Lucio Libertini

Lucio Libertini e la storia della sinistra italiana

8 Luglio 2020, di Franco Ferrari

Articolo recensione su Tranform.

Lucio Libertini, dirigente e senatore del Partito della Rifondazione Comunista, è scomparso nell’agosto del 1993 a seguito di una grave malattia.

La sua storia politica lo ha visto protagonista di diverse realtà di partito lungo un filo caratterizzato dall’adesione ad un’idea di un socialismo di sinistra, antistalinista e classista. Lucio Libertini. Lungo viaggio nella sinistra italiana di Sergio Dalmasso 2020

Questa sua lunga e a volte travagliata, ma sostanzialmente coerente, esperienza, iniziata quando era ancora in corso la seconda guerra mondiale, non può non stimolare interesse ed anche interrogativi.

Si è cimentato nell’impresa di condensare il suo lungo viaggio politico in un libro, Sergio Dalmasso, storico che ha sempre dedicato grande attenzione alle diverse esperienze del socialismo di sinistra in Italia (Lucio Libertini. Lungo viaggio nella sinistra italiana, Edizioni Punto Rosso, Milano, 2020, 18 euro).

Una storia ricca di personalità importanti, anche se, va detto, quasi mai trovatesi a spingere tutti insieme nella stessa direzione politica.

Basti ricordare, oltre al nome di Libertini, quelli di Lelio Basso, Rodolfo Morandi, Raniero Panzieri, Vittorio Foa.

C’è stato chi ha strumentalmente ironizzato su un Libertini scissionista ma, in realtà, le sue scelte sono sempre state animate dal tentativo di trovare uno strumento politico in cui potesse trovare spazio la sua idea di lotta per la trasformazione socialista, animata dal protagonismo della classe operaia e dei lavoratori in generale.

Anche scelte che, in sede di bilancio storico, si possono ritenere sbagliate (non tanto alla luce della valutazione dei posteri, quanto rispetto ai suoi stessi obbiettivi politici), non sono mai interpretabili come una forma di trasformismo politico, di cui abbiamo invece tanti esempi in tempi più recenti.

Tra “morandiani” e “saragattiani”

Nato a Catania (da una famiglia che poteva contare baroni e senatori del Regno), ha iniziato giovanissimo ad impegnarsi nell’azione politica.

La prima esperienza, da giovane iscritto alla facoltà di scienze politiche dell’Università romana, lo spinse verso il Partito Democratico del Lavoro, una piccola formazione di riformisti moderato.

Difficile capire le ragioni che lo portarono ad aderire ad un partito fondato da vecchi notabili del prefascismo come Ivanoe Bonomi e Meuccio Ruini.

Fu infatti esperienze breve e non particolarmente significativa.

Da questo versante, il libro di Dalmasso non ci dice molto perché non è una biografia in senso classico e quindi non indugia su aspetti della vita privata o su motivazioni psicologiche.

E’ invece l’attenta ricostruzione di un percorso politico.

Si può dire che il giovane Libertini si trovò ad assumere subito ruoli di un certo rilievo e lo fece con lo spirito battagliero che lo ha contraddistinto per tutta la vita.

Entra a far parte della corrente di Iniziativa Socialista.

Si trattava di una delle componenti che operavano nel Partito Socialista di Unità Proletaria, nel quale erano confluite le diverse anime socialiste.

Nel PSIUP si aprì subito il confronto fra le varie correnti divise soprattutto dal rapporto con il PCI.

Ad una sinistra classista e unitaria, nonché apertamente filosovietica sul piano internazionale, faceva da contrasto una tendenza più moderata che cercava una linea autonomista e di riformismo classico ispirato ai partiti che si andavano riorganizzando nella Internazionale Socialista. In questa polarizzazione, Iniziativa Socialista costituiva un’anomalia.

Sul piano della politica interna tendeva a collocarsi a sinistra del PCI, di cui criticava la strategia della collaborazione con le forze moderate ed in particolare con la DC.

Sul piano internazionale era invece polemica verso l’egemonia staliniana sul movimento comunista e la sua eccessiva subordinazione agli interessi dell’Unione Sovietica.

Al momento della scissione del PSIUP, nel 1947, Iniziativa Socialista si alleò con la componente di destra guidata da Saragat e raggruppata attorno alla rivista “Critica Sociale”, per dar vita alla scissione detta di Palazzo Barberini, dal nome del luogo dove venne fondato il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani.

Iniziativa Socialista portò al nuovo partito (la cui sigla faceva PSLI, da cui la sarcastica definizione di “piselli” attribuita ai suoi militanti) la maggioranza dell’organizzazione giovanile del PSIUP.

Molto scarse furono invece le adesioni da parte della base operaia socialista che dimostrò di avere maggior fiuto politico.

Fra gli esponenti di “Iniziativa Socialista” vi era anche Livio Maitan che diverrà poi il principale esponente del movimento trotskista in Italia e uno dei massimi leader della Quarta Internazionale.

Secondo la posteriore ricostruzione di Maitan, il gruppo dirigente di Iniziativa Socialista, composto soprattutto da giovani, pensava di poter conquistare la maggioranza nel nuovo partito e quindi di condizionare Saragat, portando il PSLI ad una collocazione di opposizione al governo tripartito guidato da De Gasperi e di sostegno alla neutralità dell’Italia nella nascente contrapposizione tra blocchi.

Libertini dichiarò poi di essere stato molto scettico sulla scelta della corrente a cui apparteneva.

Saragat cercò di convincerlo con un discorso infarcito da citazioni di Marx e di Engels. Nonostante i dubbi, come ricostruisce Dalmasso, Libertini partecipò alla costruzione e alla direzione del PSLI.

Nel giro di pochi mesi il partito di Saragat (che poi diventerà PSDI a seguito di ulteriori scissioni e ricomposizioni) si sposterà a destra ed entrerà nel governo neocentrista guidato dalla Democrazia Cristiana diventandone un alleato fedele e subalterno per diversi decenni.

“Iniziativa Socialista” si disgregò rapidamente a fronte della maggiore abilità manovriera dei vecchi riformisti.

Una parte di essa, guidata da Maitan e da altri che poi seguiranno percorsi diversi, ne uscì prima delle elezioni del 1948. Ne nacque un piccolo movimento che aderì al Fronte Democratico Popolare formato da PCI e PSI.

Libertini, in posizione di dissenso con l’orientamento sempre più moderato che prevaleva nel partito, vi rimase qualche anno ma evidentemente le sue posizioni diventavano sempre più incompatibili con quelle dei “saragattiani”.

A differenza di altri, come lo storico Gaetano Arfé, non ritenne di poter rientrare nel PSI che considerava ancora troppo allineato alla logica dei campi contrapposti, né di seguire Maitan nella formazione di un’organizzazione affiliata alla Quarta Internazionale, che considerava troppo schematica e settaria.

Il “socialismo indipendente” di Valdo Magnani

L’opportunità di partecipare ad un’esperienza che fosse collocata nel campo del socialismo (ben distinto da quello socialdemocratico) ma critica dello stalinismo, si aprì con la dissidenza dei parlamentari comunisti Valdo Magnani e Aldo Cucchi.

Sorta a seguito della rottura tra la Jugoslavia di Tito e l’URSS di Stalin, anche se non direttamente causata da questa, la posizione di Magnani, sicuramente la figura politicamente più rilevante, cercava di difendere quegli aspetti della via nazionale al socialismo che si erano intravisti nella politica togliattiana dell’immediato dopoguerra per essere poi accantonati con la guerra fredda e l’irrigidimento del blocco socialista imposto dalla linea cominformista.

I due parlamentari comunisti diedero vita, nel 1951, al Movimento dei Lavoratori Italiani (MLI) che poi si trasformerà in Unione Socialista Indipendente (USI).

La radicalità della contrapposizione che caratterizzò la prima metà degli anni ’50 e che non era solo un riflesso della guerra fredda a livello internazionale ma anche dell’asprezza del conflitto sociale in Italia (sono anni di massacri di lavoratori da parte della Celere, di repressioni poliziesche, di licenziamenti politici, di persecuzione di partigiani) non lasciava spazio ad una posizione di non allineamento. Lo stesso PSI era non meno filosovietico del PCI.

Lucio Libertini aderì all’organizzazione di Valdo Magnani (sprezzantemente ribattezzata dai comunisti “i Magnacucchi”) nelle cui file agirono personalità di varia provenienza politica e non esclusivamente ex comunisti.

Vi svolse un ruolo di primo piano, soprattutto nella direzione del giornale “Risorgimento Socialista”, che gli venne affidata nel 1954.

L’MLI e poi USI non poté contare su adesioni significative e non intaccò la base di consenso del PCI.

Mantenne un rapporto diretto con la direzione comunista jugoslava, dalla quale ricevette anche qualche modesto finanziamento, senza rinunciare in ogni caso ad una certa autonomia di giudizio.

Presente alle elezioni politiche del 1953 contribuì a sconfiggere la cosiddetta legge truffa che avrebbe consentito alla DC e ai suoi alleati di ottenere il 65% dei seggi con il 50% più uno dei voti. I “socialisti indipendenti” guardarono con favore alla destalinizzazione avviata da Krusciov al XX Congresso del PCUS ma la possibilità di un riavvicinamento al PCI, che aveva portato Magnani a riprendere qualche contatto col suo vecchio partito, venne ostacolata dal diverso giudizio espresso sulla rivolta ungherese e sull’intervento sovietico.

Gli avvenimenti – scriveva allora Libertini – investono ormai il PCI della necessità di una scelta che si è cercato invano di ritardare”.

L’anno successivo, l’Unione decise di sciogliersi per confluire nel PSI.

Scelta che anche Libertini sostenne.

Dalmasso traccia il seguente bilancio dell’esperienza dell’USI: “Se l’eredità non è univoca, se la storia di questa piccola formazione è totalmente dimenticata, questa ha comunque espresso tensioni e volontà minoritarie, ma contro i conformismi dominanti.

E’ significativa la presenza di giovani alla prima esperienza politica, come Vittorio Rieser, Franco Galasso, Dario e Liliana Lanzardo e la continuità di molte tematiche nella temperie degli anni ’60 e ’70.”

Dopo il ’56 i rapporti di alleanza fra socialisti e comunisti si allentarono e posizioni più apertamente antistaliniste trovarono maggiore spazio per esprimersi all’interno del PSI.

Dato però che il partito, sotto la guida di Nenni, si spostò in direzione moderata per aprire il percorso politico che si sarebbe concluso con l’alleanza del centro-sinistra, Libertini si trovava ancora una volta collocato in una posizione di minoranza.

Sono gli anni della collaborazione con Raniero Panzieri dalla quale nacquero le famose “Tesi sul controllo operaio”.

Questo documento rilanciava una strategia basata su un ruolo più diretto della classe operaia, a partire dalla grande fabbrica.

La posizione di Libertini era critica verso le posizioni, caratteristiche in particolare di Amendola e della destra comunista, che vedevano come compito principale del movimento operaio quello di superare l’arretratezza storica del capitalismo italiano.

Per Libertini, in questo più vicino alla sinistra comunista di Ingrao, le contraddizioni che emergevano, in una fase di forte crescita economica dell’Italia, erano proprie di un capitalismo maturo e quindi richiedevano obbiettivi più avanzati.

La sfida principale era impedire l’integrazione subalterna della classe operaia nel meccanismo capitalistico.

Le tesi sollevarono un ampio dibattito. Vennero criticate dal PCI perché si riteneva che sottovalutassero il ruolo del partito e rischiassero di rinchiudere l’azione operaia dentro la fabbrica rendendo più difficile l’azione di conquista dell’egemonia sugli altri strati popolari e tra i ceti intermedi.

