascendentale, mentre compito della scienza neurologica sarà di rilevarla a livello fisico-trascendentale o fisio-logica.

Dato, ad esempio, un effetto B, ogni forma di scienza, e quindi la filosofia (che per lo Stagirita è la regina di tutte le scienze), è necessitata a ricercarne il motivo, il motus originario, la causa A. Bisogna dunque risalire da B ad A. Questo movimento del risalimento è anche quello che i neurologi colgono tra le cellule neuronali in presenta di un segnale, di uno stimolo. C’è d’altronde un percorso che questo segnale deve compiere da un punto B (le cellule nervose stimolate in una particolare zona del cervello) a un punto A (il tendine del ginocchio stimolate da un martellino). In quanto elementi a priori, né il percorso compiuto dal segnale né tanto meno la struttura dell’intero sistema nervoso dipendono ovviamente dalla volontà dell’uomo, il quale altro non è, come diceva già Marco Aurelio, che l’insieme, la risultante delle molteplici sinergie relative ai vari sistemi e ai diversi organi che lo costituiscono. La sinergia è quella che si instaura enigmaticamente tra le finalità e le funzionalità sia degli organi sia dei sistemi stessi cui essi mettono capo. Quello che si avverte a livello cerebrale, neuronale o della mens non è altro che la conseguenza, l’effetto di una causa che si verifica a livello fisico o sensoriale. L’intero movimento ha quindi una realtà psico-fisica. E così pure l’essere umano nella sua essenza è inscindibilmente una realtà duale, una realtà psico-fisica.

Ciò significa che questo movimento, questa cor-relazione tra la causa tattile e l’effetto neuronico, avviene in un certo tempo (oggi misurabile grazie a Luigi Galvani, il quale, tra l’altro, comincia i suoi esperimenti con le rane proprio nell’anno in cui esce la prima edizione della Critica della ragion pura, cioè il 1781), determinando così una temporalità, un prima e un dopo. Ma nella Fisica Aristotele aveva già intuito che il tempo, il chrónos, è la misura del movimento secondo il prima e il dopo: una misura, un metrón, che ha la sua condizione nell’anima e quindi nell’intelletto, il quale funziona grazie alle dieci categorie, tra cui, appunto, la relazione, forse la più importante dopo quella di sostanza.

La realtà psico-fisica dell’uomo si evince pertanto anche dal fatto che non si dà misurato – non solo il movimento oggettivo ed esterno, secondo il prima e il poi spaziale, ma anche il movimento interno secondo il prima e il poi temporale – senza misurante – non solo soggettivo ed interno (l’anima), ma anche oggettivo ed esterno (il corpo) – , e reciprocamente non si dà misurante (anima-corpo) senza misurato (movimento esterno e interno, spazio-temporale). Non si dà misura e quindi tempo, senza movimento, cioè distanza spaziale tra causa ed effetto. La memorizzazione psicofisiologica, vale a dire l’apriorizzazione del tutto inconscia e quindi trascendentale di questa durata, crea al contempo un’attesa strutturale.

Sicché, a fronte del dato sensorio in A, mi attendo che, sebbene in un tempo minimo e impercettibile, si verifichi l’avvertimento neuronico, la presa di coscienza in B. Diciamo “si verifichi” non a caso, perché è proprio in virtù di questa attesa minimale e irrilevante che noi avanziamo una qualche pretesa di verità in questo rapporto, in questa relazione temporale e spaziale. Ne viene che vero sarà solo quell’effetto che ha avuto quella precisa causa; vera è l’adaequatio mens et stimulus, la corrispondenza dell’effetto neuronico a quella causa sensoria, alla sua precisa causa. Vista quindi la natura intimamente psico-fisica dell’uomo, non sembrerebbe peraltro corretto parlare di effetto mentale (coscienza del dolore) “distante” dalla causa fisica (dolore fisico), in quanto ogni minima parte del corpo umano è innervato. Eppure una distanza fisico-corporea ad esempio tra il ginocchio e il cervello di fatto esiste, perché è solo qui, nella mens (e non nel sensus) che, sebbene dopo un tempo minimo, cioè al di sotto della soglia di percezione, si prende coscienza del dolore fisico (sensus doloris). Tuttavia è proprio su “esperienze” simili, su “esperienze di soglia” come il sensus doloris che si forma quel sensus communis, cioè il modo di pensare e di conoscere comune, il sentimento naturale.

