Di Giorgi

Franco Di Giorgi, eminente filosofo e scrittore, ha dedicato la sua carriera alla ricerca di connessioni profonde tra diverse discipline.

Ha spaziato dalla filosofia alla memorialistica, dall’esegesi biblica all’estetica letteraria e musicale.

Di Giorgi scuola e CostituzioneIn qualità di insegnante di Storia e Filosofia, ha lasciato un’impronta duratura nel mondo della scuola.

Di Giorgi si distingue per la sua significativa riflessione sulla Shoah.

In particolare su Primo Levi.

È autore di sette libri.

Nel suo lavoro “Lettera da Mauthausen e altri scritti sulla Shoah” del 2004 e “A scuola di Resistenza” del 2006, esplora la memoria concentrazionaria e resistenziale, offrendo una prospettiva unica e approfondita su uno degli eventi più tragici della storia umana.

La sua versatilità intellettuale si riflette nella sua capacità di connettere la filosofia con la memorialistica, l’esegesi biblica con l’estetica letteraria e musicale.

Inoltre opere come “Giobbe e gli altri” del 2016 e “Il Luogo della Vita. Riflessioni sul Vangelo di Tommaso” del 2018 testimoniano la sua profonda immersione in temi biblici e filosofici.

Oltre alla sua produzione di libri, Di Giorgi ha contribuito a numerose riviste di prestigio, tra cui Testimonianze, Fenomenologia e Società, Nuova Rivista Musicale Italiana e altre, consolidando la sua reputazione come pensatore e saggista di spicco.

La sua influenza si estende anche all’ambito online, dove ha contribuito a riviste come Scenari, Carte di Cinema, volerelaluna.it e SergioDalmasso.com.

Il professor Franco Di Giorgi, con la sua elevata erudizione e la sua dedizione alla comprensione critica della storia e della filosofia, continua a lasciare un’impronta significativa nel panorama accademico e nella riflessione intellettuale contemporanea.

Recentemente ha pubblicato il volume intitolato:

Il negativo e l’attesa. Riflessione intorno alla Shoah a partire da Primo Levi”,  Mimesis Milano, luglio 2023.

Articoli

L’eticità di una partita

di Franco Di Giorgi

 

l'etiticità di una partita Mancini e Vialli

Italia-Inghilterra: l’abbraccio tra Mancini e Vialli, in lacrime a fine partita (FOTO Antonio Sepe)

L'eticita' di una partita. Italia Inghilterra

In un suo interessante saggio, lo storico Emilio Gentile, attraverso un’amplissima base di fonti, conduce un’analisi dettagliata delle ragioni che hanno condotto alla Grande Guerra e con essa, come suona il titolo stesso dell’opera, all’«apocalisse della modernità»:

ragioni non soltanto politiche e militari, ma soprattutto culturali.

Tra queste emerge su tutte quella che egli sintetizza nel concetto di «eticità della guerra», consistente nella convinzione che l’idea o la realtà della guerra contengano in sé inseparabilmente un momento etico-formativo.

In effetti, considerando i gravi strascichi che quel conflitto mondiale lascerà, e riprendendo una tesi di Simone Weil sulla guerra, non si può non constatare, dice ancora lo storico in un altro saggio (Contro Cesare.

Cristianesimo e totalitarismo all’epoca dei fascismi), un’intrinseca parentela della statolatria fascista con la guerra, «proclamata e venerata come fondamentale esperienza di vita».

Ora, vista l’assurdità di questa credenza, non si può non essere d’accordo con la critica che la Arendt ne fa ne Le origini del totalitarismo, definendola un’interpretazione sofistico-dialettica della politica, un’acrobazia dialettica, addirittura una superstizione. L’enormità però non consiste tanto nell’eticità della guerra in sé, poiché ogni azione, persino la più brutale, nel bene o nel male (lo apprendiamo dalle testimonianze dei superstiti), è in grado di generare un momento etico-formativo.

L’irragionevolezza dialettica risiede piuttosto nell’idea illogica e innaturale che un momento etico-formativo, e quindi pedagogico,

non possa che generarsi dall’azione violenta, dalla guerra, e che proprio per questo essa verrà assunta dall’ideologia fascista come una fondamentale esperienza di vita propedeutica all’incontro fatidico con la bella morte.

Sicché, da questa assurda prospettiva bellicista, la guerra, il pólemos, come ritenevano a loro modo Eraclito, Lutero, Hegel e Nietzsche, risulterebbe necessario o indispensabile: in ogni caso un evento imprescindibile se si deve rivelare o salvare l’anima dell’uomo, se si intende giungere a quel momento formativo, se si vuole rafforzare la coscienza e il corpo degli individui.

Se assumiamo questo momento pedagogico come il “positivo”, allora l’evento guerra, per essenza “negativo” a causa della sua terribilità, non potrà che essere conditio sine qua non del positivo.

E questo è assurdo, oltre che inaccettabile.

La storia del XX secolo ci ha insegnato a sufficienza l’infondatezza di una tale convinzione, rivelandola, appunto, una superstizione.

Ebbene, la finale degli Europei di calcio giocata a Wembley, la partita vinta dall’Italia contro la baldanzosa Inghilterra della Brexit, proprio in quanto forma sublimata di una battle, suggerisce che anche l’esultanza, la gioia e la festa possono rappresentare un momento eticamente rilevante, un’occasione di autenticità, di identità e di appartenenza altrettanto profonda e viva quanto quella che si dà con lo stato nascente nel sentimento amoroso, o con l’angoscia della morte durante la guerra.

Si pensi solo all’esperienza rigenerativa vissuta da Novalis dinanzi agli occhi infiniti della sua giovane fidanzata, o a quella del principe Bolkonskij sotto il cielo immenso di Austerlitz in Guerra e pace di Tolstoj.

Non c’è pertanto alcun bisogno di ricorrere necessariamente alla guerra per garantirsi l’esaltante esperienza di vita auspicata dal fascismo.

Concezione, questa della necessità del negativo, le cui radici si possono rintracciare in quell’«ideologia della morte» che Domenico Losurdo scopre nel cuore tenebroso dell’Occidente, nell’Europa imperialista e colonialista.

Nella sua forma speculativa essa è rilevabile soprattutto in Heidegger, come pure, andando a ritroso, in Patmos di Hölderlin, nella pedagogia delle dittature, ossia nel Drill, nella teologia luterana della croce come unica possibilità di salvezza, nelle Predigten di Meister Eckhart, in Agostino, in Paolo, in Gesù stesso, che doveva necessariamente sacrificarsi per il bene dell’umanità, e infine in Giobbe, nel giusto per antonomasia, la cui salvezza però non poteva essere ottenuta senza aver prima subito l’ingiusto patimento, secondo la logica tutta occidentale della necessaria priorità del negativo.