La collaborazione tra Panzieri e Libertini, attorno alla rivista socialista “Mondoperaio”, durò un paio di anni poi le strade si separarono. Il primo svolse un ruolo soprattutto intellettuale con la fondazione dei Quaderni Rossi, mentre per Libertini l’azione politica non poteva che avvenire attraverso il partito.

Con l’avvio del centro-sinistra e il consolidamento dell’alleanza tra PSI e DC, la sinistra socialista rompe con la maggioranza di Nenni e Lombardi e dà vita al PSIUP, riprendendo il nome che era stato utilizzato dal partito socialista per un breve periodo nella fase della ricostituzione dopo il fascismo.

Libertini aderisce al PSIUP e svolge una importante attività giornalistica, di polemica e di elaborazione, attraverso il settimanale che era stato della sinistra socialista e poi passerà al nuovo partito: “Mondo Nuovo”.

Il PSIUP riesce ad intercettare per alcuni anni dopo la sua nascita i nuovi fermenti che stanno per confluire nei movimenti di protesta del 1968 (giovanile e studentesco) e del 1969 (operaio).

Si apre però un conflitto tra la componente più tradizionale, che ha una visione più istituzionale ed organizzativa del partito (i cosiddetti “morandiani”) e le nuove leve militanti più sensibili alle nuove forme di conflittualità sociale e più aperte alle spinte dal basso.

Libertini, che non era certo un quadro giovane ma nemmeno era stato “morandiano”, si colloca più vicino a queste ultime, pur non condividendone sempre certe spinte estremistiche.

Il PSIUP ottiene un buon risultato elettorale nel 1968 ma non riesce a consolidare la nuova base di consensi. Non contribuisce l’atteggiamento piuttosto ambiguo assunto sull’invasione cecoslovacca.

Mentre il PCI aveva difesa l’esperienza di rinnovamento socialista e condannato l’invasione del Patto di Varsavia, il PSIUP appariva molto più titubante.

Libertini vedeva nella posizione del PCI il rischio che venisse “gestita a destra”, ma anche “potenzialità positive per una alternativa rivoluzionaria e noi in questo senso dobbiamo aprire un dialogo operativo con il PCI”.

Il PSIUP (“partito provvisorio” è stato definito per primo da Arfé) era attraversato da numerosi conflitti, mentre l’anima più radicale inserita nei movimenti tendeva a guardare alle nuove formazioni dell’estrema sinistra che raccoglievano diverse decine di migliaia di militanti.

Nelle elezioni del 1972, il PSIUP scende sotto il 2% e resta escluso dalla ripartizione dei seggi alla Camera dei Deputati (al Senato si era presentato assieme al PCI).

Il gruppo dirigente ne trae la conclusione che non vi sia più spazio per un partito che si collochi tra il PSI e il PCI e non ritiene accettabile l’idea di alcuni di collocarlo a sinistra dei comunisti.

La maggioranza decide la confluenza nel PCI, ma con consistenti minoranze che si volgono al PSI o al mantenimento in vita del partito dando seguito ad un Nuovo PSIUP che poi confluirà col Manifesto nel PDUP per il Comunismo (dove il riferimento al comunismo nel nome non piacerà a molti ex psiuppini).

Libertini, che per molti aspetti era più vicino a quest’ultima componente, decise però a favore dell’ingresso nel PCI.

Una scelta che a molti sembrò in contraddizione con una traiettoria politica che era stata spesso in conflitto e in aperta polemica con la tradizione togliattiana.

All’interno del PCI vi fu una certa resistenza ad accogliere la sua adesione, soprattutto da parte della destra che è sempre stata meno tollerante verso il pluralismo interno al partito.

Da questo scaturì la decisione di pubblicare su Rinascita una lunga lettera a firma di Luciano Gruppi nella quale si chiedeva, con una certa asprezza, quali ragioni portavano Libertini ad entrare nel Partito Comunista, viste le tesi critiche da lui sempre sostenute.

La sua risposta, sempre nella forma della lettera a Rinascita, venne valutata da alcuni come una rinuncia alle sue posizioni, ma in realtà fu un tentativo di mantenere la coerenza di fondo delle sue idee, rivedendo contemporaneamente autocriticamente alcune punte eccessivamente polemiche nei confronti delle politiche e della tradizione teorica del PCI.

Anche sull’esperienza del PSIUP, Dalmasso traccia una rapida valutazione di sintesi: “Si chiude, con eccessiva velocità, la storia organizzata della sinistra socialista in Italia, di cui restano segni ed eredità carsiche in altre esperienze. Il partito paga la piccolezza davanti al PCI e al tempo stesso la sua struttura di ‘partito pesante’.

Paga l’inadeguatezza del quadro morandiano, ma anche la inadeguatezza della minoranza.”

Facendo proprio un giudizio di Franco Livorsi, la fine del PSIUP e la “dispersione del suo lascito” vengono viste come la “fine del ‘lungo sessantotto’ italiano”.

Nel PCI, Libertini poté assumere alcuni ruoli istituzionali di un certo rilievo, anche se non fu un dirigente di primissimo piano.

Orientato piuttosto verso le posizioni della sinistra, mantenne un buon rapporto con Berlinguer e ne difese la politica di alternativa, seguita al fallimento del compromesso storico.

Impegnato a Torino si occupò “con grande documentazione, della politica della Fiat e a delineare le prospettive della più grande industria italiana, la sua strategia e il rapporto con le lotte operaie”.

Download “Quaderno CIPEC N. 67 (Lucio Libertini. Interventi al consiglio regionale del Piemonte 1975-1976)” Quaderno-CIPEC-Numero-67.pdf – Scaricato 19738 volte – 1,72 MB

Un elemento centrale della sua visione politica lo si può riconoscere in un brano della relazione tenuta al convegno torinese sulla struttura industriale del Piemonte e i problemi della sua trasformazione nella crisi dell’economia italiana (concluso da Bruno Trentin) che vale la pena di citare: “Le soluzioni politiche che siano all’altezza dei grandi e difficili problemi dell’economia e della società non solo debbono necessariamente fondarsi sull’unità delle grandi masse popolari, sulla loro forza e capacità complessiva, fuori da ogni settarismo e avventurismo, ma debbono avere in se stesse un giusto rapporto tra il momento del movimento, della lotta e il momento dello Stato e della direzione complessiva.

Non sono realistiche quelle soluzioni che pretendono di ridurre il movimento fine a se stesso e di isolarlo dalle grandi questioni della società e dello Stato.”

Quando avanzò la linea della liquidazione del partito, Libertini si schierò senza esitazioni con il fronte del “no”.

In tutta la fase finale della storia del Partito Comunista la sua principale preoccupazione, sottolinea Dalmasso, era “il timore di offuscamento del rapporto con grandi settori di massa”.

Al momento della trasformazione del PCI in PDS, fu nel gruppo dei promotori di Rifondazione Comunista di cui divenne uno dei principali dirigenti.

Polemizzò con Ingrao sulla possibilità di essere un punto di riferimento rimanendo “nascosti” dentro un partito “non più comunista e a tratti anticomunista”, quando il vecchio leader comunista decise (ma solo per un breve periodo) di restare nel “gorgo” del PDS.

Nel conflitto assai aspro che si aprì nel gruppo dirigente del PRC tra Garavini e Cossutta si trovò alleato al secondo, benché la sua storia avrebbe dovuto trovarlo più naturalmente affiancato al primo.

Ma la sua principale preoccupazione era che il partito non restasse invischiato nelle polemiche interne, ma riprendesse capacità di iniziativa politica e sociale.

Era fondamentalmente ottimista (diremmo l’ottimismo della volontà) pur vedendo tutte le difficoltà determinate dal passaggio al maggioritario e dal formarsi di forti aggregazioni di destra.

Il suo contributo allo sviluppo del PRC, che nasceva, come lui stesso aveva dichiarato, dovendo nuotare controcorrente, fu limitato dalla malattia che lo colpì all’inizio del 1993 e che lo condusse al decesso nell’agosto di quell’anno.

Una sintesi del suo percorso è quella offerta dallo storico Enzo Santarelli, poco tempo dopo la scomparsa di Libertini e che Dalmasso richiama: “Il centro della sua vita è il tentativo di uscire dallo stalinismo, ma da sinistra.

L’approdo è il PCI, il partito che più si è caratterizzato come partito del popolo, dell’unità popolare, che governa dall’opposizione.”

Download saggio di Franco Ferrari su Lucio Libertini:

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Condizione postmoderna scuola

 

Condizione postmoderna della scuola

Franco Di Giorgi

LA CONDIZIONE POSTMODERNA DELLA SCUOLA

E IL DESIDERIO DI “NORMALITÀ”

 

Beato l’uomo che sopporta la tentazione [prova] (peirasmós), perché una volta superata la prova [egli, il dókimos, il provato, il saggiato, il messo alla prova] riceverà la corona della vita (stéphanon tes zoes) che il Signore ha promesso a quelli che lo amano (Gc 1, 12).

1. Nel 1979, ormai più di quarant’anni fa, nel suo famoso “Rapporto sul sapere” (meglio noto con il titolo La condition postmoderne) basato su studi di cibernetica e di telematica effettuati negli Stati Uniti e risalenti fino agli anni Trenta, Jean-François Lyotard, uno dei filosofi del pensiero postmoderno, aveva previsto e detto a chiare lettere che con l’introduzione del calcolatore elettronico, con il computer, il destino delle grands narrations sarebbe stato segnato.

Così come sarebbe stato compromesso parallelamente anche il destino dell’istruzione, dell’insegnamento e della trasmissione di queste metanarrazioni o del sapere in generale, con tutti i loro approcci e le loro metodologie. Si veda in particolare il capitolo 12 di questo saggio: “Insegnamento, legittimazione, performatività” (Feltrinelli 1981).

Dopo la delegittimazione posta in essere dalla “incredulità nei confronti delle metanarrazioni” (p. 6), cioè delle grandi ideologie politiche e filosofiche che legittimavano la modernità, il criterio ormai prevalente della performatività, ossia dell’ottimizzazione delle prestazioni resa possibile dall’informatizzazione delle società e del sapere, più che stimolare ideali di emancipazione mira a formare competenze funzionali al potere e quindi al sistema sociale che le sollecita per le sue riconfigurazioni.

Giacché, scrive Lyotard, “la questione nell’era dell’informatica è più che mai la questione del governo” (p. 20) o del potere, appunto. Uno degli esiti evidenti di una tale delegittimazione è ad esempio la riduzione della lotta di classe a “utopia”, a “speranza”, e l’impegno per l’insegnamento tradizionale a una specie di “protesta di principio” (p. 29).

Con l’annuncio della seppur “parziale sostituzione dei docenti con delle macchine”, la postmodernità in ogni caso anticipa e progetta la morte stessa dell’“era del professore” (p. 98).

Quasi a conferma di quanto aveva dedotto nelle pagine della Condizione postmoderna, lo stesso Lyotard nel 1984 pubblicherà un piccolo testo dal titolo significativamente provocatorio: Tombeau de l’intellectuel et autres papieres (Galilée, Paris).

Ora, dal punto di vista postmoderno, ben lungi dal creare un danno o una perdita, una tale sostituzione tecnologica comporterebbe piuttosto enormi vantaggi sia sul piano performativo o delle prestazioni sia sul piano economico, soprattutto per quegli Stati con un alto debito pubblico.

L’insegnamento basato sulla didattica relazionale poteva avere una sua specifica funzione didattico-pedagogica all’interno di quell’orizzonte umanistico che si può far risalire alla Grecia classica e ai Dialoghi di Platone, e che, con il suo progetto educativo e formativo, è riuscito a resistere alle intemperie del tempo e della storia, affermandosi lungo tutta la modernità.