La patologia dell’Alzheimer è una distorsione del funzionamento di queste strutture del pensiero (tempo, spazio, realtà del mondo); è una particolare forma incurabile di de-menza (mens, mente): una malattia che si presenta propriamente con disturbi della memoria (“tenere a mente”) e di conseguenza di orientamento nel tempo, nello spazio, nel rapporto con la realtà e con gli altri. È una alterazione non solo del Sein, dell’essere, ma anche del Mit-sein, del con-essere, per usare la terminologia heideggeriana fatta propria anche dall’antropologia esistenziale di Ludwig Binswanger.

Una delle principali cause di una tale malattia, secondo gli studiosi, risiede nella placche di una proteina (la beta amiloide) che si formano tra le sinapsi e che bloccano in tal modo il passaggio del segnale nervoso tra una cellula e l’altra. Ancorché dunque a livello cerebrale, la distanza tra B e A, tra causa ed effetto, tra un prima e un dopo, viene in tal modo di fatto annullata e con essa anche il senso della temporalità, della durata e dell’attesa, sicché il paziente sarà costretto a vivere nel presente tutto il passato e forse anche tutto il futuro. Si prefigura così un’esistenza isolata, un isolamento, a causa del quale difficile resta la relazione e la comunicazione con gli altri e con il mondo. Con questi pazienti vi potrà essere soltanto una comunicazione empatica ed emotiva, ma non logica e razionale. Un tale rapporto dovrà pertanto avere come unico fine il riconoscimento dell’esistenza della persona dell’ammalato. «L’esistenza di una persona – scrive infatti l’autrice – sembra essere legittimata solo se l’altro, l’alterità, la riconosce» (p. 120). E, almeno sotto questo aspetto, anche il racconto, la testimonianza di un sopravvissuto alla Vernichtung può essere legittimata solo se chi lo ascolta lo riconosce e vi crede.

2. A causa di questo sfasamento psico-fisiologico, nei malati di Alzheimer accade che il passato venga rivissuto nel presente come se fosse presente. Per essi il passato è il presente e il presente è il passato. A motivo di ciò si verifica in essi uno sdoppiamento dell’io, in quanto pur mantenendo l’io del presente, nel loro dire rievocano e rivivono anche quello del passato, del quale però l’io del presente resta prigioniero. L’io del presente rimane prigioniero dell’io passato. L’io maturo viene piegato dalle istanze dell’io giovanile.

A differenza dello sdoppiamento o della moltiplicazione degli io e quindi delle diverse identità di cui parla tra l’altro anche Proust nella Recherche, qui il soggetto paziente non può più tornare alla coscienza del presente, non può più fare ritorno nella casa del presente, ma resta imprigionato nella casa dell’io del passato. Da qui nasce il senso del suo smarrimento, della sua perdizione. Il suo malessere, inoltre, aumenta ancora di più perché il suo io-presente non riesce a realizzare nel presente quello che desidera il suo io-passato, essendo irrimediabilmente radicato nel suo passato. Egli vive il passato come fosse il presente e non si rende più conto della distanza temporale che esiste tra il passato e il presente. Fonde e confonde passato e presente. Marcel, certo, si mette alla ricerca del tempo perduto, ma poi, alla fine, rientra a casa. A causa di quella proteina, invece, al malato di Alzheimer, pur continuando a vivere nel presente, risulta impossibile riprendere i contatti con il mondo del presente. Egli risiede bensì fisicamente nell’hic, nel qui, ma non vive psichicamente nel nunc, nell’ora, perché il suo ora che vive nel presente appartiene irrimediabilmente al suo passato. O meglio: il malato vive temporalmente un suo ora-presente, nel quale però rivive de-menzialmente il suo ora-passato. Non si tratta pertanto di “nostalgia”, di doloroso desiderio di tornare al proprio passato, alla propria casa d’origine, ma di “topocronopatia”, di distorsione spazio-temporale e quindi anche di disagio esistenziale, quasi mai vissuto consapevolmente.