Anche il gioco, dunque, in quanto forma di contesa sublimata dall’impegno culturale, anche il ludus – come vediamo in questi giorni di genuino entusiasmo sportivo, in cui la gente, in barba alla variante delta, festeggia esultante per le strade di tutte le città italiane (e non solo italiane) –;

anche il gioco può dunque suscitare entusiasmo vitale, affratellamento, senso di unità, di collettività, sentimenti che i totalitarismi sanno imporre solo con il terrore e con la coercizione.

Tuttavia, a voler essere pessimisti, anche se questo ludere, se questo festeggiare, si risolvesse solo in un’illusione, non ha importanza.

L’importante è che si possa continuare a giocare, a prendere sul serio il gioco e a rispettare le sue regole.

Tutto, purché non si ritorni, per usare ancora qualche espressione della Arendt, a scambiare il cinismo per saggezza, a covare l’odio indefinito per tutto e per tutti, cioè il nietzscheano odio profondo e impersonale, purché insomma non si continui a pensare alla superstizione della guerra e al suo inevitabile carico di morti come sola modalità per esperire più a fondo la vita.

Ivrea, 17 luglio 2021

Giò. Giobbe

Un Giobbe del nostro tempo

Cari amici,

ho  il piacere di segnalarvi la pubblicazione del mio libro “Gio’. Un Giobbe del nostro tempo”. Già da ora è reperibile e ordinabile sul sito della casa editrice (Caosfera) e sul catalogo online ai seguenti link:

https://www.caosfera.it/libri/gio/

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https://www.amazon.it/

 

Giò. Giobbe prima di copertina e quarta di copertina del libro di Franco Di Giorgi

Proprio come il Giobbe biblico, anche Giò si trova nel nostro tempo a dover fronteggiare in prima persona un’inattesa piaga maligna, una fragilità mortale, un destino crudele e inesorabile.

Con alcuni amici dibatte sulle imperscrutabili ragioni del destino e su altri temi filosofici come il morire e la morte, la vocazione e la verità.

E come nel testo veterotestamentario, gli amici mettono Giò, il malato terminale, dinanzi alle responsabilità del proprio passato, al tempo in cui erano gli altri a subire in silenzio un destino avverso.

Ritorna anche qui, infine, quella domanda, quel perché intrattenibile che né Giobbe né Giò seppero mai pronunciare a favore del dramma vissuto dagli altri.

Un caro saluto.

Franco Di Giorgi

Ivrea, 15 luglio 2021

PS.
Franco Di Giorgi (1954) è laureato in Filosofia all’Università di Torino e per più di vent’anni ha insegnato Storia e filosofia al Liceo scientifico “Antonio Gramsci” di Ivrea.

Ha sempre fatto interagire la memorialistica concentrazionaria e resistenziale con la normale didattica e con i suoi studi personali (confluiti in parte su articoli apparsi in diverse riviste), convinto che nessuna forma di cultura possa esimersi dal confronto con le questioni e con i valori fondamentali scaturiti dalla Resistenza e dalla Deportazione.

La sua riflessione si pone infatti alla ricerca di interferenze tra filosofia, memorialistica, esegesi biblica, estetica letteraria, artistica e musicale.

FRANCO BATTIATO

Un approccio altro alla musica e alla vita

Ricordando Franco Battiato

Franco Di Giorgi

Un approccio altro alla musica e alla vita, Franco Battiato

ogni pensiero nella musica è nella più intima e nella più

inseparabile  parentela (Verwandschaft) con la totalità

dell’armonia, che è unità (da una lettera di Bettina Brentano a

Goethe, parlando della musica di Beethoven).

Un approccio altro alla musica e alla vita, Anch’io, come Marco Travaglio, non saprei da dove cominciare.

Ma inizio dal 1982. Cioè da quarant’anni fa.

Credo fosse l’estate del 1982 quando mi recai al Teatro Tenda di Torino per assistere al concerto di Franco Battiato.

Era già però da almeno tre anni che ascoltavo le sue canzoni incluse nell’Lp L’era del cinghiale bianco, del 1979.

Indimenticabili Strade dell’est (in cui compare tra l’altro un verso che mi ha sempre inquietato: da qui – cioè dove tutto ha avuto origine – la fine), e la sempre attuale Il re del mondo.

Solo più tardi avrò modo di apprezzare anche la musica sperimentale del “primo” Battiato, quello degli anni Settanta.

Già da circa dodici anni suonavo con passione e anche con un certo profitto la chitarra esercitandomi sugli spartiti di cantanti, cantautori e complessi più svariati, come pure su quelli di Mauro Giuliani e di Carlos Antonio Jobim, ma i componimenti di questo artista siciliano mi sembrarono subito strani, diversi da tutti gli altri.

Non solo ovviamente per la musica (a differenza che negli altri autori, qui le dolci melodie uscivano con semplicità e leggerezza dall’armonia e si piegavano ad ogni tipo di inflessione, di contaminazione musicale e culturale) e per i testi (i simbolismi e le metafore andavano al cuore stesso delle cose, toccavano la realtà senza per ciò stesso violentarla: si accennava inoltre a compositori classici come Corelli, Vivaldi, Schubert, Wagner, Brahms, Beethoven, si alludeva a Stockhausen), mi apparvero diversi soprattutto per il modo in cui egli li proponeva.

La prospettiva da cui osservava la realtà non era compresa nella realtà medesima.

Pur indagando in profondità l’animo umano, la psicologia dei popoli e i meandri rumorosi delle società apparentemente avanzate, il suo occhio permaneva in quiete e in silenzio, fuori dal tempo e dalla realtà, in una dimensione spirituale nella quale e rispetto alla quale anche le gioie umane più intense non sembrano altro, come egli stesso ci dice, che l’ombra della luce (1991).

Anzi, non sono che ombra che ostacolano la luce.

E ciò non, come qualcuno ha pensato, per snobismo o, peggio ancora, per qualunquismo musicale e persino politico, ma semplicemente perché il suo era un approccio altro non solo alla musica, ma anche alla vita.

Non ricordo infatti alcuna critica verso i suoi colleghi né di questi contro di lui. Anzi, al contrario.

Era molto stimato da tutti loro.

Con la sua musica egli invitava (e continua ancora ad invitare) ad andare oltre la gregarietà o l’animalità che rende infelici e che persiste in ognuno di noi (L’animale, 1985);

esortava ad assumere una prospettiva altra, un’alterità che, si intuiva, non era certo facile da raggiungere, perché presupponeva un precedente e necessario sforzo di purificazione.

Diceva infatti: Non servono tranquillanti o terapie, ci vuole un’altra vita. Non servono più eccitanti o ideologie, ci vuole un’altra vita (Un’altra vita, 2009).