Già però con la rivoluzione tipografica realizzata da Gutenberg nel 1445, cioè con l’invenzione della tipografia a caratteri mobili, all’interno dell’istituzione religiosa cattolica si era creato un profondo trauma, simile per certi aspetti a quello rilevato dal Fedro platonico a proposito dell’invenzione della scrittura, una profonda e dolorosa cesura, giacché in quella istituzione gli intellettuali erano riusciti a conquistarsi nei secoli una certa prerogativa nella trasmissione di un sapere religioso che, almeno fino al Seicento (ben oltre quindi la prima Rivoluzione scientifica), faceva tutt’uno con il sapere tout court (Machiavelli e Galileo docent).

Grazie poi a Lutero, che si avvantaggerà di quell’invenzione, e alla sua traduzione del testo sacro nella lingua tedesca, ogni singolo individuo poté leggere la Bibbia direttamente alla propria famiglia all’interno delle mura domestiche, senza dover andare necessariamente in chiesa, escludendo in tal modo l’intervento di quegli intellettuali ed evitando con ciò stesso anche le loro sottili e capziose interpretazioni.

Dopo circa mezzo secolo, un trauma simile è quello che la rivoluzione delle nuove tecnologie sta producendo all’interno di quell’ampio orizzonte umanistico.

Anche qui, ora, man mano che passa il tempo e con il continuo perfezionamento dei dispositivi tecnologici, i docenti si vedono scalzati nel loro antico appannaggio di comunicatori del sapere in una relazione diretta con i loro discenti (si veda a tal proposito il recente appello firmato da sedici intellettuali italiani contro la prospettiva di un “modello in remoto” e rivolto alla neo-ministra dell’istruzione Lucia Azzolina).

Secondo precise fasce orarie e a seconda dei più diversi interessi (da non chiamarsi più “discipline”), il collegamento programmato a una banca dati forniti dagli esperti delle varie materie o la connessione a un solo computer adeguatamente predisposto sarebbe in grado, volendo, di fornire in simultanea e in remoto un sapere manualistico o digitale a migliaia se non a milioni di utenti scuola.

La DaD, la Didattica a Distanza, resasi necessaria quest’anno a causa della pandemia di Covid 2019, è solo il passo intermedio dalla lectio ex cathedra alla lectio sine cathedra, ossia al libero approvvigionamento di un sapere non più obbligatorio secondo programmazioni preconfezionate, di un sapere “alla carta” (p. 91), dice Lyotard, e non più “costituito da uno stock organizzato di conoscenze” (p. 93).

Sebbene attraverso lo schermo di un computer e con l’ausilio di piattaforme comunicative, mediante una didattica domiciliare (da casa a casa, intramoenia si potrebbe dire mutuando un termine dal comparto “Sanità”) oggi gli insegnanti possono continuare a mantenere la loro cattedra, il loro posto di lavoro.

E sarebbe proprio il caso di ricordare a tal proposito che quello che oggi, con il solito anglicismo, viene chiamato smart working non sarebbe poi una gran novità, giacché era già una realtà ben consolidata in Inghilterra fin dal tempo della prima Rivoluzione industriale (cfr. Giovanna Lo Presti, Non lasciamo ai tecnocrati e politici ignoranti il governo della scuola, “Il Ponte”, 20 aprile 2020).

Sicché, almeno dal punto di vista storico, più che di un’emancipazione, specie se guardiamo al ruolo sociale delle donne, si tratterebbe anzi di una regressione.

Ma, come si accennava, il récit emancipatorio presuppone una pragmatica o un gioco linguistico eterogeneo rispetto al récit performativo: il primo, ricordava Lyotard, si fonda su criteri etico-teoretici come vero/falso, giusto/ingiusto, il secondo su criteri di mercato come utile/inutile, efficace/inefficace, vendibile/invendibile (p. 94).

Comunque sia, pur a fronte di una tale prospettiva certo non rosea per il destino dell’istruzione (sia pubblica che privata), la ministra ha persino annunciato l’assunzione di altri 32 mila insegnanti attraverso i concorsi, la sistemazione di 4.500 precari e di 4 mila nuovi ricercatori universitari.

Ma fino a che punto tutti costoro potranno continuare a mantenere pienamente le loro cattedre?

E in generale, fino a che punto potrà continuare questo servizio essenziale garantito dallo Stato e previsto (ancora) dall’articolo 33 della Costituzione, se il destino della scuola sembra essersi ormai avviato verso la sola didattica a distanza, se non addirittura verso la connessione ad un unico dispositivo base in remoto, verso un solo computer-madre senza la presenza dell’insegnante, a delle “banche di dati […] collegate a terminali intelligenti messi a disposizione degli studenti”, diceva Lyotard (p. 93)?

D’altro canto, una volta superato il difficile confronto con i paesi membri dell’Unione europea sulla scelta della formula con cui ottenere i fondi europei, i debiti che i governi hanno dovuto contrarre per fronteggiare l’emergenza lavoro a causa del Coronavirus dovranno comunque essere pagati.

A tal riguardo, poi, il problema più urgente non è tanto l’ammontare dei 55 miliardi di euro che il governo riuscirà a stanziare per l’emergenza Covid 19, ma come i cittadini possono ottenere questi stanziamenti, poiché tra le leggi predisposte e l’effettivo godimento dei finanziamenti si interpone la solita burocrazia italiana che con le sua nota farraginosità rischia di bloccare la ripresa di un intero Paese.

Per questo molti politici italiani, a partire dallo stesso premier Conte, oltre che di responsabilità e di certezze, parlano di semplificazione delle procedure, di modernizzazione della macchina burocratica, di velocizzazione della pubblica amministrazione, specialmente adesso che, diceva proprio il primo ministro durante la sua recente relazione in Senato, la salute non può più continuare ad essere un corollario, bensì la “precondizione dello sviluppo del Paese”.

E se questa volta a farne le spese, come è purtroppo accaduto in passato, non sarà più il comparto “Sanità”, logica vuole che, proprio in virtù dell’utilizzo di quelle tecnologie, siano altri comparti a pagarle: ad esempio quello dell’“Istruzione”, specie, come si è detto, in Stati come l’Italia che presentano un debito più elevato a causa di un precedente indebitamento.

Pertanto, sebbene l’annuncio di quelle nuove assunzioni non lo lascino ancora intravedere, la graduale dismissione degli insegnanti è quindi nelle cose: in un prossimo futuro, prima della scomparsa delle sedi fisiche della scuola (così sono scomparse anche le grandi fabbriche), prima della chiusura degli istituti scolastici (con tutti i vantaggi economici che ciò comporterà per le casse dello Stato), si cominceranno dapprima pian piano dolorosamente a tagliare gli stipendi agli insegnanti e subito dopo si procederà anche ai tagli alle cattedre.

Si preannuncia pertanto un esercito di ex-cathedratici, di migliaia di disoccupati nel personale della scuola, la perdita di altrettanti posti di lavoro e quindi l’estensione della povertà.

Questa, dunque, la “minaccia tecnocratica” che incomberebbe sulle nostre scuole, la quale, come s’è visto, porterebbe con sé anche un’ulteriore ondata di precarizzazione del lavoro in generale.

Ma se queste sono le temibili previsioni, allora quel “nuovo modo di concepire la scuola, ben diverso da quello tradizionale”, quel “complessivo e articolato processo di riforma” cui fa cenno il testo di quell’appello, come pure l’aspirazione a un “nuovo umanesimo”, non potranno che rivelarsi ancora una volta come il sogno di una bella cosa, come un’utopia, una speranza, un’idea.

Inoltre, secondo la prospettiva qui delineata, che inclina inesorabilmente all’estinzione della scuola, anche la dignitosa idea dell’insegnare meno, insegnare tutti risulta quanto meno anacronistica, in ritardo in ogni caso coi tempi, se non addirittura fuori tempo massimo: poteva valere ancora prima della crisi del 2008, ma da allora in poi, con l’emergenza della crisi economica, con il rischio default e con il fantasma Grexit che soffiava sul collo degli Italiani, non fu più possibile nemmeno parlarne, al punto che colui che tentava di farlo veniva visto come un ingenuo, un’anima bella, un irresponsabile, un disfattista.

Sulla scorta o con il pretesto di quella emergenza, l’ex premier Mario Monti, con la flemma e l’aplomb che lo contraddistinguevano, proprio per mettere una pietra tombale su quel principio egualitario avanzò addirittura la proposta di aumentare l’orario di lavoro settimanale degli insegnanti da 18 a 20 ore.

Il che sarebbe stata ancora una fortuna se pensiamo che l’allora ministro dell’Istruzione e dell’Università Francesco Profumo voleva aumentarle di 6 ore, cioè fino a 24.

2. Sulla scorta di quanto precede, non dovremmo affatto, quindi, augurarci di tornare alla “normalità”, e non solo per quanto riguarda la scuola, perché quella “normalità”, proprio in quanto “normalità”, conteneva in sé qualcosa di vischioso e di scivoloso a cui da troppo tempo siamo stati costretti ad abituarci: conteneva visibilmente quella tendenza avversa e innaturale che ha origini lontane ma che nel giro di pochi giorni (anche in questo modo e con questa rapidità si manifesta l’irreversibilità dei processi naturali di cui da molto tempo ci parlano gli scienziati) ha fatto riprecipitare l’intero pianeta sul bordo del baratro, preda questa volta del Coronavirus.

Ma chissà quale altro baratro ci riserva il futuro.

Tornare allo “stesso”, insomma, sarebbe una vera sconfitta per il genere umano in questa lotta impari contro un siffatto virus coronato, il quale è stato capace con una sola mossa di mettere in scacco l’intera umanità.

Eppure, in virtù di una sempre imprevedibile eterogeneità dei fini, intesa come corollario del principio della necessaria priorità del negativo, in virtù di una sorta di positivo contrappasso cosmico, proprio questo virus inghirlandato, con tutte le migliaia di morti che continua a mietere in tutto il mondo – morti a cui ben presto ci abituiamo e che altrettanto rapidamente dimentichiamo –, esso, nonostante la sua subdola letalità, è riuscito ad aprire nel nostro duro carapace una breccia.

Proprio attraverso questa incrinatura, durante il periodo di isolamento abbiamo avuto modo di vedere sotto una nuova luce non solo il mondo esteriore, ma anche il mondo interiore: li abbiamo visti entrambi diversi, più pacificati, più abitabili, più accoglienti; simili al cielo limpido e immensurabile di Austerliz che in Guerra e pace il principe Andrej Bolkonskij vede su di sé in attesa di una possibile morte, o ai sublimi Firmaments e ai Planets di James Brown.

Li abbiamo visti come in un sogno da cui, proprio ora che si è entrati nella fase 2, avremo voluto quasi non essere più risvegliati; li abbiamo visti cioè così come ce li immaginiamo segretamente dentro di noi e come, volgarizzandoli, nel mondo “normalizzato” ce li presentano i dépliant turistici o i testi catechistici. In entrambi i mondi abbiamo colto nuove sfumature, nuove sfaccettature, nuove possibilità che per varie ragioni siamo stati costretti ad accantonare per realizzarne delle altre; possibilità che, essendo rimaste allo stato latente, risultavano persino ignote a noi stessi quando meravigliati le abbiamo ritrovavate in quel vuoto, in quel silenzio e in quella solitudine, sia esteriori che interiori.

Uno dei momenti più intensi e pieni di sconcerto che un po’ tutti, cercando di sfuggire alla morte, abbiamo avuto modo di vivere durante la lunga segregazione forzata, è stato certamente assistere al volo degli uccelli sulla campagna o sulla città, perché con il loro verso ecoico marcavano la tanto incredibile quanto benefica assenza degli esseri umani in esse.

Era insomma come se dentro di noi quel virus avesse destato quelle possibilità dal lungo sonno imposto ad esse dalla modernità e poi anche dalla postmodernità, dalle società evolute e dalle loro leggi, dalle loro ragioni, dalle loro scelte, dalle loro tendenze.