Oltre che dal modo in cui il passato viene vissuto da Marcel Proust, il rapporto di un malato di Alzheimer con il passato è anche diverso da quello che viene rivissuto da uno scampato alla Shoah. Il disagio vissuto dal malato di Alzheimer nasce dal non poter (se non demenzialmente) compiere nel presente ciò che avrebbe voluto fare in passato; il disagio vissuto da uno sopravvissuto ai Lager nazisti sorge invece dal non voler fare, dal non voler rivivere nel presente il trauma che ha subito in passato. Entrambi sono bensì intrappolati nel proprio passato e assoggettati a una coazione a ripeterlo, ma mentre il malato vorrebbe riviverlo, il sopravvissuto teme di doverlo rivivere. Come un vero e proprio martire, quest’ultimo è per di più lacerato dalla drammatica contraddizione tra il dover ricordare e il voler dimenticare, tra il dover-voler testimoniare e il non poter dimenticare pur volendo dimenticare. Per entrambi è come essere sempre “là”, in quel passato, in quel luogo della memoria, ma mentre in qualche misura il malato è contento di ritornarvi, il superstite, a causa della situazione traumatica subita, entra in angoscia nel momento stesso in cui qualcosa lo rievoca. Non solo: mentre per l’ammalato la memoria e il cosciente recupero della distanziazione e della differenziazione tra presente e passato rappresenta un’ancora di salvezza, perché gli consentirebbero di non venire dimenticato da sé e dagli altri, nel caso dei sopravvissuti è proprio il contrario, giacché la memoria del passato è sempre motivo di perdizione e di dolore. Tutti noi, poi, viviamo nel presente, ma siamo consapevoli della distanza temporale con il passato. Anche il malato di Alzheimer vive nel presente, ma diviene sempre meno consapevole di quella distanza. Insomma, in tutti e tre il passato naturalmente e per qualche motivo tende a ritornare, ma mentre la persona sana riesce a tenerlo in qualche modo razionalmente a distanza (nel senso che può anche rimuoverlo), il malato di Alzheimer, nel quale questa distanza viene meno, non potendolo quindi più rimuovere, lo accoglie inconsapevolmente, invece il sopravvissuto, dissolvendosi anche in lui quella distanza temporale e non potendo quindi nemmeno lui rimuovere quel passato, lo rivive drammaticamente, perché il suo contenuto è doloroso e lacerante.

3. Inoltre, se da un lato alla memoria è necessaria «la distanza temporale e l’equilibrio tra ciò che è ricordato e ciò che viene dimenticato» (p. 105), vale a dire l’equilibrio creato dalla selezione operata dalla memoria sull’intero materiale che essa continuamente immagazzina, all’oblio, dall’altro, è invece essenziale lo squilibrio tra quanto viene ricordato e quanto viene obliato. Perché la parte obliata della nostra vita è incomparabilmente maggiore di quella ricordata. E, per fortuna, di questo nostro singolare modo di essere umani, direbbe Nietzsche, siamo consapevoli solo rare volte, ma quando si verifica ci è davvero spaventoso, perché la memoria della nostra esistenza si riduce veramente a ben poca cosa, a pochissimi frammenti sfocati. Per nostra fortuna, infatti, non siamo come Ireneo Funes, perché possiamo ricordare solo qualche brandello distorto e fugace della nostra breve o lunga esistenza. L’uomo infatti può conoscere se stesso solo dalla minima parte, da quei pochi residui che permangono dei suoi ricordi, in virtù di quella selezione. Senza una tale selezione, e quindi senza il necessario oblio, non ci può pertanto essere conoscenza di sé. Ecco perché i vecchi saggi sentenziavano che “è difficile conoscere se stessi”.

Di noi stessi conosciamo solo una minima parte: quella che, diceva Proust, viene salvata dalla memoria volontaria. In continuità con la psicanalisi freudiana, lo scrittore francese aveva cercato di aumentare la conoscenza dell’uomo provando ad indagare letterariamente anche tutto quel temps perdu, tutti quei mille éléments de tendresse a lui stesso ignoti, insomma tutta quella parte maggioritaria di elementi che la mente vigile ha scartato e che la memoria involontaria ha conservato nel deposito senza fondo dell’inconscio. Di noi stessi, quindi, conosciamo soltanto una minima parte, e ciò nello stesso senso in cui sappiamo solo una esigua parte sia delle potenzialità del nostro cervello sia dell’intero cosmo. D’altra parte è altrettanto vero che sia l’abuso della memoria sia l’abuso dell’oblio, vale a dire sia l’avvicinamento continuo e l’allontanamento dall’evento del passato, inconsapevolmente o meno, producono la dissoluzione e la vanificazione del ricordo.

Ma è la selettività operata dalla memoria a delineare la personalità (p. 113) o è invece la personalità, la particolare sensibilità delle persone, ad attivare la selezione nella memoria? Giacché si può ipotizzare che sia proprio l’inconscio dell’individuo a stimolare la selettività della memoria. Si tratta forse di una scelta inconscia che determina una selezione inconscia nella memoria. Le parti da ricordare e quelle da eliminare vengono decise a livello inconscio. Nulla di volontario, in ogni caso. Sicché, se le cause della rievocazione dei ricordi possono essere conosciute, certamente quelle che determinano la selezione mnemonica restano del tutto inconsce e quindi ignote.