Ci ricordava in altre parole che il nostro compito in questo mondo – per quanto la nostra vita sia dispersa nei moderni sottosuoli, nelle fitte e umidicce viuzze secondarie di sobborghi malfamati e maleodoranti, nelle ampie, aride e assolate strade di periferia ove sorgono condomini nei quali si può fare esperienza della vera solitudine e dell’abbandono disumano, oppure vissuta in appartate, verdeggiate e supercontrollate ville –

il nostro compito in un siffatto mondo moribondo (Clamori, 1982) è insomma, se non proprio conoscere o ritrovare sé stessi, perlomeno tendere, agire, fare, operare in modo da raggiungere sé stessi attraverso l’altro da sé, sia inteso questo come immanente o come trascendente, per essenzializzarsi (per capire meglio la propria essenza, si dice in E ti vengo a cercare, 1988) e quindi per migliorarsi, per poter, appunto, come fa lui, come fa Franco, osservare il mondo da una prospettiva altra, grazie a una sorta di innere Auge, di occhio interiore, che è il segno della sensibilità propria dei poeti veggenti.

Una volta raggiunto questo scopo, vivere venti o quarant’anni in più è uguale, perché più importante e quindi più difficile è capire ciò che è giusto (Fisiognomica, 1988);

difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire (Prospettiva Nevski, 1980) e quindi occorre, come consigliava un poeta che riusciva a penetrare la natura, a passare cioè con le mente dall’altra parte della natura, auf die andere Seite der Natur, occorre dunque mantenersi al difficile.

L’evoluzione sociale – infatti ammoniva Battiato in New Frontiers (1982) – non serve all’uomo se non è preceduta da un’evoluzione di pensiero.

In quell’anno del concerto al Teatro Tenda avevamo già alle spalle l’invasione sovietica dell’Afghanistan e l’insediamento di un papa polacco al soglio pontificio.

Dopo la crisi del Viet Nam, la Cina di Deng Xiao Ping iniziava a intrattenere rapporti diplomatici con gli Stati Uniti di Carter.

In Iran la rivoluzione khomeinista aveva avuto la meglio sul governo di Washington.

La morte di Tito e gli scioperi in Polonia erano prodromi di altre rivoluzioni, di profondi cambiamenti e di controrivoluzioni, di nuovi esodi, di movimenti sempre più ampi di popoli, di moltitudini dal nord, dal sud, da ponente, da levante (L’esodo, 1982) – in cerca di pane e di pace. Nell’89 Alexander Platz ricordava ancora la frontiera, il muro di Berlino.

Come paladini del neoliberismo, inoltre, la Thatcher e Reagan avevano impresso una violenta sterzata a destra al corso alla storia, e con la guerra in Libano si allontanava sempre di più la pace in Medioriente.

Alle nostre latitudini, nella nostra povera patria (già e ancora nel 1991!), seppur inconsapevolmente noi italiani ci portavamo sulle spalle e sul cuore un peso di numerosi assassinii, a partire da quello di Aldo Moro, di Piersanti Mattarella, di Pio Della Torre, del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Nel gorgo della strategia della tensione si apriva la piaga putrescente della Loggia P2 e si consumava la strage di Bologna; un tremendo terremoto si era nel frattempo abbattuto in Irpinia e un nuovo autunno caldo si era appena stemperato alla Fiat.

Si trattava di un pesante retaggio che la vittoria ai mondiali di calcio in Spagna servì solo ad alleggerire per poco tempo.

Negli anni Novanta, infatti, molti dei semi di questo greve pulviscolo storico trovarono terreno fertile e rifiorirono come lussureggianti fiori del male.

Di tutto questo incontrollabile e sfuggente farsi della storia, cioè di tutto questo falso progresso, parlavano a loro modo le canzoni di Battiato.

E noi giovani siciliani l’avvertivamo forse con maggiore trasporto di altri, sebbene per forza di cose anche noi fossimo prigionieri del Re del Mondo (1979), fossimo cioè anche noi pronipoti di sua maestà il denaro (La voce del padrone, 1981), reggitore di un mondo in cui più diventa tutto inutile e più credi che sia vero (1979).

Infatti, che cosa possono le leggi dove regna soltanto il denaro? (Innere Auge, 2009).

Non ci stancavamo mai di suonare e di cantare quei motivi – “alternativi” e “critici” pur nella loro allegra cantabilità –, in spiaggia e soprattutto nelle serate estive trascorse in Sicilia, sulla veranda dei miei genitori, e ciò per tutti gli anni Ottanta e Novanta.

Poi il terzo millennio se li portò via entrambi, prima l’uno, poi l’altra, e allora finimmo di cantare su quella terrazza. Non solo le canzoni di Battiato.

Ma il ricordo di quelle serate è ancora ben vivo dentro di noi, specie quando riascoltiamo qualche brano tratto dall’Lp La voce del padrone, uscito nel 1981, o da quello uscito nel dicembre 1982, L’arca di Noè.

Alla fine del concerto al Teatro Tenda, pieno d’entusiasmo mi avvicinai al palco con un libro in mano (era La dialettica dell’illuminismo di Adorno e Horkheimer:

del primo autore forse Franco aveva letto gli illeggibili Minima moralia) e pregai l’artista di farmi un autografo sul retro della copertina.

Dopo la notizia della sua recente dipartita, non ho potuto fare a meno di riprendere in mano quel saggio (ormai logoro) e di ripensare a lui e al contempo anche a parte della mia vita.

Ivrea, 21 maggio 2021

download articolo, Un approccio altro alla musica e alla vita:

Franco Battiato morto

25 aprile con Primo Levi

Franco Di Giorgi-Primo Levi

Per un altro 25 aprile “a distanza”, insieme a Primo Levi

A proposito di una mostra on-line a cura dell’Anpi.*

Mostra a Ivrea sulla festa della liberazione 25 aprile con Primo Levi

«L’arte e la scienza» si legge al primo comma dell’articolo 33 della nostra Costituzione «sono libere e libero ne è l’insegnamento».

Questo il principio, il fondamento.

Dalla nostra storia e soprattutto dalla nostra Resistenza, dalla quale esso è sorto, apprendiamo però che non c’è e non ci può essere in generale libertà alcuna senza l’esperienza liberatoria e liberante della lotta per la liberazione.

Liberazione anzitutto dal nazifascismo, i cui effetti, nonostante un secolo dalla fondazione e i 76 anni dalla fine della guerra, continuano ancora a farsi sentire su di noi, così come si sentivano sui giovani di allora.

«Ci proclamavamo nemici del fascismo» annotava Primo Levi ne Il sistema periodico (Oro) «ma in effetti il fascismo aveva operato su di noi, come su quasi tutti gli italiani, estraniandoci e facendoci diventare superficiali, passivi e cinici».

Ebbene, non potremmo forse dire la stessa cosa noi oggi, sotto i colpi del Coronavirus, di un nemico invisibile che ci costringe a una nuova forma di Resistenza passiva?