Tendenze che hanno reso quelle possibilità, oggettive e soggettive, sociali e individuali, delle utopie, le quali, seppure come mere illusioni, come visioni intorpidite, riuscivano tuttavia a guidare il nostro incerto cammino dentro i sentieri sempre più asfittici delle società opulente e distopiche.

Prigioniere della loro agitata veglia, ostaggi della loro devastante insonnia, queste società, insomma, riuscivano finanche a utilizzare e a sfruttare utopisticamente quelle idee per realizzare la loro distopia.

Sicché, pur volendo in teoria realizzare in terra il più perfetto dei mondi possibili, una sorta di paradiso terrestre, esse in realtà mettevano mano al perfezionamento continuo dell’inferno, di quella specie di gheenna, di gorgo infuocato, potenzialmente in grado di risucchiare l’intera umanità in una sola volta.

Voler tornare alla “normalità” significherebbe allora riportare quelle possibilità umane, sia quelle sociali che quelle individuali, allo stato di latenza, equivarrebbe a richiudere quello squarcio, a spegnere quel baluginio, quella luce nuova che da esso riusciva a filtrare e che ci ha consentito di scoprire il volto sommerso, represso e dolorante del mondo esterno e di quello interno; tornare allo “stesso” vorrebbe dire insomma estinguere il sogno e con esso anche l’utopia di un mondo diverso, di un’umanità nuova.

Sicché, anche in questo momento di scelte radicali, a fronte di un generalizzato e incontenibile desiderio di tornare alla vita “normale”, ora che proprio quel “benedetto” virus stephanódes, cioè a forma di corona, era riuscito ad aprire quella breccia di luce salvifica dentro la ferita purulenta dell’umanità, proprio adesso valgono ancora e sempre nella storia umana le parole dell’apostolo: “la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie” (Gv 3, 19).

Ivrea, 30 maggio 2020

 

Franco Di Giorgi

Coronavirus

 

Coronavirus A che punto è la notte di Franco Di Giorgi

A che punto è la notte?

 

da’ al tuo dolore le parole che esige

(Macbeth, atto IV, scena III)

La velocità di diffusione di un virus che infetta le vie respiratorie di un essere umano fino a provocarne la morte è forse minore rispetto a quella con cui l’impollinazione e la disseminazione riproducono la vita. Quando però l’equilibrio coevolutivo tra differenti esseri viventi viene stravolto da una innaturale osmosi tra diverse specie di animali, allora la rapidità di quella diffusione aumenta rispetto alla riproduzione della vita. Da tempo, a fronte di segni evidenti di squilibrio naturale, gli esperti ci ripetevano quello che oggi purtroppo ci confermano: un tale squilibrio è provocato dall’evoluzione ecologicamente irresponsabile della specie umana, la quale ha nel frattempo imparato astutamente a difendersi da pericoli virali simili, cioè a differire nel tempo un’estinzione che meriterebbe per i danni che ha arrecato all’ecosistema, avendo approntato rimedi farmacologici in grado di proteggersi dai virus, ma non di liberarsene definitivamente. Già questo legittimerebbe a dire che la veloce diffusione virale della morte non è altro che il conseguente rovescio della medaglia, ossia il processo opposto a quello altrettanto veloce in cui si propaga la vita sulla terra; e che dovremmo almeno imparare a espiare le nostre colpe cominciando a ripetere le parole di Giobbe: «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore! […] Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?» (Gb 1, 21; 2, 10).

La natura dell’agente patogeno sembra allora essere analoga a quella che ha il male per gli Epicurei e per Lucrezio, vale a dire razionalmente contrastabile, ma non eliminabile. Incapaci di autoriprodursi, questi virus sono dei parassiti che per sopravvivere e moltiplicarsi hanno bisogno delle cellule, di microrganismi vegetali o animali. Sicché senza un vaccino che possa frenarne o arrestarne il veloce ciclo riproduttivo dopo un periodo di incubazione, la loro infezione, cioè la loro azione patogena, può provocare altrettanto velocemente la morte degli organismi ospitanti. Così facendo, queste entità, che sono dell’ordine dei nanometri e che si possono considerare al confine tra il mondo dei viventi e il mondo dei non viventi, riescono ad assimilare a sé gli esseri umani, trasformandoli, anche solo nell’attesa forzosa e ansiosa della quarantena in casa, in altrettanti enti eraclitei oscillanti tra il vivente e il morente. Molti degli infettati infatti non sanno di esserlo e questa ignoranza è lo stratagemma che il virus usa per aggirare la nostra astuzia e per potersi propagare. Ma è grazie all’intelligenza, si legge ancora nel Giobbe (Gb 28, 28), che l’uomo può schivare il male che gli giunge dalla sua ignoranza; l’uomo che, si legge nel secondo coro dell’Antigone, pur non trovando scampo alla morte sa tuttavia trovare rimedio anche ai mali immedicabili.

 Come si vede, anche a questo livello biologico, siamo dinanzi a una lotta intima fatta di mosse e di contromosse tra il vivente e il non vivente, tra la vita e la morte. E se con Macbeth ci chiedessimo «A che punto è la notte?», con Lady Macbeth potremmo rispondere: «Prende a lottare con il mattino, per decidere qual dei due prevalga». Solo che, direbbe Malcolm, «Lunga è quella notte che non riesce a trovare il giorno». Ci viene in mente il Macbeth solo perché lo abbiamo riletto di recente in vista della rappresentazione del 5 marzo al Teatro Stabile di Torino, saltata purtroppo proprio a causa del Coronavirus. Si tratta di astuzie, di inganni e tradimenti che in ogni tempo affliggono l’earthly world, il «mondo basso» in cui vivono gli uomini e nel quale, dice Lady Macduff, «le cattive azioni son spesso lodate, così come le buone s’hanno la reputazione di perniciosa follia»; un mondo (la Scozia degli inizi del Seicento) da cui il marito, il nobile Macduff, era fuggito disgustato dai vizi (evils) che ammorbavano la sua patria.

E in effetti, pur non potendo oramai sfuggire all’onda avvolgente del virus, a un simile autoesilio spingerebbero le basse astuzie di qualche nostro politicante, usando il proprio personale cavallo a dondolo come un cavallo di Troia: chi inserendo astutamente membri del proprio neonato partito nella compagine governativa, chi volendo a tutti i costi, in quanto opposizione, essere inserito nei prossimi dpcm, in modo da poter così predisporre le cose per il proprio futuro e, quel che è peggio, anche per quello dell’intero Paese. Sfortuna vuole infatti che tutta questa emergenza virus stia facendo andare le cose proprio nel verso che vorrebbero i sovranisti. Una volta superata questa crisi, approfittando dell’emergenza sbarchi, passata in secondo piano in questi giorni di lutto e di abbandono, essi sicuramente rimetteranno con maggior vigore il piede sull’acceleratore della paura e ogni loro richiesta in merito alla chiusura nei confronti di stranieri e migranti non potrà che essere assecondata. Dopo l’emergenza del Coronavirus riemergerà dunque l’emergenza dei flussi migratori, ma questa volta troverà ancora meno persone ad occuparsene, perché molti avranno timore di un qualsiasi contatto con gli stranieri, anche se il pericolo – questo ci ha almeno insegnato il Covid-19 – continuerà a provenire da noi stessi. Oltre all’emergenza virus e a quella migratoria, dovremo dunque ben presto ritornare a fare i conti anche con quella terza emergenza che abbiamo dovuto necessariamente accantonare, cioè quella altrettanto subdola dell’avanzata dell’estrema destra nel mondo. Anche questa è infatti una pandemia virale.

30 marzo 2020

Emergenze Castigo

La tempesta perfetta delle emergenze come castigo

di Franco Di Giorgi

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«Non so quello che mi aspetta né quello che mi accadrà, dopo. Per il momento ci sono dei malati e bisogna guarirli. Poi, essi riflette­ranno, e anch’io. Ma il più urgente è guarirli; io li difendo come posso, ecco. […] se l’ordine del mondo è rego­lato dalla morte, forse val meglio per Dio che non si creda in lui e che si lotti con tutte le nostre forze contro la morte, senza levare gli occhi verso il cielo dove lui tace» (il dottor Rieux ne La peste di A. Camus (1947), tr. it. di B. Del Fabbro, Bompiani, Milano 1964, XIIª ed., pp. 121-124).

I

Prendo spunto dall’articolo di Marco Revelli (In medio stat virus, in volerelaluna, 11.3.2020), in cui si dice che se in Italia abbiamo solo 5.000 posti in rianimazione, rispetto ad altri paesi europei che ne hanno il quadruplo se non il quintuplo, ciò deriva da precise scelte politiche, e più precisamente da quelle che «hanno portato in dieci anni a negare 37 miliardi dovuti alla sanità e a tagliare 70.000 posti letto chiudendo quasi 800 reparti». Tagli che, come si sa, si sono dovuti praticare a causa della spending review resasi necessaria con la crisi finanziario-economica del 2008.

Chiaro. Ma se è in parte a questi tagli e ad un tale causa che si debbono in definitiva le evidenti difficoltà e le inaudite conseguenze che (dopo i Cinesi) noi Italiani stiamo subendo con la pandemia del Coronavirus, esiti che lo stesso studioso delinea nel suo contributo azzardando addirittura un confronto con la Selekcja di Auschwitz, non è forse agli stessi tagli e alle medesime cause che si debbono anche gli effetti visibilmente nefasti anche nel settore dell’istruzione e dell’educazione? Certo, non c’è paragone tra un effetto e l’altro quanto a pericolosità e forse non sarebbe neppure opportuno farne in momenti catastrofici come l’attuale. È tuttavia indubbio perlomeno che entrambe hanno la loro causa nella decisione di affrontare in quel modo quanto meno poco lungimirante la spending review.

Pur essendo pressati dall’emergenza virus, non bisognerebbe infatti dimenti-care che essa ha nel frattempo messo a tacere un’altra emergenza, quella contro cui, prima dell’abbattersi del Covid-19, non solo l’Italia ma l’Europa intera stava cercando di opporsi: l’affermazione dell’estrema destra, stimolata tra l’altro da un’ulteriore emergenza, quella dei profughi siriani espulsi dal governo turco. Si tratta di quella stessa destra che, a partire almeno dal 2015, con la questione della Grexit, continua ancora a mettersi in luce a Lesbo, là dove è stato detto «finisce l’Europa» (cfr. l’articolo di Annalisa Camilli A Lesbo finisce l’Europa, in volerelaluna, 5.3.2020).

Cosa c’entrano i tagli alla scuola con il neofascismo? C’entrano e come! Perché il fascismo in Italia, dice ad esempio Christian Raimo nel suo interessante lavoro (Ho 16 anni e sono fascista. Indagine sui ragazzi e l’estrema destra, Piemme, Milano 2018), sembra essere diventato quasi una moda, una posa, un modo d’essere e di comportarsi, non solo tra i millennials, tra i giovani dell’ultima generazione. E questo, avverte dal suo canto Luciano Canfora, ossia «Il fatto che giovani e giovanissimi, nelle nostre scuole – pur dopo lo sforzo illustrativo e commemorativo di ricorrenze capitali (da ultimo l’LXXX delle “leggi razziali”) –, si proclamino orgogliosamente “fascisti” non è una febbricola passeggera di cui disinteressarsi» (Fermare l’odio, Laterza, Bari 2019). Ora, il fatto che poco sappiano di storia, non dipende certo da loro. Non c’è dubbio, infatti, che da almeno una ventina d’anni, la scuola è visibilmente sotto attacco, sotto una specie di subdolo assedio da parte del «sovranismo nero», un assalto che «passa», dice lo storico, «attraverso la cosiddetta “autonomia”».