Pertanto, l’aver indugiato così a lungo sulla natura fisica e filosofica del tempo, specie nei capitoli centrali del saggio, non è stato affatto vano, perché è servito a ribadire e a farci capire meglio la relazione filosoficamente ed esistenzialmente assai rilevante e significativa tra il tempo e il modo in cui esso viene percepito non solo dai malati di Alzheimer sia, ma anche, proprio in virtù di questa malattia, dall’uomo in generale.

19 settembre 2019

Italia

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L’Italia tra continuità e discontinuità

di Franco Di Giorgi

Tutte le forze politiche italiane in campo oggi sostengono a viva voce che vogliono salvare il Paese dalla grave malattia che da troppi anni l’affligge e dalla quale non riesce a riaversi completamente.

Quelle forze sono tante quante sono le diagnosi e le relative cure.

Sta di fatto, però, che il malessere permane e nessuna di queste terapie si è dimostrata finora all’altezza della situazione, cioè adeguata ed efficace.

Il rischio di questa specie di accanimento terapeutico è di perdere definitivamente il Paese, paziente e confuso.

Troppe volte si è infatti indugiato irresponsabilmente attorno ai pilastri della Costituzione e ogni volta l’Italia tutta tremava nel temere che potesse verificarsi l’irreparabile.

Il fatto è che alle ultime e alla nuova generazione di politici è mancato e manca il senso della vera responsabilità, quella a cui essi stessi si appellavano al recente impegno elettorale: a quelle mancava perché volevano salvare il Paese sulla base del principio liberista “arricchitevi a tutti i costi”, pur non avendone le reali possibilità; a questa manca perché a tutti i costi vuole riparare i danni commessi da quegli altri, senza avere l’effettiva competenza politica.

Il risultato, che resta sotto gli occhi stupefatti di tutti, è che le condizioni del paziente, del Paese ammalato, si sono andate ulteriormente aggravando, non solo in termini di debito pubblico.

L’unica possibilità per salvarlo, si può ben dire l’ultima ratio, l’ultima chance, pare essere ora un consulto incrociato, una collaborazione terapeutica tra i medici: così infatti oggi sono percepiti i politici italiani, cioè come dei primari, ognuno dei quali ritiene di avere in tasca la terapia salvifica.

Solo che alla luce della realtà patologica ognuna di esse, malgrado le prime avvisaglie, si dimostra alla lunga insufficiente e infine peggiorativa.

Come al solito, tuttavia, anziché operare in maniera coordinata e collaborativa, si crea quello spirito competitivo che purtroppo ci appartiene, simile ad esempio a quello che prevalse tra i generali durante la prima guerra mondiale, il quale finì con il creare la disfatta.

Non siamo tuttavia a una nuova “Caporetto”, vale a dire nel nostro caso a un ‘auto-Caporetto”, ma poco ci manca.

A fronte dello stato semi-comatoso in cui purtroppo ci troviamo, alla paziente Italia non possono pertanto che far male i toni da ultimatum che qualcuno dei nuovi dottorini adotta.

Nel caso specifico si tratta peraltro di quello stesso medicuzzo che poco più di un anno e mezzo fa aveva addirittura avanzato l’idea di impeachment.

E, alla luce di quanto assistiamo, risulta del tutto evidente che così facendo si è perso solo del tempo prezioso, perché la formula chimica, il farmaco, la mistione, insomma l’alleanza che in questi giorni è stata proposta doveva già essere avanzata dopo l’esito del 4 marzo dell’anno scorso.

Allora questa formula venne scartata a causa della testardaggine di un altro medicuzzo livoroso, per via del rancore che ancora lo avvelenava dopo la sonora bocciatura a un esame referendario.

Il rischio è che tra i due litiganti possa goderne alla fine il terzo escluso, il quale pensava di proporre per il Paese la sua ricetta sovranista, e che ora si sta preparando da par suo a manifestare pubblicamente il suo netto dissenso a quella alleanza.

Tutto ciò per dire che in questa sterile e dannosa disputa tra continuità e discontinuità, il Paese corre davvero il rischio di rimanere pietrificato dalla sua cronica malattia, la quale si manifesta certo con la crisi della rappresentanza parlamentare, ma solo perché ha la sua infezione originaria nel generale e incontenibile desiderio di fascismo.

1 settembre 2019

Marcello Martini

In memoria di Marcello Martini

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In memoria di Marcello Martini

Franco Di Giorgi

 

Il 14 agosto si è spento a Castellamonte Marcello Martini, uno degli ultimi martiri e testimoni della Shoah, uno dei pochi sopravvissuti allo sterminio razionalmente programmato dal nazismo.