Passiva e deteriorante, simile nella sua inconfrontabilità all’esperienza vissuta dai deportati, e quindi – confessa Levi in una intervista concessa nel maggio del 1986 a Ferdinando Camon, a proposito della pubblicazione de I sommersi e i salvati – differente da quella attiva e vittoriosa vissuta dai partigiani (cfr. G. Poli e G. Calcagno, Echi di una voce perduta, Mursia, Milano 1992).

Il distanziamento non accresce forse la nostra estraneità, non approfondisce la nostra reciproca sospettosità, non alimenta l’intolleranza? «L’intolleranza – fa notare infatti Levi nel capitolo de I sommersi e i salvati dedicato al problema della comunicazione – tende a censurare, e la censura accresce l’ignoranza della ragione altrui e quindi l’intolleranza stessa: è un circolo vizioso rigido, difficile da spezzare».

E questa viziosa circolarità centrata sull’intolleranza non ricalca forse quella pendolarità della violenza preventiva che alimenta anziché smorzare la violenza stessa?

Un simile vizio circolare ci sembra poi che si possa cogliere anche in rapporto all’uso contemporaneo del linguaggio.

A causa del suo estremo semplificarsi richiesto dalle prestazioni tecnologiche sempre più avanzate, come pure a causa del moltiplicarsi delle emergenze nel presente, pur volendo progettare un futuro possibile e pur volendo recuperare un passato memorabile, alla fine non può fare altro che appiattirsi sul presente e sulle sue esigenze costantemente critiche.

E la precarietà, l’incertezza della vita e del domani, specialmente per quanto riguarda i giovani, non ci rende forse più superficiali, più passivi e soprattutto più cinici?

Forse proprio ai giovani di oggi, certo non per colpa loro, manca quello che, nella primavera del ’45, in un campo allestito dai russi liberatori, Levi aveva colto nella diciottenne ucraina Galina (la giovane impiegata de La tregua) «la dignità di chi lavora e sa perché, di chi combatte e sa di aver ragione, di chi ha la vita davanti» (Katowice). I giovani degli anni ’80, scriverà ancora Levi nella Conclusione de I sommersi e i salvati, tendevano a non interessarsi dell’esperienza concentrazionaria vissuta solo quarant’anni prima dai deportati nei Lager nazisti, perché «assillati dai problemi d’oggi».

Si tratta, precisa, di «una generazione scettica, priva non di ideali ma di certezze, anzi, diffidente delle grandi verità rivelate; disposta invece ad accettare le verità piccole, mutevoli di mese in mese sull’onda convulsa delle mode culturali, pilotate o selvagge».

Insomma: i segni di questa emergenza pandemica non sono forse quelli stessi che ha lasciato in noi il fascismo?

Anche noi che ci proclamiamo antifascisti dobbiamo quindi porre attenzione all’emergenza Covid-19 – ecco il senso dell’avvertimento che cogliamo nella testimonianza di Levi –, perché da questa pandemia, come si vede, si creano impercettibilmente le condizioni, l’humus venefico per l’insorgenza di quell’erba malsana, della quale tanta fatica è costato lo sradicamento.

Com’è noto, inoltre, una tra le più profonde e dolorose ferite che questo virus ha scavato nel tessuto sociale è sicuramente quella dell’ineguaglianza, piaga che si apre come un ampio solco in cui facilmente possono attecchire i semi di quell’erba velenosa.

Un disvalore che, per potersi radicare meglio, quell’erba è capace di trasformare in discriminazione sociale e perfino razziale.

Nel 1976, al teatro Carignano, in occasione della presentazione de Il sistema periodico, Levi a tal riguardo ammoniva:

«Il sentiero in discesa che comincia dalla negazione dell’uguaglianza tra gli uomini, finisce fatalmente nella perdita della libertà e nel Lager».

E l’esperienza dei deportati, come ricorderà, è «esperienza passiva e deteriorante», mentre quella dei partigiani è «esperienza della lotta vittoriosa».

Ma il Presidente Ciampi nel 2000 volle rimarcare il fatto che i primi segni della Resistenza, oltre che nella scelta partigiana dei civili l’8 settembre, compiuta dallo stesso giovane Levi, e nelle quattro giornate di Napoli, si vide anche nella maggioranza degli internati militari italiani che vennero rinchiusi negli Stammlager e negli Offlager tedeschi perché si erano rifiutati di aderire alla Repubblica di Salò e quindi al nazifascismo.

Ad ogni modo, una volta ripulito il terreno da quell’erba infestante, da quell’invadente gramigna, nonostante la stanchezza accumulata durante il ventennio e soprattutto nei lunghi cinque anni di guerra, tra cui l’odiosa coda della guerra civile, più facile sembrò ai nostri padri, ai padri fondatori, la ricostruzione: allontanandosi da quel passato torbido, essi, anche grazie al piano Marshall, poterono guardare a un futuro più radioso con fiducia, speranza e leggerezza.

Ma oggi, ad appena un anno dall’esplosione della pandemia, siamo già molto provati e soprattutto cupi, perché sembra che essa, con le sue ferite, con i suoi 120 mila morti, ci stia di nuovo riportando nostro malgrado verso un futuro che sa molto di quel passato buio.

Dinanzi a questo grave e attuale disagio nell’affrontare l’avvenire, le parole chiare e oneste di Levi ci vengono incontro: «Il domani» ci ammonisce ne L’altrui mestiere (1985) «dobbiamo costruircelo noi, alla cieca, a tentoni».

Ecco allora l’intervento quasi sempre provvidenziale dell’arte. Anche quando rievoca il passato, essa è sempre al contempo una messa in discussione del presente, una prefigurazione critica del futuro, allusione a dimensioni altre, a spazi di libertà impensati, a eventi inauditi.

Anche a questo proposito, il testimone e scrittore torinese è molto schietto.

In uno dei suoi racconti postumi (Auschwitz, città tranquilla) osserva: la pagina documentaria «non possiede mai il potere di restituire il fondo di un essere umano: a questo scopo, più dello storico e dello psicologo sono idonei il drammaturgo e il poeta».

E noi, per questo secondo 25 aprile a distanza e segnato dalla pandemia, potremmo aggiungere a buon diritto anche i dieci artisti che hanno accettato l’invito dell’Anpi di Ivrea a celebrare la festa della Liberazione con una esposizione on-line di alcune loro opere. (https://www.facebook.com/472943589751904/videos/3822709961141953/).

* Il testo, pubblicato sulla pagina facebook dell’Anpi di Ivrea e del Basso Canavese, costituisce la presentazione della mostra a cui rimanda il link. Qui viene riproposto con un diverso titolo e con qualche aggiunta.

