Benigni Sanremo
PRENDI E LEGGI IL CANTICO DEI CANTICI
Sorprendente e interessante la reazione finale che il pubblico del teatro Ariston di Sanremo ha riservato all’encomio dello shir hashirim, del Cantico dei Cantici che Roberto Benigni ha voluto così benevolmente porgere a tutti gli spettatori del 70° festival della canzone italiana. Perplesse, spiazzate e incredule nell’apprendere da quell’appassionato profluvio di parole che il desiderio amoroso è un sentimento umano che trova stranamente posto in uno shir, in un canto, in un testo poetico (databile tra il VI e il IV secolo a.C.) che gli antichi hanno voluto collocare nel cuore stesso della Bibbia, del libro dei libri, tra il Qohèlet e la Sapienza, ebbene quelle persone, prese da un certo turbamento, sono rimaste inchiodate alle loro comode poltrone, in platea e in galleria, rifiutando quella standing ovation che perlopiù esse riservano ad interpreti che intonano canti dei quali forse non sanno che hanno una delle loro radici proprio in quel cantico biblico. Qui, infatti, si possono rintracciare alcuni di quei paradigmi erotico-letterari presenti anche nella cultura greco-classica e poi in quella ellenistico-alessandrina, archetipi amorosi che dalla poesia trobadorica (il cui tema principale era appunto l’amore), attraverso Dante e Guinizzelli, passeranno al dolce stil novo, e da qui al petrarchismo, al marinismo, al romanticismo, al decadentismo e al modernismo. Eccone alcuni esempi:
«Come sei bella, amica mia, come sei bella! I tuoi occhi sono colombe» (Ct 1, 15).
«Come un giglio tra i cardi, così la mia amata tra le fanciulle» (Ct 2, 2).
«Sostenetemi con focacce d’uva passa, rinfrancatemi con pomi, perché io sono malata d’amore (ki-cholat ’ahavah ’ani» (Ct 2, 5).
«Che cos’è che sale dal deserto come una colonna di fumo…» (Ct, 3, 6).
«Come un nastro di porpora le tue labbra e la tua bocca è soffusa di grazia; come spicchio di melagrana la tua gota attraverso il tuo velo» (Ct 4, 3). La parola melagrana (rimòn), tra l’altro, anche al plurale (rimonim), ricorre per ben sei volte nel testo, per sottolineare la trasparente bellezza e il sublime valore simbolico di questo frutto.
«Vieni con me dal Libano, o sposa, con me dal Libano, vieni!» (Ct 4, 8).
«Tu mi hai rapito il cuore con uno sguardo, con una perla sola della tua collana» (Ct 4, 9).
«Io dormo, ma il mio cuore veglia» (Ct, 5, 2).
«Volgiti, volgiti, Sulammita, volgiti, volgiti: vogliamo ammirarti» (Ct 7, 1).
« Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è l’amore» (‘azah khamavet ’ahavah, Ct 8, 6). Cioè: l’appartenenza alla morte è simile all’appartenenza all’amore; perché appartenere alla morte è la stessa cosa che appartenere all’amore. L’amore e la morte hanno la stessa forza d’appartenenza, la stessa origine, ricordava il grande Recanatese.
E in questi versi biblici, oltre che l’eco di poeti latini come Catullo e Ovidio, come non sentire anche quella di Dante e di Petrarca, di Novalis e di Goethe, di Leopardi, di Celan, persino quella del bel romanzo di Roberto Cotroneo, L’età perfetta?
Ma com’è possibile, sembrava chiedersi frastornata quella gente variopinta al termine dell’inattesa lettura di alcuni tra i versi più belli del Cantico dei Cantici, com’è possibile che versi di un così intenso e ardente desiderio amoroso siano contenuti nel testo biblico? In un libro che è riservato alle cose sacre, e in cui, presi dall’obbligo divino della moltiplicazione («Siate fecondi e moltiplicatevi», Gn 1, 28), per gli esseri umani non c’è né spazio né tempo per il sentimento? In cui, invece, davvero tanta è la sofferenza che essi debbono patire, anche solo per il semplice intervento illogico e disumano di Yahweh? Possibile che quel testo, che resta quasi sempre nascosto sugli scaffali polverosi delle nostre librerie, contenga quel tesoro, quel bene, quella luce, quell’amore, quel sentimento a noi ormai quasi del tutto ignoto?
Ebbene, nonostante il frastuono dei deboli e imbarazzati applausi, quella lettura di Benigni pareva discendere sugli astanti come uno spirito benefico che sussurrava leggiadro alle loro orecchie assordate: «tolle lege, tolle lege», «prendi, leggi; prendi, leggi».
8 febbraio 2020