Nato 89 anni fa a Prato, figlio di un partigiano e staffetta partigiana egli stesso già all’età di 14 anni, venne catturato il 9 giugno del 1944 (era nato nel 1930).

Dapprima trasportato nel campo di smistamento italiano di Fossoli (vicino a Carpi), poi deportato in Austria, a Mauthausen (immatricolato col numero 76430), assegnato ai sotto-campi di Wiener Neustadt e di Hinterbrühl (nei dintorni di Vienna), conobbe e superò la terribile prova della marcia della morte (250 km in 7 giorni) e fu infine liberato dalle truppe americane il 5 maggio 1945.

La sua testimonianza si trova raccolta in Un adolescente in Lager. Ciò che gli occhi tuoi hanno visto (Giuntina, 2007).

Tre mesi fa, in occasione dell’incontro per la cittadinanza onoraria che l’amministrazione dello stesso comune canavesano di Castellamonte (nel quale risiedeva da circa cinquant’anni) ha voluto conferirgli (cfr. il nostro articolo: https://www.sergiodalmasso.com/09/05/2019/cittadinanza-onoraria-martini/), dopo aver avvertito i numerosi giovani (sempre presenti alle sue testimonianze) della pericolosità insita nell’indifferenza, ha aggiunto con un mezzo sorriso che avrebbe voluto cancellare dal vocabolario almeno tre parole: odio, violenza e vendetta.

Dopo l’esperienza disumana dell’annientamento progettato vissuta nei campi di lavoro, di concentramento e di sterminio nazisti ogni scampato a quel programma nutriva nel proprio animo offeso l’intenzione di abolire alcune parole nelle quali credeva si potessero individuare e sintetizzare le cause di quel male assoluto.

Anche per un’altra testimone, per Liana Millu (deportata ad Auschwitz), ad esempio, le parole erano tre: l’indifferenza, la violenza e il disprezzo.

«Oggi – ammoniva qualche anno prima della sua scomparsa, nel 2005 – sono rimasti l’indifferenza, la violenza e il disprezzo. E in mezzo a questo mondo terribile cresce la nostra gioventù.

Io oggi posso dire di avere l’autorità e il diritto di parlare dell’indifferenza, della violenza e del disprezzo, poiché ho visto tutto questo e pertanto metto in guardia perché, di nuovo, noi oggi vi acconsentiamo».

«Non si tratta di parlare di storia – ammoniva Liana, cogliendo l’essenza del nostro squallido presente –, quanto piuttosto di indicare cosa di essa è rimasto e ciò contro cui noi oggi dobbiamo ancora lottare».

Come si vede, ricorrono le stesse parole sia in Marcello sia in Liana.

L’odio è un sinonimo di disprezzo. Per quanto riguarda la vendetta, anche Liana (in un’intervista alla Rai del 2003 ma registrata nel 2002) ad essa preferiva la giustizia dagli occhi freddi.

Si deve purtroppo constatare che, anche facendo a meno delle parole che le designano, la violenza, l’odio, la vendetta e l’indifferenza restano inclinazioni costitutive dell’uomo, e non c’è testimonianza culturale, religiosa, letteraria, storica o politica che non lo sottolinei ogni volta, in ogni epoca, seppur in modalità differenti.

Tutti abbiamo appreso, a scuola e nella nostra stessa esperienza di vita, che, diceva Hegel, il Negativo è il motore della storia, intesa sia in senso fattuale e storiografico sia in senso artistico e immaginario.

Non ci sarebbe storia biblica senza il dubbio e il peccato di Adamo, l’odio di Caino e soprattutto senza la vendetta di Dio stesso.

Né ci sarebbe stato cristianesimo senza l’atto empio della crocifissione, nessun libero culto senza le guerre di religione, alcuna acquisizione dei diritti umani senza le rivoluzioni e le guerre mondiali. Impastata d’odio e di vendetta, la violenza è dunque il substrato della storia umana.

L’istinto ferino dell’«animale politico» è anteriore, predomina e condiziona la ragione e quindi l’etica; nello stesso e identico modo in cui l’inconscio, l’irrazionale, precede il conscio e il razionale. Anche questo, specialmente dopo Freud, è ormai un dato acquisito. Yahweh, tra l’altro, crea prima gli animali (e quindi il serpente) e poi l’uomo.

Il dominio umano su di essi è solo nominale, anche perché per esercitarlo deve eccitare la propria animalità.