Insomma, se da un lato le conseguenze dei tagli alla sanità si notano soprattutto oggi, come dei dolorosi nodi al pettine, con le difficoltà incontrate dagli ospedali italiani per fronteggiare l’emergenza virus, dall’altro lato le conseguenze dei tagli alla scuola (meno 7,4 miliardi nel 2007, meno 10 miliardi tra il 2008 e il 2012, meno 4 miliardi nel 2019), e quindi dei mancati investimenti nel campo educativo e culturale in senso lato, si notano nella generale precarizzazione dell’insegnamento, nell’opzionalità dello studio, nel totale smantellamento del comparto scuola. In effetti, col passare degli anni, a partire dalla riforma Berlinguer, le scuole sono vieppiù diventate dei comodi Commercial Park Study Center, ossia Centri di Assistenza o di Accoglienza con l’Opzione allo Studio. Qui, in ultima analisi, anche a causa del taglio delle ore in alcune discipline formative come la storia, le conseguenze si registrano in una formazione e in una preparazione altrettanto incerte e poco strutturate dei giovani. Il metodo dell’e-learning, della didattica a distanza – impostosi in questi giorni a causa del pericolo della diffusione del virus nelle scuole, ma prefigurata già una quarantina di anni fa da Jean-François Lyotard ne La condizione postmoderna, 1979), rientra anch’esso in questa tendenza smaterializzante e ipervirtualizzante, in questo progetto di “liquidazione” della scuola. Sicché se era già difficile, anche con la compresenza di docenti, testimoni e storici, riuscire a insegnare ad esempio la Resistenza o la Deportazione, ancora più difficile se non impossibile lo sarà attraverso una piattaforma didattica. E così il cerchio, come si vede, si chiude. Tout se tient.

Ciò consente pertanto di dedurre che anche quella dell’odio razziale, proprio come quella del Coronavirus, non è una semplice e normale febbriciattola da prendere sotto gamba. A fronte di questa tempesta perfetta, in cui le emergenze si sommano anziché elidersi, al fondo di tutte queste urgenze resta una domanda, dice Domenico Gallo: «una civiltà che precipita un popolo di profughi nell’area dei sommersi, ha le risorse morali per salvarsi dal virus del pipistrello?» (cfr. La doppia epidemia, in volerelaluna 6.3.2020). Una domanda che trova una risposta e una conferma altrettanto pessimistica in una frase lapidaria di un superstite della Shoah, una sentenza che fa un po’ da sintesi a tutte quelle emergenze: «Auschwitz non sarà stato altro che fumo, se l’umanità non saprà trarne la sua lezione; e del resto, se Auschwitz dovesse essere dimenticato, come se non fosse esistito mai, l’uomo avrà dimostrato di non meritare che la sua esistenza si perpetui» (Ka-Tzetnik 135633, La fenice venuta dal Lager, Mondadori, Milano 1969).

II

Comunque sia, il Coronavirus rappresenta una netta smentita delle convinzioni razziste o sovraniste, perché si sta prendendo dolorosamente coscienza del fatto che il pericolo non giunge più soltanto da un particolare “altro”, da una particolare etnia o anche da uno “strano” tipo di essere umano, ma da ogni essere umano, divenuto potenziale portatore del virus, potenziale untore. Potrebbe provenire quindi da ogni “straniero”. Ma il medesimo batterio sta cancellando inesorabilmente anche l’idea stessa, la categoria mentale non solo di straniero o di “forestiero”, ma anche di “frontiera” o di “muro” dietro cui fino a ieri era possibile limitare (anche dietro lauto compenso) gli eventuali effetti indesiderati della sua semplice presenza. Giacché dinanzi al Covid-19 si è non solo tutti uguali, ma si è diventati anche “stranieri a se stessi”. Non siamo più infatti quelli che credevamo di essere: siamo “altro” da noi stessi, “altro” da come eravamo. Per certi versi, se pensiamo a tutto il personale sanitario, più solidali come il dottor Rieux, più veri, più pudichi, e per altri versi, comunque, anche più egoisti a causa dell’inestirpabile istinto di conservazione. Forse in ogni caso migliori di come ritenevamo di essere. Ma – domanda – si può essere migliori e più solidali solo di fronte a una pandemia? Non possiamo esserlo anche senza o prima della pandemia o prima di una guerra? Questo tipo di predisposizione mi sembra rimetta sul tappeto una questione formativa e culturale fondamentale che spesso resta inevasa.

Proprio nel senso di quell’eguaglianza, si può altresì affermare che siamo in tutta evidenza di fronte a una pandemia, ossia a un contagio di portata universale: un banale microbo, un microrganismo semplice ed elementare dispone di una epidemicità planetaria, capace di contaminare potenzialmente tutta quanta (pan) la popolazione (demos) del mondo. Esso assimila nella potenzialità contagiante. Non affratella ancora nell’amore, ma lo fa almeno nella possibilità della morte. E ci ricorda che noi, come tutti gli esseri viventi, le apparteniamo, apparteniamo alla morte, quasi nello stesso modo arcano in cui il popolo di Israele apparteneva a Yahweh. Come Dio, infatti, crea l’uomo attraverso l’adamàh, la terra e il fango, nello stesso modo noi discendiamo dalla morte, cioè dall’inorganico, a cui ritorniamo, perché vi apparteniamo, misteriosamente, enigmaticamente, magmaticamente.

Non solo. Grazie a questo germe stiamo altresì divenendo consapevoli del fatto che il pericolo non giunge solo dall’uomo in generale, dall’uomo in quanto tale, ma anche dal mondo che esso ha fin qui gestito e predisposto, nonché da tutti gli oggetti che, avendoli prodotti e nominati, li ha con ciò stesso contagiati. Non ci resta, così, che gestire e toccare noi stessi, non senza però esserci per bene ripuliti le mani con detergenti che, peraltro, non certo a tutti, ma per taluni risultano anche nocivi. Ora scopriamo insomma che anche noi, in quanto appunto uomini, siamo contagiosi a noi stessi, costituiamo un pericolo per noi medesimi.

Anche perché il mondo ci si è ridotto paurosamente attorno a noi e siamo obbligati a vedercela con noi stessi, a lottare, chiusi in una cella come tanti Giacobbe con noi stessi più che contro Dio. Siamo costretti, cioè, a un duro e concreto solipsismo, vissuto però come un castigo, come una palla al piede, specie per noi postmoderni, educati a vivere sempre “lontano” da noi stessi, con la mente “altrove”, a far passare il tempo nutrendo sogni e utopie, a trovare sempre qualcosa da fare e con cui trastullarci, “divertirci”, divergere comunque da noi stessi. Ah, il tempo! Per tutto quello che dovevamo fare prima del passaggio del virus il tempo non ci bastava mai: vivevamo sempre di fretta, correndo assai più veloce del tempo stesso. Ma il virus non ha nessuna fretta e ci costringe a una lentezza a cui non siamo affatto avvezzi. Ora, quasi per rieducarci, per farci scoprire quello che siamo sempre stati veramente e da cui ci eravamo illusi di aver preso definitivamente congedo, il Coronavirus ci costringe e ci riconduce a una condizione umana premoderna dimenticata e messa rapidamente da parte, perché è come se di fatto fossimo stati “arrestati”, bruscamente reclusi e forzati a convivere fianco a fianco, ora dopo ora, con noi stessi, a parlare con noi stessi e di noi stessi, indotti ad ascoltarci e ad accorgerci con amara sorpresa che tutto quello che dicevamo prima di quella pandemia, di quell’inatteso castigo, non era che suono cacofonico e per più versi insignificante, puro e inutile flatus vocis.

Ciò significa che la virulenza del virus ci costringe anche al silenzio, ad ascoltare i nostri silenzi e, assieme ad essi, quindi, anche il ronzio di qualche mosca, che proprio ora, in questi strani momenti si avverte confondendosi con il nostro respiro affannoso e quasi asmatico, una mosca che, svolazzando annoiata, si diverte rimbalzando da noi al nostro vicino. Questo era, direi a tutti gli esegeti che li criticano, il reale rischio che corsero gli amici di Giobbe quando andarono a fargli visita, nonostante che l’Uzita fosse stato toccato dalla piaga maligna, dalla tremenda shechìn ra‘ che Dio, su richiesta di Satana, acconsentì di fargli provare.

Ecco, sì: il respiro. Ma è proprio da quest’ultima essenza dell’umano e del vivente in generale, da quello stesso soffio, dalla ruàḥ che Dio ha insufflato nella nostra adamàh, nella nostra materia inorganica (a cui, virus o non virus, dobbiamo fare ritorno), che deriva il pericolo: è di esso che si nutre il virus, è grazie ad esso che si propaga, che ci tocca e che ci contagia.

Non dovremmo pertanto nemmeno respirare per non dargli la possibilità di diffondersi. Dovremmo paradossalmente pensare all’estinzione per sconfiggere il Coronavirus. Dovremmo creare il deserto attorno ad esso, giacché è degli uomini, della loro vita e della loro morte che esso ha bisogno per crescere e moltiplicarsi. Eppure non è così. Perché è proprio per aver creato un tale deserto sulla Terra, per aver desertificato il mondo, per aver reso il piccolo giardino delle delizie una immensa discarica a cielo aperto, che il virus ha avuto agio di propagarsi.

Alla fine, a farci da “altro”, da “prossimo” nel duro e incerto periodo della piaga maligna, del flagello, oltre alle noiose mosche, avremo ancora le locuste, le immancabili cavallette. Giacché ad essere allontanato e in qualche modo negato da questo virus è anche il cosiddetto “prossimo”, il quale, proprio per essere riscoperto nel suo profondo valore, dovrà mantenersi intollerabilmente a debita distanza, come la fidanzata per Kierkegaard o come l’essere per Heidegger. Dovremo abituarci a pensare che “prossimo” è ciò che ci si deve dare nella distanza. Il rapporto con il “prossimo” non potrà che essere virtuale e come tale inappagante. L’unico appagamento che potremo ancora avere è quello con noi stessi, perché noi stessi siamo stati costretti dal virus a ciò che ci è “più prossimo”, cioè a “noi stessi”, a noi viventi che viviamo nel costante pericolo dell’auto-contagio, in silenzio, in apnea, con la continua paura dell’auto-estinzione.

Ma avremo almeno il tempo per provare questo timore? Sapremo far fronte a questo pericolo dell’auto-estinzione? Ora infatti ne va non solo della vita del nostro futuro, ma del futuro della nostra vita. Tutti i nostri sforzi sono unanimamente tesi a scongiurare un tale rischio, mentre con il passare delle ore le note dell’inno di Mameli cominciano stranamente a commuoverci e la parola “patria” ad assumere il suo pieno significato. In questo disperato tentativo, come sempre, ci sostiene qualche residuo culturale, qualche frammento poetico. Ad esempio i versi di Novalis e del primo dei suoi Inni alla notte: tu mi hai annunciato la notte per la vita – mi hai reso uomo. Quelli celeberrimi di Hölderlin in Patmos (l’isola greca che fu terra d’esilio per l’apostolo Giovanni): Ma là dove è il pericolo, cresce / Anche ciò che ti salva. Quelli dalla sublime semplicità de La Quiete dopo la tempesta di Leopardi: Passata è la tempesta: / Odo augelli far festa, e la gallina, / Tornata in su la via, / Che ripete il suo verso.

Sì, grazie a questo virus, compresi e compressi come siamo nel nostro essere piegati su noi stessi, e dunque per necessità più prossimi a noi stessi, nella reale possibilità dell’auto-estinzione, in questo asfittico e repentino restringimento del mondo, sì ora, finalmente, siamo in grado di intuire e di prevedere con questi nostri amici poeti che la tortora continuerà a richiamarci – tutùutu! – emettendo il suo tubare lamentoso, la coccinella assieme alla cimice proseguiranno la loro lenta e insensata marcia verso il nulla, il gallo seguiterà a cantare nelle scialbe aurore del mondo e l’eco risuonerà invano per la campagna desolata.