25 aprile con Primo Levi, Primo Levi 1960

Primo Levi seduto alla scrivania mentre legge (1960)

Scuola Costituzione

L’IDEA DI SCUOLA NELLO SPIRITO DELLA COSTITUZIONE

Franco Di Giorgi

Scuola e Costituzione articolo di Franco Di Giorgi

La scuola viene generalmente considerata come una fonte inesauribile di acqua alla quale, simili a otri vuoti o ad agnelli guidati da pastori istruiti, gli studenti vengono per un certo tempo a riempirsi o a colmare la loro potenziale sete di sapere.

A distanza di qualche anno dall’insegnamento mi rendo conto però che l’avevo sempre praticata diversamente, cioè al contrario.

Ho sempre insegnato infatti nella convinzione che l’aula di una scuola fosse una conca vuota situata al centro di un’arida agorà, libera e aperta a tutti e ad ogni discussione, una sorta di bacino verso il quale studenti e docenti confluissero ogni giorno per riempirla con la propria acqua, ognuno con le proprie energie intellettuali, con i propri flussi vitali, coi i propri vissuti.

In tal modo, ciascuno, come si dice, portava acqua al mulino della scuola, dissetandosi vicendevolmente con la medesima acqua, scambiandosi talvolta i bicchieri l’uno con l’altro,

acqua che nel tempo la scuola stessa distribuiva a tutti i futuri alunni e insegnanti sotto forma di esperienza didattica, competenza metodologica, ricchezza pedagogica e culturale.

Ma questo diverso modo di intendere e di praticare la scuola, non rispecchia forse l’idea che sta alla base della nostra Costituzione?

Ogni cittadino della nostra Repubblica, volutamente democratica e proprio in quanto democratica, non è forse esortato da questa Carta ad adempiere il dovere etico e quindi civico di recare allo Stato, secondo il principio della proporzionalità,

il suo personale contributo sia come esborso sia come impegno che come partecipazione attiva, diretta o indiretta, alla cosa pubblica, e ciò all’unico scopo di mettere lo Stato in grado di redistribuire questi beni, acquisiti dal senso del dovere, sotto forma di diritti?

Pertanto, se oggi, in questo aspro e lungo periodo di pandemia, in attesa del vaccino salvifico e del Recovery Fund, la scuola più che un comune abbeveratoio culturale si rivela purtroppo in una delle sue funzioni più criticate,

cioè quella di Recovery Place, ciò non deve indignare oltremodo, almeno o soprattutto in questo momento, poiché, pur determinando in parte un inevitabile aumento dei contagi, essa va incontro alle esigenze delle famiglie,

il cui lavoro, come sappiamo, è fondamentale e quindi indispensabile sia per esse, affinché possano dare il loro doveroso contributo allo Stato, sia alla stessa Repubblica, affinché possa redistribuirli ai cittadini in forma di diritti.

Non per nulla, infatti, il lavoro compare già al primo fra gli articoli fondamentali della Costituzione.

Sicché, come ogni studente e ogni docente, al di là di ogni programma e programmazione, ha il dovere di apportare nella propria classe il proprio singolare e personale contributo spirituale, così, in quanto facente parte di uno Stato, ogni cittadino, all’interno del comune di appartenenza, acquisisce e matura diritti di cui può godere solo dopo aver adempiuto al proprio dovere.

IVREA, 10 ottobre 2020

Franco Di Giorgi docente di storia e filosofia

Ciao Terribile

Morto questa notte il partigiano Riccardo Ravera Chion

Ci sono momenti in cui non vorresti dire nulla, fingere che non sia successo, e continuare a pensarlo sì lontano, in una sua dimensione privata, ma ancora presente ogni volta che scorri la storia dei Partigiani e ne riguardi le immagini e rievochi le azioni.

Eppure ti tocca, ancora una volta, dare un ultimo saluto ad un protagonista della Resistenza.

Terribile non ha bisogno d’essere raccontato, da quei suoi 14 anni che lo videro tornare da scuola e trovare la casa bruciata, i genitori arrestati, perché il fratello più grande già era fra i “banditi” che operavano sulla Serra.

Lui stesso, tanti anni dopo, amava definirsi in tal modo, con enfasi ed orgoglio, presentandosi alle scolaresche.

Quel ragazzino in lacrime che si presenta ad una zia, e lei gli offre un piatto di minestra, però lo allontana subito per non subire la stessa sorte.

E Riccardino vaga sulla montagna, finché rintraccia il fratello e diventa egli stesso Partigiano.

Perché venisse sin da subito chiamato col nome di battaglia “Terribile” è facile capirlo per chi lo abbia conosciuto. Irruente, coraggioso, uomo d’azione sin da quei giorni lontani, e per sempre.

Ciao TerribileMi è stato chiesto di parlare di lui…

Lo conobbi mentre stavamo lavorando alla Sede Anpi di Chiaverano.

Lui, spazientito per le mie rifiniture ad un pannello, diventò impetuoso, ma si trovò di fronte un’altrettanta decisa, seppur silenziosa, opposizione.

Come due gladiatori nell’arena, bastò uno sguardo, e fummo amici per sempre. Ci eravamo reciprocamente misurati, capiti, stimati.

Mancò il vecchio Presidente Silla Cervato, e Riccardo ne prese il posto. Fui il suo “segretario” per anni. Un tirocinio prezioso.

Terribile aveva la rara capacità, pur col suo carattere “fumantino”, di ascoltarti, trattarti alla pari, dialogare con profitto. L’Anpi iniziò a crescere, ad incontrare i giovani, le scolaresche. Fu il periodo dei “Totem” in Ivrea e dintorni, mentre purtroppo diminuiva il drappello dei Testimoni. Dopo Silla, l’ing. Benedetti, Timo, Defilippi, Liano, Olmo…

Quante veglie funebri… quante volte alzammo il gonfalone a porgere gli onori ad un Caduto…

Sempre lui intonava a gran voce il canto del Partigiano:

Là sulle cime nevose

una croce sta piantà.

Non vi son fiori né rose,

è la tomba di un soldà

L’è un partigian che il nemico uccise

l’è un partigian che tra il fuoco morì;

la mamma tua lontana

ti piange sconsolata

mentre una campana

in ciel prega per te.

E noi ti ricordiamo,

o partigiano che guardi di lassù,

mentre scendiamo al piano

ti salutiamo, caro compagno.

Non pianga più la mamma

il figlio suo perduto

sull’Alpe sconosciuto

un altro eroe sta là.

Vi vedo e penso ancora

nell’ora dei tramonti,

al sorger dell’aurora,

montagne del mio cuor.

Questo dolce ricordo

mi fa sognare, mi fa cantare

tutta la melodia

che riempie il cuor di nostalgia.

Vi vedo e penso ancora

nell’ora dei tramonti

al sorger dell’aurora

montagne del mio cuor.”