A fare da cornice a tutto ciò è l’indifferenza di coloro che, per timore di essere stritolati da questa costitutiva mostruosità umana, si fanno da parte, assumendo in tal modo il ruolo di semplici spettatori, preferendo continuare la loro vita quotidiana anche nei pressi del luogo in cui si consuma la violenza, il sacrificio, l’olocausto o la stessa Vernichtung.

A tal riguardo, a proposito del campo di Mauthausen, si veda Gordon J. Horwitz, All’ombra della morte.

La vita quotidiana attorno al campo di Mauthausen (Marsilio, 2004, 1994).

Poiché, però, la tendenza della ragione, specie nella sua declinazione positivistica, vale a dire nella sua illimitata volontà di potenza, è, dice Hermann Broch, di tendere o di estendere all’infinito le sue possibilità conoscitive, divenendo in tal modo «ultrarazionale», finisce viceversa con l’auto-abolirsi come ragione e quindi con il convertirsi «nell’irrazionale, nel non-più-intelligibile» (I sonnambuli, Einaudi, 1997, 19601, III, p. 685).

L’unico rimedio per non far cadere la ragione nell’irrazionale sarebbe pertanto quello di evitare questo suo trascendimento nell’ultrarazionale, il quale non corrisponde affatto all’idea del sonno della ragione.

Ma l’attuale rivoluzione tecnologica, a cui volenti o nolenti partecipiamo, a cosa tende se non proprio all’ultrarazionale?

E questo, implicando e coincidendo con l’auto-abolizione della ragione, non ci riapre forse, come è sempre accaduto, la via verso l’irrazionale e l’inintelligibile, verso una nuova “morte di Dio”?

A che cosa, se non a questo irrazionale proprio della violenza diede vita ad esempio la spinta ultrarazionalista, cioè universalista e imperialista, della ragione al tempo delle crociate, delle conquiste dei nuovi continenti, dell’imperialismo colonialistico, dei totalitarismi?

Se quindi, come in un ciclo sovrarazionale, è di nuovo l’irrazionalità della violenza e dell’odio quella che ci attende con l’ultrarazionalità in corso, ben vengano i calorosi moniti dei due sopravvissuti allo sterminio pianificato, consapevoli però che sarà ben difficile eliminare sia i nomi di quegli impulsi umani sia a maggior ragione quegli stessi istinti ferali.

I fatti di questi giorni, divenuti ormai fatti di semplice cronaca, la fredda indifferenza nei confronti di esseri umani considerati solo come scarti o rifiuti, ne sono l’amara conferma.

Pur manifestando il vivo desiderio di disfarsi di quei sostantivi, il vago sorriso con cui sia Marcello che Liana accompagnavano le loro testimonianze era forse segno di quella difficoltà.

Lunedì, 19 agosto 2019

Infedeltà

icona pdfGIURAMENTO DI INFEDELTÀ ALLA COSTITUZIONE

di Franco Di Giorgi

FRANCO DI GIORGI

Alla luce della fiducia posta dal Senato al governo sul decreto ‘sicurezza bis’ (con 160 voti favorevoli, 57 contrari e 21 astenuti), sarebbe stata del tutto inutile la proposta che i padri costituenti avevano avanzato (e poi definitivamente cassato) in merito all’estensione del giuramento di fedeltà alla Costituzione anche ai deputati della Repubblica.

Alla fine si decise infatti che “I deputati, per il solo fatto dell’elezione, entrano con la proclamazione immediatamente nel pieno esercizio delle loro funzioni.

Tale immissione non è più subordinata alla condizione del giuramento”.

A questo giuramento rimasero invece vincolati il capo dello Stato, i membri del governo, i magistrati e le forze armate. Ecco la formula protocollare: “Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione”.

Ora, è del tutto evidente (tranne a quelli che non la conoscono e non l’hanno mai letta – ma, nel caso in specie, anche a quei ministri e a quei deputati che su di essa hanno solennemente giurato) che quel decreto (approvato dal Consiglio dei ministri a giugno e dalla Camera a luglio) non è affatto fedele alla Costituzione, poiché viola manifestamente almeno l’articolo 10, il quale al terzo comma suona: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge”.

Un decreto che, sul classico modello della carota e del bastone, serve solo ad alimentare e in parte anche ad appagare l’inestinguibile sete d’odio che aumenta nella maggioranza delle persone con il delinearsi sempre più netto e sconfortante del dissesto economico, sociale e politico del Paese; un decreto pertanto che sa solo parlare alla pancia degli Italiani, sempre tanto desiderosi di un uomo (e mai di una donna, almeno in questo senso) che, in qualsiasi modo, sappia assicurare loro, come un buon padre, il cibo. Un alimento, a proposito di pancia, che ha la medesima ingannevole consistenza di quello che ogni giorno viene ammannito sulla mangiatoia virtuale dalle televisioni.