IVREA, 16 MARZO 2020

Indifferenza e individualismo

 

L'Italia tra indifferenza e individualismo

indifferenza e individualismo

L’Italia tra indifferenza e individualismo

di Franco Di Giorgi

Articolo originale: L_Italia tra indifferenza e individualismo

Dalla minuziosa analisi di Franco Astengo delle recenti elezioni regionali risulta che, premiando più Fratelli d’Italia e meno la Lega Nord, soprattutto con il sorprendente calo del Movimento 5 stelle (nonostante la sua lotta per il reddito di cittadinanza, di cui molti italiani poveri hanno potuto usufruire), nell’elettorato, indipendentemente dalla vittoria di Bonaccini come candidato del PD in Emilia Romagna e della Santelli in Calabria come candidata di Forza Italia, si è evidenziata, grazie anche al voto disgiunto, la tendenza al bipolarismo, cioè a votare o a destra o a sinistra e non più tanto i partiti che non vogliono essere né di destra né di sinistra come appunto il M5s, o quelli di destra che cavalcano temi della sinistra, come la Lega.

In tal modo, per la famosa legge dei vasi comunicanti, riequilibrando il sistema in base alla posta in gioco nelle singole regioni, le preferenze ritornano alle loro appartenenze naturali: i voti precedentemente acquisiti dal M5s rifluiscono nel PD e quelli in precedenza conquistati dalla Lega ritornano parte in Forza Italia (in Calabria) e parte in Fratelli d’Italia (in Calabria e in Emilia Romagna).

Ciò premesso, se a due giorni dalla suddetta chiamata alle urne possono da un lato risultare comprensibili le dimissioni di Di Maio come responsabile del M5s, restano invece ancora tutte da capire o perlomeno da spiegare, dall’altro lato, le ragioni dell’affermazione al sud di un partito a naturale vocazione nordista come la Lega Nord, pur nella chiara consapevolezza che la partita per il centro-sinistra non si è affatto conclusa con la conquista dell’Emilia Romagna, giacché ora, o da qui a qualche mese, la posta in gioco si sposterà in altre regioni, soprattutto in Campania.

A tal proposito ancora più importante diventerà il movimento delle Sardine, le quali hanno infatti già dichiarato che orienteranno la loro azione coinvolgente e aggregante verso quella regione, con epicentro a Scampia.

Con questo nuovo riassestamento delle forze politiche a livello regionale, specie dopo il già ricordato risultato deludente dei Pentastellati, non potrà non risentirne anche l’equilibrio interno alla stessa compagine governativa, e quindi, di riflesso, anche l’intero paese.

Giacché proprio ora, nonostante questo parziale sommovimento politico, l’alleanza PD-M5s, sebbene differenti siano per il momento i loro giudizi in generale sull’Europa, deve tuttavia continuare a dare prova di serietà e di responsabilità con quel duro e difficile lavoro che si è impegnata a svolgere per salvare il paese non da una destra liberale e moderata, ma da una destra razzista e da un sovranismo rovinoso.

Certo, l’Italia non è il solo paese europeo a dover affrontare una tale compito, ma è forse uno dei pochi che deve farlo mentre tenta contemporaneamente di superare la crisi economica e mentre è alla ricerca continua di un sistema elettorale ad esso più confacente.

Ne viene fuori, insomma, un paese senza basi economico-politiche stabili e per di più in continua campagna elettorale. Un paese soprattutto senza idee e senza un programma organico per il futuro.

Certamente, a causa dell’ennesima crisi economico-finanziaria generata dal sistema capitalistico, di una crisi che si inanella attraverso guerre opportune con il selvaggio sfruttamento delle risorse e quindi dell’ambiente, nonché con il conseguente fenomeno migratorio, si creano le condizioni di una perfetta tempesta cosmica, per salvarsi dalla quale ogni essere vivente, ammesso che riesca a sopravvivere alle fiamme e alle inondazioni, oppure alle nuove malattie, alla povertà e alla miseria, è costretto a ricorrere al bellum omnium contra omnes, alla guerra di tutti contro tutti, all’homo homini lupus, che sono poi le massime che ritroviamo a fondamento del pensiero delle destre e delle politiche antisocialiste o neoliberiste.

Questo è il tipo di tempesta che esse cercano in tutti i modi di generare o almeno di in-generare, cioè di rappresentare e di offrire attraverso i media alla percezione condizionabile degli individui.

Infatti, malgrado un tale pericolo non si dia che nella percezione, diventa necessario per le destre ridurre il cittadino da essere sociale e politico a individuo isolato, ossia a-sociale e a-politico, in modo tale che esso possa così esperire con timore e tremore tutto il suo isola-mento e quindi tutta la sua debolezza e “prendere per vero” quello che non lo è.

Ma un tale individualismo non può realizzarsi pienamente se non quando diventa sistemico, cioè quando viene reso un fenomeno ideologico, un elemento culturale se non addirittura antropologico, quando viene fatto rientrare capillarmente nel sistema sociale, come status, come mo-dello relazionale indispensabile per il funzionamento di tale sistema.

Allorché, insomma, diventa istintivo e normale che ognuno competa e lotti solo per sé come un lupo, quando per la propria autoconservazione si è disposti a sopraffare gli altri, ecco che allora questo model-lo raggiunge la sua forma civilmente e politicamente accettabile, la quale ha però la sua forma ideale nel “sistema Lager”.

Traslato sul piano nazionale, questo individualismo ha il suo corrispettivo nell’attuale sovranismo o nel neo-nazionalismo, mentre sul piano sociale lo ha nei luoghi sempre più ristretti ed “esclusivi” che rappresentano, secondo il sociologo Alessandro Casiccia, segni di “esclusione” all’interno di società opulente e competitive, «luoghi di opulenza» o «cittadelle del privilegio», come ad esempio il modello Greenwich Village o il downtown, che marcano la loro differenza, la loro distanza dal Bronx, dalle periferie, dalle banlieue.

A ragione oggi, specie nelle ore che scorrono intensamente intorno alla Giornata della Memoria, si continua a ribadire che sia proprio questo individualismo esasperato ad essere alla base del “sistema Lager”, e che esso, questo egoismo, con la sua costitutiva indifferenza, rappresenti il modo più efficace per segnare in profondità le differenze e per evidenziare le discriminazioni. Proprio la senatrice Liliana Segre, questa preziosa testimone della nostra storia, ha sempre voluto evidenziare, e non solo di recente, la pericolosità insita nell’indifferenza.

E a questo riguardo non si può non ritornare sul fatto scandaloso che proprio ad essa, a una ex deportata di Auschwitz, l’Italia, unico paese al mondo, abbia dovuto assegnare una scorta. – Vergogna!

Pur condividendo appieno le ragioni per le quali viene evidenziata e chiamata in causa, la parola indifferenza ci sembra tuttavia troppo astratta, spirituale, culturale, lontana dal suo reale significato, perché si ha come l’impressione che in qualche modo essa ne copra o ne di-storca il senso originario, più materiale e certamente più crudo, che ritroviamo invece nell’individualismo, in quell’atteggiamento che, come abbiamo visto, discende direttamente dall’istinto di autoconservazione e che prelude alla brutale lotta di tutti contro tutti. In altre parole ci pare che l’indifferenza sia un termine che veli quel “meccanismo vittimario” che in La route antique des hommes pervers (1985) René Girard ha saputo cogliere così bene, un di-spositivo, anzi una predisposizione neurologica che purtroppo non si trova già solo nella testa di alcuni individui indifferenti e razzisti, ma in quella di tutti quanti gli uomini, nel cervello dell’anthropos, dell’homo sapiens, compresa quella dell’uomo inteso biblicamente come adamàh, come terra.

Più che opportuna a tal riguardo la scelta di Beppe Casales nel suo spettacolo Nazieuropa, quando si sforza di chiamare le cose con il loro nome, cioè facendo risalire, ad esempio, l’odio razziale non tanto a un portato culturale, quanto piuttosto a una matrice neurologica, dalla quale quel portato discende e si forma.

È proprio per questa inestirpabile radice malefica dell’individualismo, tra l’altro, per questa naturale inclinazione al male che Dio stesso, nel Genesi, ebbe addirittura a pentirsi della sua creatura, vedendosi costretto a disfarsene quasi totalmente e a cancellarne ogni traccia dalla faccia della terra, sperando alla fine nella fede di un solo uomo giusto, in Noè. Ad ogni modo, quel meccanismo di Girard si rimette istintivamente in moto ogni qual volta la storia propone e spinge con violenza sulla sua scena cangiante il bouc émissaire di turno (è il titolo di un’altra opera del 1982 dell’antropologo francese), un nuovo “capro espiatorio”.

In una pagina di Linguaggio e silenzio (1967) di George Steiner, inoltre, abbiamo trovato l’espressione “nodo odioso”, con la quale lo scrittore francese tenta di definire l’ineliminabile connaturalità di un siffatto meccanismo. Si tratta dello stesso “nodo” che angosciò Jaspers quando dovette parlare non solo e non tanto della colpa dei tedeschi, della Germania, ma anche dell’uomo in generale e della colpa metafisica; una colpa che emerse quando, a suo tempo, après coup, après le déluge, il mabul, si poté prendere coscienza del fatto che era stato proprio quel maledetto/benedetto meccanismo a far sì che il capro espiatorio di turno venisse sacrificato senza che nessuno prendesse le sue difese, anche a rischio di essere annientati con lui. Raul Hilberg inquadrava questi colpevoli indifferenti nella categoria dei Bystan-ders, degli “spettatori”.

E risiedeva probabilmente sul suo insistere proprio su un tale “nodo odioso” – visto come un nodo che, specie all’epoca del nazionalsocialismo, stringeva la gola, la mente e il cuore degli europei (nello stesso modo forse in cui nell’Esodo Yahweh stringeva il cuore del faraone) – il motivo che ha deciso nel 2002 l’assegnazione del premio Nobel per la letteratura a Imre Kermesse, un altro ex deportato ungherese di Auschwitz e di Buchenwald. Il razzismo nazista, diceva infatti l’autore di Essere e destino (1975), è un prodotto della cultura e della storia dell’Europa.

E in fondo, in ultima analisi, quell’immensa e cupa vergogna che Primo Levi, costretto con molti altri a risiedere su quella soglia tra l’umano e il disumano che ben conosceva Paul Celan, al punto che non sapeva più Primo se questo era un uomo oppure no, ebbene questa tremenda vergogna che egli, per tutti noi, provò dinanzi all’“ultimo” oppositore che pendeva da una forca di Auschwitz («Kamaraden, ich bin der Letzte!»), questa vergogna forse sgorgava non solo da quel “nodo odioso”, ma anche dalla consapevolezza di un irrimediabile falli-mento dello Spirito sulla Materia, dal fatto cioè che proprio quella storia e quella cultura europea che nei secoli erano state sviluppate con il preciso scopo di sottomettere e dunque di educare l’individualismo e l’indifferentismo, alla fine non si erano dimostrate affatto all’altezza di quell’immane compito formativo, educativo, correttivo e pedagogico e che anzi, forse a loro insaputa, li avevano addirittura conservati, alimentati e rafforzati; esattamente come accade con un virus letale, che, nella sua inattesa recrudescenza, rialza la testa quando il corpo umano si indebolisce, geme e piega la schiena.

Torino, 31 gennaio 2020

Rivolta di Ungheria

La rivolta di Ungheria nella lettura di “Les temps modernes” (gennaio 1957)

È stato pubblicato nella rivista bimestrale Critica marxistaSartre e la rivolta d’Ungheria del 1956- 57” questo mio saggio archiviato nella sezione: Archivio – Scritti storici – Articoli e saggi di questo sito.

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Rivolta d'Ungheria

Sergiio Dalmasso

Da wikipedia:

Les Temps Modernes

Storia

Il comitato direttivo fu fondato nel 1944 ed era composto da Raymond Aron, Simone de Beauvoir, Michel Leiris, Maurice Merleau-Ponty, Albert Ollivier, Jean Paulhan e Jean-Paul Sartre. André Malraux e Albert Camus, per ragioni differenti, rifiutarono di parteciparvi.