E poi c’erano i momenti belli, quelli dei ricordi di un ragazzino che si conquistò “l’arme in battaglia” come cantò Calvino, puntando il dito sulla schiena d’un milite fascista che passeggiava con la morosa al lago Sirio; la raffica che si prese al bivio di Grivalin, salvandosi a nuoto nel canale; i buffi tentativi di portare il carretto tirato da un mulo recalcitrante… e poi le sue avventure africane che raccontavano di un continente duro, di piroghe sul fiume, della sua “Cilia”, Cecilia, che lo invitava a cambiar discorso. E ciò avveniva nella sua casa circondata dal prato, all’ombra degli alberi, e lui accogliente come un re dell’antica Grecia che invitava generoso a banchetto. Pomeriggi d’estate in cui il vino scorreva: freisa, bonarda per mandar giù tome e salami…

Per quei sedici anni di differenza fu un fratello maggiore, ma ancor più un amico.

Tanti aneddoti ci sarebbero, se la stanchezza e la malinconia lo consentissero…

Ciao, Terribile, raggiungi anche tu la schiera degli Eroi che ti hanno preceduto. Ci avete dato libertà e democrazia.

Ti voglio salutare come avresti fatto tu, alzando il bicchiere di vino (quante volte lo hai rovesciato sulla tovaglia mentre ti sbracciavi a salutar qualcuno!) Alzo a te il bicchiere come se non fosse successo nulla, e tu fossi ancora dritto e potente e forte come un tempo, e fossimo nel tuo giardino.

È un bel 25 Aprile, una radiosa giornata primaverile: “Che non sia mai l’ultima!

Mario Beiletti

(Presidente dell’Anpi di Ivrea

e del Basso Canavese)

23 febbraio 2020

Attentati Sri Lanka

Gli attentati in Sri Lanka e la damnation dell’autodistruttività umana

 

di Franco Di Giorgi

Ieri (manifesto del 20 aprile 2019), con la cattedrale di Notre Dame ancora in fiamme, abbiamo espresso tutto il nostro stupore per l’ingente profferta subito sopraggiunta da tutto il mondo per la ricostruzione del tetto di quel luogo sacro: quel gesto ci aveva turbato perché ci era parso significasse che per gli uomini le cose sacre abbiano un valore superiore a quello delle stesse vite umane.

Oggi, a pochi giorni da quell’“incidente” parigino, dopo gli attentati in Sri Lanka, in luoghi altrettanto sacri ma certo meno carichi di valore simbolico, siamo costretti a rivedere e anzi a ribaltare il nostro giudizio.

Oggi crediamo che il significato di quel gesto generoso non sia del tutto infondato, proprio in ragione della distruttività e soprattutto dell’autodistruttività umana.

Infatti, mentre da un lato l’uomo, con la sua capacità distruttiva e colpevole svalorizza sia le sue stesse creazioni sia il mondo e la natura che le accoglie, dall’altro lato i luoghi del mondo, che l’uomo stesso ha reso sacri proprio in virtù delle sue credenze e delle sue creazioni, ebbene questi luoghi, in tutta la loro meravigliosa e silente innocenza, cercano al contrario di testimoniare nei secoli il valore dell’uomo.

Anche il senso della damnation a questo punto muta.

Diviene molteplice: non riguarda più soltanto l’inferiorità dell’uomo rispetto alle cose, né solo la distruzione delle cose o solo l’autodistruzione dell’uomo; riguarda anche il fatto che con la sua innata distruttività, distruggendo le sue stesse opere, esso non fa altro che distruggere se stesso.

Ciò pertanto induce a rivedere anche la teoria spinoziana del conatus, secondo cui l’essenza di ogni essente consiste nello sforzo di mantenersi nel suo essere.

25 maggio 2019

 

Attentati Sri Lanka

Gli attentati in Sri Lanka e la damnation dell’autodistruttività umana

L’Italia civile a Milano per ribadire un solo principio:

“Prima le persone!”

Una riflessione/testimonianza di Franco Di Giorgi

L’Italia civile a Milano per ribadire un solo principio Prima le persone

 

 

L’Italia ‘civile’, certo, non è tutt’altra cosa dall’Italia ‘politica’.

Ne è solo l’altro volto: il volto civile, appunto, il volto pulito e onesto, il volto vero.

Ma tutti quei 200 mila Italiani che sabato 2 marzo hanno sfilato per le vie di Milano, assieme ai loro amici immigrati, hanno potuto vederlo quel volto vero, hanno potuto vedersi.

200.000 persone alla manifestazione antirazzista di Milano

Provenendo da ogni parte della penisola, sono confluiti e si sono ritrovati congiunti lì per ribadire un solo principio: ‘Prima le persone’.

Il momento rivelativo di questo sorprendente auto-rispecchiamento, di questo ravvedimento, di questa presa di coscienza era quello in cui tutti i milanesi che accorrevano incuriositi ai bordi delle strade o che si trovavano a passare di lì per i loro improcrastinabili affari affannosi si fermavano e si mettevano all’improvviso ad applaudire, a unirsi ai canti o a rimarcare con forza quel “Siamo tutti antifascisti!”, oppure quell’ “Oggi e sempre Resistenza!” che si innalzavano dalle file dell’Anpi, da quel corteo civile di manifestanti che procedeva lento e pacifico al ritmo di tamburi festosi.

E ciò stava a significare che in tutti loro, dentro di loro, malgrado il forte vento che continua a spirare dall’aspro e ottuso fronte della politica, la fiammella della pietas e della solidarietà, ossia delle radici dell’umanità, non si è affatto spenta.

Stava a significare che in tutti quegli Italiani, in quella bella rappresentanza dell’Italia vera, il desiderio, la pulsione per un impegno civile e disinteressato non è stato del tutto represso.

È rispecchiandoci infatti in questa bell’Italia che possiamo sperare finalmente di ritrovarci, di riscoprire il nostro naturale altruismo, il nostro spirito di accoglienza, e riconquistare così la fiducia in noi stessi.

ANPI IVREA amici Di Giorgi, Giovanni Savegnago e altri

Sì, noi Italiani, in questo nostro magnifico Paese, che è uno dei fondatori dell’Unione europea, depositario dei più alti valori culturali e civili europei.

Lo sguardo di coloro che osservavano quella fiumana colorata, una volta giunta alla fine del suo percorso, si colmò di stupore quando l’acustica della famosa Galleria milanese si mise ad amplificare le note di “Bella ciao”.

Qual era il messaggio che, proprio dinanzi alla Scala, questo canto universale rilasciava nell’aria tiepida?

Era comprensibile a tutti: solo il tu, solo l’altro può far riscoprire il vero volto dell’io, solo l’altro ci può salvare.

E non solo a noi Italiani.

Lunedì 4 marzo 2019

Franco Di Giorgi

Video della manifestazione del 2 marzo 2019 a Milano

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Rosa Luxemburg e imborghesimento del proletariato

ROSA LUXEMBURG
E LA QUESTIONE DIALETTICA DELL’IMBORGHESIMENTO
DEL PROLETARIATO

di Franco Di Giorgi

Rosa Luxemburg

 

ANPI Ivrea, 15 febbraio 2019.