Un provvedimento, pertanto, non solo illegale (non sono bastati due mesi alla Corte costituzionale per rilevarne l’illegittimità?), ma anche immorale, perché del tutto contrario al principio etico della solidarietà cui si ispira sia quell’articolo sia tutta quanta la nostra Carta costituzionale, la quale da questo punto di vista si può considerare un vero e proprio trattato di etica – così, cioè come un articolato di valori etici universali e sovrastorici, essa dovrebbe essere studiata nelle scuole.

Un provvedimento inoltre del tutto inutile, perché non risolve affatto il problema degli sbarchi (tra l’altro in diminuzione proprio in questi mesi), e utile solo come pretesto per dimostrare quanta parziale e limitata verità vi sia nell’idea dei partiti di governo.

Ma proprio in tal modo gli esponenti al governo di questi partiti derogano e hanno derogato sia al testo del giuramento di insediamento sia al comma dell’articolo 10, perché se da un lato svolgono solo in apparenza le loro funzioni “nell’interesse esclusivo della Nazione”, dall’altro anziché creare le condizioni per la realizzazione della legge enunciata da quell’articolo ne creano viceversa delle altre che rendono impossibile l’espressione dello spirito solidaristico.

La questione dei migranti, poi, per l’Italia è del tutto relativa se si pensa che nel 2018, secondo i dati dell’Unhcr, vi sono sbarcate un po’ più di 23 mila persone (il nostro ministro in una lettera a Giuseppe Conte vi fa cenno in termini di “soggetti irregolari presenti nel territorio nazionale”), mentre in Grecia le persone salvate sono state 33 mila e in Spagna 64 mila.

Paesi che, come si sa, si trovano in una situazione economica non certo migliore della nostra.

In ogni caso, lo stupore rispetto a quel decreto nasce più che altro dal fatto che nessun organo dello Stato abbia saputo constatarne tempestivamente l’illegittimità, abbia saputo in altri termini ravvisare ed eventualmente sanzionare in maniera efficace ed esemplare, nelle forme consentite dalla legge, la conclamata infedeltà di ministri e deputati alla Costituzione.

Una di queste forme, anzi la forma etica per eccellenza prevista per questa legge è contenuta nell’articolo 54, al cui spirito etico si ispira esplicitamente il testo del giuramento al momento dell’insediamento, e nel quale si dice in maniera limpida: “Tutti i cittadini [oprattutto coloro che, in quanto ‘eletti’ dovranno esserlo in modo ‘esemplare’] hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi.

I cittadini [si ribadisce infatti nel secondo comma] cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge” (i corsivi sono nostri).

All’interno di uno Stato laico e repubblicano un siffatto giuramento (jus), ossia un tale senso della justitia, non può che fondarsi dunque sul dovere richiamato in questo articolo, dovere che obbliga a una fedeltà alle leggi previste dalla Costituzione e non a quelle divine che discenderebbero dalla Beata Vergine Maria (spesso evocata dal nostro ministro per rafforzare i suoi interventi e per far breccia nell’animo dei suoi fedeli).

L’assenza di decise reazioni istituzionali di fronte a questo molteplice e sfrontato atto di infedeltà costituzionale genera un vuoto surreale che amplifica l’eco di quelle evocazioni.

Ebbene, quando si tradisce la Costituzione fino a questo punto – in quel decreto si legge ad esempio che dovrà essere punito non colui che si astiene ma colui che si impegna a salvare la vita altrui – allora sì, non si può che dar ragione al presidente di Magistratura democratica, Riccardo De Vito, il quale avverte che in tal modo si ripropone, sebbene con procedure differenti, la medesima antilogica che vigeva nei Lager, in cui il mondo, come testimonia Levi, girava ‘alla rovescia’; non si può non condividere inoltre la convinzione della presidente dell’Anpi nazionale, Carla Nespolo, secondo la quale, così facendo, con quel decreto non solo si disattende il dettato costituzionale, ma viene altresì svuotato il significato della democrazia, che ha nell’eguaglianza uno dei diritti umani fondamentali.

Rispetto a ciò, ogni minimo allontanamento da questo valore prelude a una simmetrica approssimazione al razzismo, anche quando questo si presenta nella sua declinazione suprematista. “Quando si tradisce la Costituzione – afferma in particolare la presidente Nespolo – è il momento della Resistenza”.