Il primo numero (ottobre 1945) fu pubblicato da Gallimard, che stamperà la rivista fino a dicembre 1948. Da gennaio 1949 a settembre 1965 la rivista passò alle edizioni Julliard, quindi (da ottobre 1965 a marzo 1985) presso le Presses d’aujourd’hui per tornare alle edizioni Gallimard da aprile 1985.

Rappresentante del desiderio di “engagement”, o impegno sociale, unito ai temi dell’esistenzialismo francese, la rivista, nel secondo dopoguerra, fu vicina al Partito Comunista Francese (PCF), cosa che portò Merleau-Ponty ad allontanarsi nel 1953 (anche Raymond Aron preferì sottrarsi quasi subito, preferendo scrivere su “Le Figaro”).

Il suo momento di maggior lettura fu negli anni sessanta del XX secolo, quando aveva circa ventimila abbonati e appoggiò il FLN algerino.

Tra le sue firme più note ci sono state anche quelle di René Étiemble, David Rousset, Jean Genet, Raymond Queneau, Francis Ponge, Jacques-Laurent Bost e Nathalie Sarraute, ma vi apparvero anche opere e interventi di Richard Wright, Boris Vian, James Agee, Alberto Moravia, Carlo Levi e Samuel Beckett.

Nel 1996 festeggiò il cinquantenario con un dossier speciale (n. 587).

Tra i numeri tematici recenti quelli sul femminismo (n. 593, 1997), sulla letteratura noir (n. 595, 1997), su Georges Bataille (n. 602, 1999), Claude Lévi-Strauss (n. 628, 2004), Frantz Fanon (n. 635, 2006), sull’eredità di Simone de Beauvoir (n. 647, 2008), su Franco Basaglia (n. 668, 2012) o su Jacques Derrida (n. 669, 2012).

Sinistra

FERRARIS, DE MONTICELLI E LA CRISI DELLA SINISTRA

 

                      di Franco Di Giorgi

 

La «razionalità ambivalente del progresso (..) soddisfa nel mentre esercita il suo potere repressivo, e reprime nel mentre soddisfa» (H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, p. 130).

 

1. – Per uscire dalla crisi in cui oggi si ritrova, la sinistra, secondo Maurizio Ferraris, non dovrebbe più tanto occuparsi della «socializzazione del plusvalore del capitale industriale» – questo compito, secondo l’ontologista torinese, essa lo avrebbe già pienamente assolto nel ventesimo secolo –, quanto piuttosto impegnarsi a socializzare il «plusvalore del capitale documediale», ossia quello cui mettono capo i Big Data, vale a dire quelli che rilasciamo (consapevolmente o no) ogni volta che ci colleghiamo al web o usiamo lo smartphone (cfr. il manifesto 19/4).

Non si pensi però che la differenza “industriale-documediale” corrisponda al rapporto “materiale-immateriale”, perché l’epoca della documedialità – ossia l’epoca «che ha reso possibile la postverità» e in cui la documedialità consiste nell’«unione tra la forza normativa dei documenti e la pervasività dei media nell’epoca del web» – non è affatto “liquida” come supponeva Bauman, ma «è al contrario», scrive il filosofo nel suo ultimo saggio, «l’epoca più granitica della storia, anche quando il granito prende la forma, apparentemente più lieve, del silicio» (Postverità e altri enigmi, il Mulino, Bologna 2017, pp. 13, 100).

Né d’altronde tale differenza epocale (produzione industriale-produzione documediale) si potrebbe far corrispondere al rapporto “reale-virtuale”, giacché il “virtuale”, da questa prospettiva ontologica “neorealista”, ha acquisito pienamente il valore di “reale” e quindi, in stretto senso hegeliano, anche di razionale.

Con la proposta di un neorealismo filosofico, pertanto, lo studioso non intende affatto prendere le distanze dal materialismo tout court: intende solo prendere congedo dal materialismo industriale e tentare di comprendere il nuovo realismo documediale, che ha il suo ontos on, la sua cosa in sé, il nocciolo duro e inemendabile nel silicio.

Con la sua proposta neo-modernista e post-industriale egli vuole dunque contrapporre la sua ontologia realista e documediale all’ontologia irrealista ed ermeneutica che caratterizzava il postmodernismo nell’era ancora industriale. Cerca insomma di confutare, ribaltare e modificare l’assioma nietzscheano “non ci sono fatti ma solo interpretazioni” con “non ci sono interpretazioni ma solo fatti”.

Una tale proposta critica viene inoltre avanzata sulla base di una semplice percezione, secondo cui i lavoratori, intesi come produttori industriali «sono una minoranza in via di estinzione», così come lo sono la fabbrica e il lavoro inteso come attività produttiva industriale.

Si tratterebbe tuttavia di vedere fino a che punto tale constatazione sia attendibile, giacché lo studioso riporta solo tre esempi di lavoratori manuali: i rider, i raccoglitori di pomodori e i magazzinieri di Amazon; i quali, s’affretta a concludere, svolgono un lavoro che ben presto verrà svolto dai droni.

D’altro canto, secondo certi guru creativi della comunicazione come Mooly Eden, anche l’istruzione già oggi sembra essere rimasta al Medioevo a fronte delle ignote new frontiers che le nuove tecnologie spalancano per il futuro (La Stampa 17/7).

Ma se, appunto, ci atteniamo alla realtà dei fatti, ai fatti nudi e crudi, se guardiamo cioè all’oggi del nostro Paese, ci accorgiamo che – almeno, secondo il parere di alcuni studiosi – la sinistra è in crisi proprio perché è stata troppo attenta alla realtà documediale, perché ha trascurato la realtà industriale, è stata troppo incline alla finanziarizzazione del lavoro e non al lavoro in cerca di solidi finanziamenti. Se proviamo ancora a calarci nelle “tiepide” acque di quella cruda realtà, ci avvediamo con sorpresa che i lavoratori esistono ancora, e come!

Così come esistono le industrie.

Il faticoso lavoro dei sindacati è quello di attestarne l’esistenza appellandosi a uno Statuto che la sinistra cool e digitalizzata (la sinistra del modello blairiano) si è premurata irresponsabilmente di archiviare, proprio per sostenere quella digitalizzazione e quella finanziarizzazione.

A creare disoccupazione e a determinare la chiusura delle fabbriche non è poi soltanto la digitalizzazione documediale e l’automazione in generale, ma anche, come si vede ogni giorno che passa, la più rude e selvaggia delocalizzazione (si pensi solo, fra gli ultimi casi, alla Pernigotti di Novi Ligure).

A partire dagli anni ’90, proprio con le politiche ispirate alla deregulation, il concetto di operaio e l’idea stessa di fabbrica sono stati brutalmente raschiati non solo dal vocabolario della destra, ma anche sorprendentemente in quello della sinistra.

E questa sistematica abrasione ha finito con il creare quel terreno comune, traballante e insidioso, in cui cominciò a dissolversi ogni differenza tra destra e sinistra.

Dopo l’89 (con crollo del muro di Berlino) e il 1991 (con la svolta della Bolognina), il saggio di Bobbio su Destra e sinistra, che è del 1994, scorgeva ancora nel valore dell’eguaglianza la «stella polare» della sinistra.

Ma intanto durante il faccia a faccia tra Prodi e Berlusconi in occasione delle elezioni politiche del 2006 si erano potute vedere in tutta la disarmante evidenza (specie nel candidato del centro-sinistra) gli effetti deleteri di quella abrasione concettuale.

Ora, mentre per Ferraris, come si è detto, la sinistra nel ventesimo secolo ha già assolto con successo i suoi compiti, per Bobbio, essa, specie sul fronte dell’eguaglianza, «non solo non ha compiuto il proprio cammino ma lo ha appena iniziato» (Destra e sinistra, Donzelli 1994, p. 86).

E ciò, alla luce delle attuali problematiche sociali e migratorie, non può che essere vero.

Così come non può che risultare vero anche alla luce dell’idea di Ricoeur, secondo cui occorre compiere l’incompiuto della storia, facendo non storia, ma la storia, idea che ha sviluppato in un intervento del 1994 (L’Europa e la sua memoria) e che rielaborerà successivamente anche in un più ampio saggio, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, del 1998.

Ci sembra di capire, insomma, da quanto scrive Ferraris, che se la sinistra vuole recuperare il consenso perduto in questi anni, anche nelle regioni cosiddette “rosse” a favore della Lega, dovrebbe smettere di criticare l’alienazione sociale (che, per quanto detto, non avrebbe più ragion d’essere) e farsi apertamente, ossia realisticamente sostenitrice del più cieco consumismo.

Un consenso che la politica neoliberista ha spostato a destra e del quale si tratta, appunto, di comprendere bene le cause di siffatto spostamento, tra le quali compare certamente quella relativa all’allontanamento della sinistra dal suo terreno naturale, cioè dai lavoratori, dal lavoro umano e materiale.

Giacché ciò che, nonostante tutto, deve continuare a contraddistinguere la sinistra è la tutela del lavoro e dei lavoratori soprattutto in epoche di profonde trasformazioni dell’attività produttiva, mentre tipico della destra è mettere da parte quella tutela al fine di una sempre maggiore e accelerata produzione, e ciò al punto di poter fare a meno anche della componente umana del lavoro, con tutto quello che ne consegue sul piano sociale, della disuguaglianza sociale e della disparità dei diritti.

Nella delocalizzazione industriale, infatti, ai proprietari d’azienda non interessano affatto i dipendenti né tanto meno il mantenimento degli stipendi del personale, ma solo la commercializzazione dei prodotti attraverso la terziarizzazione della produzione.

Una volta riconquistato il consenso perduto e con esso quindi anche il potere, la sinistra, si arguisce dal discorso di Ferraris, dovrebbe impegnarsi a fare dei provvedimenti legislativi che abbiano come obiettivo principale la socializzazione dei Big Data e soprattutto (ecco la chiave di volta dell’idea del filosofo) la tassazione delle grandi compagnie di raccolta dei dati.

La cui conservazione o registrazione consentirebbe di poter accumulare un capitale e un nuovo plusvalore, tassando il quale si potrebbe essere in grado di finanziare il welfare del XXI secolo o di coprire, almeno in parte, il costo delle manovre finanziarie.

Ecco, dunque, l’intuizione di fondo di Ferraris per un «welfare digitale», sostenibile, ad esempio, con i 250 milioni di euro che l’Ue chiede ad Amazon non tanto e non solo per i prodotti venduti al dettaglio sulla propria piattaforma, quanto per i market place, ossia per i rivenditori terzi che utilizzano tale piattaforma…. CONTINUA

Noa

 

Noa, la violenza e la forza della vitaNOA, LA VIOLENZA E LA FORZA DELLA VITA

 

di Franco Di Giorgi

 

La violenza è all’origine e quindi a fondamento della civiltà.

Essa veniva esercitata dal padre che possedeva tutte le donne che desiderava imponendo il proprio dominio all’interno dell’orda primitiva.

Noa Pothoven suicida

Se, nonostante il progresso dell’umanità, abbiamo ancora a che fare con essa, persino nella stessa forma arcaica, vuol dire che la violenza è inemendabile.

Gli stupri, anche quelli sistematici, sono ancora all’ordine del giorno.

Basta guardarsi attorno.

La storia è piena di abusi, di abusati e di abusanti.

Da ogni parte si moltiplicano le vittime e i carnefici.

In tutte le sue possibili manifestazioni, la violenza prolifica sotto i nostri occhi.

Attecchisce sotto i nostri piedi come erba infestante di cui i figli più odiosi di quei lontani dominatori posseggono i semi.

Essa si è talmente rarefatta e assottigliata che si può persino respirare nell’aria.

Difficile, per non dire impossibile, riuscire a non assimilarla.