I.

Per quanto diverse sul piano della consistenza e dello sviluppo interno, le due recenti monografie che Sergio Dalmasso ha approntato e dato alle stampe nel 2018 per la Redstarpress – la prima dedicata a Lelio Basso (Lelio Basso. La ragione militante: vita e opere di un socialista eretico) e la seconda a Rosa Luxemburg (Una donna chiamata rivoluzione. Vita e opere di Rosa Luxemburg) – hanno tuttavia nella questione storico-sociale dell’emancipazione del proletariato la radice che le accomuna.

Tale radice affonda nel terreno stesso in cui è cresciuta la pianta del socialismo europeo: è il terreno della dialettica hegeliana Signoria-Servitù.

Questa non è che una delle molteplici figure dialettiche di cui Hegel ha tracciato la fenomenologia e che nel loro insieme formano la filosofia della storia hegeliana.

Come sappiamo, Marx ha ripercorso a modo suo la storia di quella dialettica: l’ha ripercorsa però non secondo l’idea spirituale, ma seguendo l’idea materiale, tenendo conto cioè dei diversi modi di produzione che hanno condizionato nel tempo e nella storia il rapporto tra Signoria e Servitù.

La dialettica che contraddistingue questo rapporto, detto in estrema sintesi, presuppone l’inevitabile e quindi ontologico ribaltamento dei ruoli: con il tempo e soprattutto con la dura esperienza della dipendenza e della sottomissione, la storia vedrà il Servo emanciparsi e da schiavo, da servo della gleba e da proletario esso diventerà prima liberto, poi vassallo e infine borghese e citoyen.

Ma già nella forma di semplice arbusto, quella pianta del socialismo, vale a dire nel Manifesto dei Comunisti del 1848, Marx ed Engels si erano accorti di una prima grave e profonda contraddizione interna a quella dialettica, perché il borghese (ossia il proletario emancipato) è divenuto nel frattempo il nemico del proletariato stesso.

Imborghesizzandosi, cioè, il proletariato si autoannienta.

In altre parole: la borghesizzazione del proletariato, vista come momento coessenziale e imprescindibile dall’economia capitalistica, costituisce la negazione e non l’affermazione del proletariato.

E ciò nel senso del principio spinoziano ripreso prima da Hegel e poi da Marx, secondo cui omnis determinatio est negatio.

Il proletariato non dovrebbe dunque emanciparsi per affermarsi nella storia. Il che, secondo la filosofia hegeliana e dell’evoluzionismo in generale, non sembra essere possibile.

Già sul nascere, pertanto, si profila per esso, un destino tragico.

Inoltre, come nella prima modulazione di quel rapporto Signoria-Servitù, il Signore non annienta il Servo pur potendolo fare – nello scontro a morte tra le due Autocoscienze che lottano per la sopravvivenza e l’affermazione di sé, quella che ha paura della morte tuttavia non muore, perché viene graziato dal suo avversario, e in tal modo però questo, assurgendo a Signore, lo asservisce a sé, lo rende Servo –, così, in una specie di eterno ritorno dell’uguale, di ereditarietà ontologica, di destino, anche il borghese, pur potendolo fare, non si libera affatto del proletario (vale a dire di se stesso in quanto altro da sé), ma, mediante il sistema capitalistico, lo asservisce a sé, lo strumentalizza per realizzare i suoi scopi, in primis il plusvalore.

Siamo quindi dinanzi a uno sviluppo emancipatorio che si può interpretare come una specie di travestimento che si tramanda nella storia.

Siamo dinanzi a un proletario che la storia traveste da borghese e che, come borghese non può evitare di sottoporre a sé il suo se stesso come proletario.

Già, perché secondo l’Aufhebung, cioè secondo il meccanismo della hegeliana filosofia della storia e la sua implicita teoria dell’emancipazione, nulla viene mai obliato e superato dalla storia, ma tutto viene trasformato e conservato in essa e con ciò stesso inverato.

Il borghese emancipato vede insomma nel proletario apparentemente superato e surclassato il se stesso arretrato a quella condizione servile alla quale esso non vuole assolutamente più essere ridotto e ricondotto.

Ma, se proviamo a spostare la nostra attenzione su un contesto diverso e più generale, quello che concerne l’attuale fenomeno migratorio, quel timore del borghese emancipato e insignorito nei confronti del proletario arretrato e asservito non è forse lo stesso di quello che blocca gli europei e in particolare buona parte degli italiani rispetto al problema dell’accoglienza?

Nella figura dell’immigrato noi non vediamo forse quel nostro sé arretrato e servile da cui crediamo di esserci definitivamente emancipati e alla cui condizione non vogliamo essere ricondotti e dalla quale pertanto arretriamo terrorizzati?

CONTINUA

LELIO BASSO TRA IERI OGGI E DOMANI

DI FRANCO DI GIORGI

LELIO BASSO TRA IERI OGGI E DOMANI Franco Di Giorgi alla sede ANPI di Ivrea 6 dicembre 2018

Franco Di Giorgi

1. Il testo che Sergio Dalmasso dedica a Lelio Basso (Lelio Basso. La ragione militante: vita e opere di un socialista eretico, Red Star Press, Roma 2018) non è solo una monografia politica, è anche una biografia che, attraverso la ricostruzione della vita di un’importante figura della scena politica italiana del recente passato – dal 1921 (anno in cui il diciottenne varazzino prende la sua prima tessera socialista) al 1978 (anno della morte) – ci parla sia del nostro più vicino presente sia dell’inquietante futuro che ci si prospetta.

L’orizzonte storico e culturale relativo a quel periodo, a partire almeno dal primo dopoguerra, presenta condizioni e aspetti che caratterizzano anche la nostra contemporaneità.

Pur cambiando i personaggi, le problematiche che tale orizzonte apre delineano un medesimo scenario – quello che vedrà l’insorgenza e l’affermazione del fascismo e con esso, naturalmente, anche la diffusione del razzismo come suo naturale corollario; vedrà, insomma, l’avvio di una fase drammatica della nostra storia.

In effetti, guardare al passato, dicono gli storici, «serve anche a comprendere meglio il presente» (Claudio Vercelli, Francamente razzisti, Edizioni del Capricorno, Torino 2018). Certo, è vero.

Ciò tuttavia solo in linea teorica, giacché ogni contemporaneità, compresa la nostra, mostra sempre a chiare lettere che la comprensione o l’interpretazione del presente non basta perché non serve a cambiare il modo di pensare negli uomini e a farli maturare, al fine di evitare di ricadere negli stessi errori da essi compiuti nel passato.

Ma c’è dell’altro.

C’è dell’altro nella vita di questo socialista eretico.