Anche perché, come un buon nazionalsuprematista, il ministro degli Interni (che non è ancora premier, ma così lo vedono e lo chiamano già alcuni network amici) si serve dei suoi collaboratori (come ad esempio la sindaca di Monfalcone) per mettere il bavaglio a giornali (quali Manifesto e Avvenire) e a riviste (come Civiltà cattolica) che si mostrano restii ai suoi diktat e ai sui sermoni, spesso corredati da rosari e da vangeli, e fatti di battute sarcastiche tanto care alle masse sempre così bramose di divertente semplicità.

Già, di nuovo è il momento della Resistenza.

Perché l’Italia è un Paese in cui la Resistenza non si è mai potuta considerare un capitolo chiuso della storia.

Un Paese in cui alla guerra civile degli anni ‘40 è stata opportunamente applicata la sordina.

Nonostante la memoria storica e l’esperienza acquisita in passato (la storia per gli Italiani non è mai stata maestra di vita), incapaci di migliorare se stessi, sempre suscettibili di un odio vivo, preda di uno schietto entusiasmo per la violenza contro l’altro, contro lo straniero, contro il diverso, essi vivono nella costante attesa di un uomo, di un ‘duce’ scriveva già agli inizi degli anni Trenta Hermann Broch nei suoi Sonnambuli, anche solo di un ‘capitano’, che possa fungere in qualche modo da motivazione, ma anche da comoda giustificazione per possibili azioni che, “senza di lui”, sottolinea lo scrittore austriaco (che ha conosciuto la realtà del carcere nazista), risulterebbero senz’altro folli.

In tal senso non ha tutti i torti Rino Formica quando, a fronte dell’attuale “decomposizione” delle istituzioni italiane, del “deperimento anche delle ultime sentinelle, l’informazione, la magistratura”, in una recente intervista asserisce che “si sta creando il clima degli anni ‘30 intorno a Mussolini” (manifesto 8/8).

Ma come organizzare questa Resistenza, senza far cadere i manifestanti nelle trappole dissuasive preparate ad hoc dal ministero degli Interni con quel decreto?

Questo il compito che attende i movimenti di opposizione democratica nei prossimi giorni.

Due comunque sembrano essere le strategie per affrontare questo nuovo pericolo per la democrazia e per la Costituzione.

Una è quella che sollecita una nuova politica ‘frontista’, cioè quella che, ispirandosi allo spirito della Resistenza, pone come obiettivo primario la nascita di un fronte comune della sinistra: una sorta di “fronte umanitario” che, davanti a questa emergenza delle nuove destre, sappia riunire i partiti della sinistra o del centro-sinistra mettendo da parte le asfittiche differenze.

L’altra è quella che si pone come meta la rifondazione di un nuovo e più moderno soggetto politico che, pur non disdegnando i valori della tradizione della sinistra, sappia confrontarsi con i problemi posti dalla realtà digitalizzata e globalizzata, in cui quel pericolo si radica e si sviluppa.

Considerato il convulso precipitare degli avvenimenti, la prima auspica di raggiungere il proprio obiettivo nel breve e nel medio tempo; la seconda, con l’elaborazione di un nuovo progetto politico, prevede naturalmente tempi più lunghi.

Le due strategie sono poi reciprocamente critiche, perché mentre l’una, avendo a che fare con l’immediato e con le emergenze incalzanti del presente, non ha certo tempo da perdere nelle lunghe ed estenuanti analisi, in cui alla sinistra piace cullarsi, l’altra sottolinea il fatto che ogni tentativo di un mero assemblaggio delle forze è immancabilmente destinato al fallimento.

Per quanto metodologicamente opposte e sebbene ideologicamente convergenti, tutte e due le posizioni contengono elementi di verità.

Vero è che il pericolo è immediato e che la pianta andrebbe recisa prima del suo abbarbicarsi; ma è altrettanto vero che il problema può essere affrontato alla radice non politicamente ma culturalmente, cioè invitando gli Italiani, non solo i giovani, a studiare meno cucina e più etica, a partire soprattutto dalla lettura della Costituzione.

Perché solo così essi, non solo i cittadini comuni, ma anche quelli che essi eleggono al governo del Paese, potranno apprendere il valore etico del giuramento davanti alla Costituzione e capire cosa vuol dire, quali oneri comporta adempiere una funzione pubblica con disciplina ed onore.

Suvvia, dunque, ognuno secondo le proprie possibilità e le proprie inclinazioni, anche sull’esempio dei rilievi posti al decreto dal presidente della Repubblica, dia il proprio contributo in questo compito indifferibile, in questo nuovo progetto per un’Italia migliore.

Giuriamolo dinanzi alla Costituzione!

Venerdì, 9 agosto 2019