Ci viene subdolamente servita attraverso il web e somministrata a dosi massicce dai media, in ogni istante della nostra giornata.

I nostri sensi e la nostra mente vengono continuamente offesi, aggrediti, assediati.

Non sembra esserci via di scampo alla violenza.

Ciò malgrado, l’umanità non si è mai arresa alla violenza.

Anzi, per limitarla e per limitarne l’inevitabile distruttività, e con essa anche l’insostenibile portata di dolore, ne ha fatto il racconto base della sua storia, il basso continuo della sua tragedia, il comune denominatore di tutti gli ambiti del sapere, di tutta la cultura.

Giacché quella che chiamiamo “cultura” altro non è che “coltura”, ossia coltivazione dell’animo umano per poter meglio gestire la violenza.

Come non c’è violenza senza umanità, così non c’è umanità e cultura umana senza violenza.

Da questa prospettiva l’umanesimo si configura come una tendenza della cultura umana il cui fine è il perfezionamento dell’arte di raccontare la violenza e dei modi mediante cui essa può venire sublimata.

Il teatro e le arti erano sorti proprio per questo scopo catartico.

La civiltà dei diritti e dei doveri si afferma per evitare la violenza, lo stesso cristianesimo nasce con un atto di estrema violenza, con la crocefissione.

La sostanza dei miti, anche di quelli biblici, è violenza allo stato puro.

Eppure, questa innata tendenza degli esseri umani all’autodistruzione e alla reciproca violazione non potrebbe essere arginata se non intervenisse la vita con i suoi miracolosi rimedi.

La misteriosa potenza della vita risiede nel fatto che, anche quando viene violentata in uno dei suoi esseri più puri, riesce sempre in qualche modo a sopravvivere.

Anche quando risulta impossibile vivere, la forza della vita si impone sulla morte e, se non le si impedisse di esprimere una tale forza, essa continuerebbe ad affermarsi malgrado tutto; troverebbe sempre delle vie per sopportare il dolore, anche quello più cupo e insoffribile che ogni ferita, visibile o invisibile, comporta.

La vita infatti si afferma anche quando assume le sembianze di un processo irreversibile che conduce l’essere, più o meno rapidamente e comunque inesorabilmente, alla consunzione e all’estinzione; oppure quando viene inspiegabilmente ricoperta, ottenebrata e soffocata da un male oscuro.

Anzi, paradossalmente, talvolta si rileva che proprio in questi casi estremi, proprio quando sta per estinguersi e per esaurirsi in un corpo annichilito nella sua forma sostanziale, la vita si rivela al vivente, all’ancora vivente, in tutta la sua enigmatica pregnanza.

Nell’essere vivente umano, infatti, essa raggiunge uno dei gradi più alti della coscienza di sé. L’uomo, che è vita cosciente, si sente vivere e si sente quindi anche morire.

E in ciò prova il piacere del vivere e il dolore del morire.

Ma quando viene violentato, offeso, torturato, umiliato, questa duplice esperienza della vita viene sconvolta e mutata: egli prova allora solo dolore nel vivere e piacere nel morire.

È il caso di Noa Pothoven.

Nel suo caso la violenza ha turbato in profondità non solo la sua vita personale, ma anche la vita in sé. “Respiro, – diceva la diciassettenne olandese – ma non sono più viva”.

È come se la violenza avesse in lei, attraverso lei, non spenta, ma solo attenuata per un istante la forza propria della vita, a causa di cui anche tutti noi avvertiamo di essere più deboli, meno vitali, più inclini alla morte, ancora meno pronti nella sua attesa e al suo sempre imprevedibile sopraggiungere.

Tuttavia, più che la decisione eutanasica della singola persona, ancorché giovane – una scelta particolare la sua, resa però possibile da una scelta generale che ha portato nel 2002 e poi nel 2004 in Olanda a una legge che la consente – quello che in questo caso ci ha maggiormente impressionati e turbati è stata propriamente l’attenuazione dell’energia vitale universale.

Come se, attraverso la decisione di quella ragazza, avessimo appreso che la vita, a causa di quella violenta ferita subita da entrambe, si fosse per qualche momento arresa, avesse perso ancora una parte di quella forza originaria che le è intrinseca.

Una forza che, sebbene diminuita, le rimane comunque coessenziale, e grazie alla quale riesce quasi sempre a trasformare la liberazione della morte in liberazione dalla morte; riesce insomma assieme a tutti noi e a tutti gli esseri che vivono sulla Terra, non a cedere o a desistere, ma a incedere e a resistere, a contrapporsi e a convivere con la morte.

Attraverso quella decisione di Noa, infine, è come se la potenza della vita avesse perso anche parte del suo mistero, del suo fascino enigmatico con cui da sempre, come un’eterna amata, ci attrae e ci lega ad essa, al punto che non vorremmo lasciarla mai.

13 giugno 2019

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Rosa Luxemburg e imborghesimento del proletariato

ROSA LUXEMBURG
E LA QUESTIONE DIALETTICA DELL’IMBORGHESIMENTO
DEL PROLETARIATO

di Franco Di Giorgi

Rosa Luxemburg

 

ANPI Ivrea, 15 febbraio 2019.

I.

Per quanto diverse sul piano della consistenza e dello sviluppo interno, le due recenti monografie che Sergio Dalmasso ha approntato e dato alle stampe nel 2018 per la Redstarpress – la prima dedicata a Lelio Basso (Lelio Basso. La ragione militante: vita e opere di un socialista eretico) e la seconda a Rosa Luxemburg (Una donna chiamata rivoluzione. Vita e opere di Rosa Luxemburg) – hanno tuttavia nella questione storico-sociale dell’emancipazione del proletariato la radice che le accomuna.

Tale radice affonda nel terreno stesso in cui è cresciuta la pianta del socialismo europeo: è il terreno della dialettica hegeliana Signoria-Servitù.

Questa non è che una delle molteplici figure dialettiche di cui Hegel ha tracciato la fenomenologia e che nel loro insieme formano la filosofia della storia hegeliana.

Come sappiamo, Marx ha ripercorso a modo suo la storia di quella dialettica: l’ha ripercorsa però non secondo l’idea spirituale, ma seguendo l’idea materiale, tenendo conto cioè dei diversi modi di produzione che hanno condizionato nel tempo e nella storia il rapporto tra Signoria e Servitù.

La dialettica che contraddistingue questo rapporto, detto in estrema sintesi, presuppone l’inevitabile e quindi ontologico ribaltamento dei ruoli: con il tempo e soprattutto con la dura esperienza della dipendenza e della sottomissione, la storia vedrà il Servo emanciparsi e da schiavo, da servo della gleba e da proletario esso diventerà prima liberto, poi vassallo e infine borghese e citoyen.

Ma già nella forma di semplice arbusto, quella pianta del socialismo, vale a dire nel Manifesto dei Comunisti del 1848, Marx ed Engels si erano accorti di una prima grave e profonda contraddizione interna a quella dialettica, perché il borghese (ossia il proletario emancipato) è divenuto nel frattempo il nemico del proletariato stesso.

Imborghesizzandosi, cioè, il proletariato si autoannienta.

In altre parole: la borghesizzazione del proletariato, vista come momento coessenziale e imprescindibile dall’economia capitalistica, costituisce la negazione e non l’affermazione del proletariato.

E ciò nel senso del principio spinoziano ripreso prima da Hegel e poi da Marx, secondo cui omnis determinatio est negatio.

Il proletariato non dovrebbe dunque emanciparsi per affermarsi nella storia. Il che, secondo la filosofia hegeliana e dell’evoluzionismo in generale, non sembra essere possibile.

Già sul nascere, pertanto, si profila per esso, un destino tragico.

Inoltre, come nella prima modulazione di quel rapporto Signoria-Servitù, il Signore non annienta il Servo pur potendolo fare – nello scontro a morte tra le due Autocoscienze che lottano per la sopravvivenza e l’affermazione di sé, quella che ha paura della morte tuttavia non muore, perché viene graziato dal suo avversario, e in tal modo però questo, assurgendo a Signore, lo asservisce a sé, lo rende Servo –, così, in una specie di eterno ritorno dell’uguale, di ereditarietà ontologica, di destino, anche il borghese, pur potendolo fare, non si libera affatto del proletario (vale a dire di se stesso in quanto altro da sé), ma, mediante il sistema capitalistico, lo asservisce a sé, lo strumentalizza per realizzare i suoi scopi, in primis il plusvalore.

Siamo quindi dinanzi a uno sviluppo emancipatorio che si può interpretare come una specie di travestimento che si tramanda nella storia.

Siamo dinanzi a un proletario che la storia traveste da borghese e che, come borghese non può evitare di sottoporre a sé il suo se stesso come proletario.

Già, perché secondo l’Aufhebung, cioè secondo il meccanismo della hegeliana filosofia della storia e la sua implicita teoria dell’emancipazione, nulla viene mai obliato e superato dalla storia, ma tutto viene trasformato e conservato in essa e con ciò stesso inverato.

Il borghese emancipato vede insomma nel proletario apparentemente superato e surclassato il se stesso arretrato a quella condizione servile alla quale esso non vuole assolutamente più essere ridotto e ricondotto.

Ma, se proviamo a spostare la nostra attenzione su un contesto diverso e più generale, quello che concerne l’attuale fenomeno migratorio, quel timore del borghese emancipato e insignorito nei confronti del proletario arretrato e asservito non è forse lo stesso di quello che blocca gli europei e in particolare buona parte degli italiani rispetto al problema dell’accoglienza?

Nella figura dell’immigrato noi non vediamo forse quel nostro sé arretrato e servile da cui crediamo di esserci definitivamente emancipati e alla cui condizione non vogliamo essere ricondotti e dalla quale pertanto arretriamo terrorizzati?

CONTINUA

Quaderno n. 61 del CIPEC a stampa

Renato Marchiaro Partigiano Calciatore

E’ uscito a stampa il quaderno n. 61 (una bella cifra) del CIPEC del primo semestre 2019. Il quaderno, già leggibile, da tempo, in internet, contiene:

– la biografia di Renato MARCHIARO (Fede), partigiano a Boves, calciatore giramondo, allenatore di calcio, scomparso a Nizza, all’età di 98 anni.

– i ricordi di Vinicio D’Agostini e di Nello Pacifico, torinesi e della saluzzese Ester Rossi che ci hanno lasciati;

– un breve scritto sul caso Peiper e l’incendio di Boves;

– due brevi articoli “musicali”;

– un più lungo “saggio” sulla rivoluzione russa, frutto di alcune conferenze tenute in occasione del centenario (autunno 2017).

Download “Quaderno CIPEC N. 61 (Partigiano calciatore Renato Marchiaro)” Quaderno-CIPEC-Numero-61.pdf – Scaricato 5804 volte – 10,26 MB

Il quaderno, gratuito, si può ritirare a Cuneo presso la libreria “L’acciuga”, o da me, nei miei giri a Genova o in alcune città.

Ovviamente, è anche scaricabile gratuitamente nella sezione Quaderni CIPEC di questo sito.

Grazie a chi vorrà leggerlo, in tutto o in parte.

Genova, 3 febbraio 2019

Sergio

 

Il Partigiano Calciatore Renato Marchiaro

Renato Marchiaro il partigiano calciatore. Quaderno 61

Nella foto Renato Marchiaro è il primo a sinistra accosciato.

***

  • Saggio sulle stragi nazifasciste di Boves, pubblicato nel n. 5, 2014, “La Rafanhauda”, 70 anni dopo: il sacrificio di Boves. I primi scontri della guerra partigiana, l’eccidio, la battaglia di Boves, il perché di un ricordo
Download “70 anni dopo, il sacrificio di Boves” n.-5-2014-La-Rafanhauda-70-anni-dopo-il-sacrificio-di-Boves..pdf – Scaricato 22450 volte – 125,61 KB