Eretico per vari motivi. Ad esempio perché pur criticando le posizioni liberali di Gobetti, – che vede nell’individuo il soggetto del mutamento della storia – del giovane letterato torinese il giovane Basso condivide la lettura storico-politica dell’Italia:

Paese nel quale il cattolicesimo, insensibile alla voce della coscienza protestante, ridotta da esso al silenzio (anche in questo senso Luigi Pareyson parlava di “coscienza muta”), rappresenta un presupposto dell’ubbidienza al fascismo, la predisposizione psicologica a mettere a tacere ogni rivolta nei confronti dell’autorità costituita, anche quando questa dimostra palesemente di avere come fine l’annullamento della volontà umana, sia quella che si è incarnata nel diritto sia soprattutto quella che si esprime nel dovere, inteso nel senso mazziniano e in quello kantiano e stoico.

Pur da posizioni politiche differenti, pertanto – Basso, marxianamente, vede nella classe operaia il soggetto della tanto auspicata rivoluzione –, essi, antifascisti per istinto, concordano nell’analisi dell’origine del fascismo, scorgendo nella mancata affermazione del protestantesimo in Italia il peccato originale che ha impedito a questo Paese la formazione di una coscienza responsabile e seria.

Per una ulteriore conferma di questa mancanza, di questa hamartía, è utile rifarsi anche al saggio del 2010 di Maurizio Viroli, La libertà dei servi, nel quale si esaminano le varie forme di intransigenza, vale a dire di quell’atteggiamento etico proprio di Gobetti e di Basso.

A proposito di intransigenza, pur in tutta la sua cieca disperazione, pur con il suo andare “alla cieca” diremmo mutuando una bella espressione di Claudio Magris, fortunatamente anche l’Italia di oggi non è solo quella che Alberto Moravia e Antonio Gramsci videro bivaccare nell’indifferenza, l’Italia che si metteva alla finestra ad aspettare e ad esultare a comando assecondando i desideri velleitari di qualcuno che amava parlare agitandosi ad arte da un balcone.

L’Italia, la migliore Italia, quella a cui oggi si deve continuare ancora a guardare, è anche e soprattutto quella di Mazzini e di Gramsci, di Lelio Basso e di Piero Martinetti.

A tal riguardo, dal testo di Dalmasso apprendiamo che a un esame di filosofia morale, il professor Martinetti (uno dei 12 docenti universitari che, su 1250, negò il proprio consenso al fascismo) diede il massimo dei voti al giovane venticinquenne di Varazze, perché con la sua condotta antifascista aveva saputo dimostrare che cosa intendesse in realtà Kant con l’imperativo categorico.

Ancora oggi, dunque, proprio come allora – si sappia! – l’Italia continuerà a contare sul modello di intransigenza esemplarmente fornito da questi “eretici”, da questi rappresentanti di una minoranza eroica.

2. Alla mancata formazione storico-culturale della coscienza in senso protestante corrisponde in Italia anche la mancata comprensione della praxis in senso marxista.

Giacché se la conoscenza è prassi – ovvero indispensabile condizione spirituale di cambiamento materiale e quindi rivoluzionario – , questa conoscenza non può essere prassi, non può costituire una tale condizione, se non, appunto, in quanto fondata sulla coscienza formata in senso protestante.

Vale a dire: non ci può essere vera edificazione storica del movimento operaio italiano e dell’Italiano in generale (edificazione anche nel senso kierkegaardiano), perché manca ad essi quel solido fondamento della coscienza pietista su cui poter edificare in sicurezza.

Gli Italiani sì, possono costruire – e in effetti molto hanno costruito in maniera variegata, manieristica e barocca, molte e diverse sono le torri che essi hanno innalzato –, ma tutte le loro costruzioni edili, proprio come quella del Costruttore Solness ibseniano, a causa della mancanza di un fondamento di serietà, di un vero Grund soggettivo e interiore, sono destinate a crollare perché è come se fossero state costruite sulla sabbia, come se si trattava solo di castelli di carta o, peggio ancora, di castelli in aria.

Sicché, come non c’è praxis, non c’è fare concreto e socialmente incisivo senza conoscenza, senza autentica gnosis (anche in senso gnostico, perché nella gnosi vi è un’eco viva dello gnoti seauton, del delfico “conosci te stesso”), così non si può dire sia conoscenza vera quella che non è capace di fare, di operare, di incidere pragmaticamente nella realtà.

Di conseguenza, una conoscenza non può mai essere pratica e operativa, nel senso di fattiva e attuativa, se non è fondata sulla libertà di coscienza o sulla coscienza libera.

Se questa coscienza non è libera, infatti, la conoscenza, per quanto teoreticamente profonda, non potrà mai fattivamente operare e incidere nella realtà concreta e sociale.

Ragion per cui il suo fare non potrà che essere falso, infondato e quindi apparente e appariscente.

E questa falsificazione del fare in una pseudo-praxis avrà come corrispettiva conseguenza non solo la perdita della personalità individuale, cioè del proprio Se stesso, ma anche la falsificazione della volontà, vale a dire la velleità.

E cos’è stato infatti il fascismo se non l’incarnazione e l’istituzionalizzazio­ne del velleitarismo, ossia di quella aspirazione, arrogante e prepotente, al fare, senza poter e senza saper fare?

Per questo ogni velleitarismo italiano è destinato a fallire, sebbene i danni che esso arrecherà saranno ogni volta tanto gravi quanto lungo sarà il tempo che passerà prima che gli individui prenderanno coscienza della propria servitù e passività.

Due sono stati i momenti della nostra storia nei quali gli Italiani si sono resi conto di questa loro soggezione: il Risorgimento e la Resistenza.

Pensiamo a Dei doveri dell’uomo di Mazzini, ma anche alla fatticità di un Pisacane a cui, tra l’altro, Basso guardava con ammirazione per il suo culto dell’azione.

Pensiamo ai partigiani, ai deportati, alle staffette e alle donne deportate, che hanno sovrumanamente resistito e combattuto per un’idea nuova di Italia.

Continua …

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LELIO BASSO TRA IERI OGGI E DOMANI

di Franco Di Giorgi

Per la presentazione della monografia di Sergio Dalmasso su Lelio Basso

Ivrea, sede Anpi – 6 dicembre 2018)

Download “Recensione di Franco Di Giorgi della monografia di Sergio Dalmasso. Lelio Basso tra ieri oggi e domani” lelio-basso-tra-ieri-oggi-domani-franco-di-giorgi.pdf – Scaricato 30674 volte – 118,29 KB

Il volume è presente in libreria e su Amazon, ecc:

Libro Lelio Basso. di Sergio Dalmasso
Disponibile dal 19 gennaio 2024 il primo capitolo di seguito di Lelio Basso. La ragione militante: vita e opere di un socialista eretico:

Download “Primo capitolo del libro Lelio Basso” Capitolo1-Lelio-Basso-La-ragione-militante.pdf – Scaricato 36815 volte – 308,09 KB