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Franco Di Giorgi

Coronavirus

 

Coronavirus A che punto è la notte di Franco Di Giorgi

A che punto è la notte?

 

da’ al tuo dolore le parole che esige

(Macbeth, atto IV, scena III)

La velocità di diffusione di un virus che infetta le vie respiratorie di un essere umano fino a provocarne la morte è forse minore rispetto a quella con cui l’impollinazione e la disseminazione riproducono la vita. Quando però l’equilibrio coevolutivo tra differenti esseri viventi viene stravolto da una innaturale osmosi tra diverse specie di animali, allora la rapidità di quella diffusione aumenta rispetto alla riproduzione della vita. Da tempo, a fronte di segni evidenti di squilibrio naturale, gli esperti ci ripetevano quello che oggi purtroppo ci confermano: un tale squilibrio è provocato dall’evoluzione ecologicamente irresponsabile della specie umana, la quale ha nel frattempo imparato astutamente a difendersi da pericoli virali simili, cioè a differire nel tempo un’estinzione che meriterebbe per i danni che ha arrecato all’ecosistema, avendo approntato rimedi farmacologici in grado di proteggersi dai virus, ma non di liberarsene definitivamente. Già questo legittimerebbe a dire che la veloce diffusione virale della morte non è altro che il conseguente rovescio della medaglia, ossia il processo opposto a quello altrettanto veloce in cui si propaga la vita sulla terra; e che dovremmo almeno imparare a espiare le nostre colpe cominciando a ripetere le parole di Giobbe: «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore! […] Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?» (Gb 1, 21; 2, 10).

La natura dell’agente patogeno sembra allora essere analoga a quella che ha il male per gli Epicurei e per Lucrezio, vale a dire razionalmente contrastabile, ma non eliminabile. Incapaci di autoriprodursi, questi virus sono dei parassiti che per sopravvivere e moltiplicarsi hanno bisogno delle cellule, di microrganismi vegetali o animali. Sicché senza un vaccino che possa frenarne o arrestarne il veloce ciclo riproduttivo dopo un periodo di incubazione, la loro infezione, cioè la loro azione patogena, può provocare altrettanto velocemente la morte degli organismi ospitanti. Così facendo, queste entità, che sono dell’ordine dei nanometri e che si possono considerare al confine tra il mondo dei viventi e il mondo dei non viventi, riescono ad assimilare a sé gli esseri umani, trasformandoli, anche solo nell’attesa forzosa e ansiosa della quarantena in casa, in altrettanti enti eraclitei oscillanti tra il vivente e il morente. Molti degli infettati infatti non sanno di esserlo e questa ignoranza è lo stratagemma che il virus usa per aggirare la nostra astuzia e per potersi propagare. Ma è grazie all’intelligenza, si legge ancora nel Giobbe (Gb 28, 28), che l’uomo può schivare il male che gli giunge dalla sua ignoranza; l’uomo che, si legge nel secondo coro dell’Antigone, pur non trovando scampo alla morte sa tuttavia trovare rimedio anche ai mali immedicabili.

 Come si vede, anche a questo livello biologico, siamo dinanzi a una lotta intima fatta di mosse e di contromosse tra il vivente e il non vivente, tra la vita e la morte. E se con Macbeth ci chiedessimo «A che punto è la notte?», con Lady Macbeth potremmo rispondere: «Prende a lottare con il mattino, per decidere qual dei due prevalga». Solo che, direbbe Malcolm, «Lunga è quella notte che non riesce a trovare il giorno». Ci viene in mente il Macbeth solo perché lo abbiamo riletto di recente in vista della rappresentazione del 5 marzo al Teatro Stabile di Torino, saltata purtroppo proprio a causa del Coronavirus. Si tratta di astuzie, di inganni e tradimenti che in ogni tempo affliggono l’earthly world, il «mondo basso» in cui vivono gli uomini e nel quale, dice Lady Macduff, «le cattive azioni son spesso lodate, così come le buone s’hanno la reputazione di perniciosa follia»; un mondo (la Scozia degli inizi del Seicento) da cui il marito, il nobile Macduff, era fuggito disgustato dai vizi (evils) che ammorbavano la sua patria.

E in effetti, pur non potendo oramai sfuggire all’onda avvolgente del virus, a un simile autoesilio spingerebbero le basse astuzie di qualche nostro politicante, usando il proprio personale cavallo a dondolo come un cavallo di Troia: chi inserendo astutamente membri del proprio neonato partito nella compagine governativa, chi volendo a tutti i costi, in quanto opposizione, essere inserito nei prossimi dpcm, in modo da poter così predisporre le cose per il proprio futuro e, quel che è peggio, anche per quello dell’intero Paese. Sfortuna vuole infatti che tutta questa emergenza virus stia facendo andare le cose proprio nel verso che vorrebbero i sovranisti. Una volta superata questa crisi, approfittando dell’emergenza sbarchi, passata in secondo piano in questi giorni di lutto e di abbandono, essi sicuramente rimetteranno con maggior vigore il piede sull’acceleratore della paura e ogni loro richiesta in merito alla chiusura nei confronti di stranieri e migranti non potrà che essere assecondata. Dopo l’emergenza del Coronavirus riemergerà dunque l’emergenza dei flussi migratori, ma questa volta troverà ancora meno persone ad occuparsene, perché molti avranno timore di un qualsiasi contatto con gli stranieri, anche se il pericolo – questo ci ha almeno insegnato il Covid-19 – continuerà a provenire da noi stessi. Oltre all’emergenza virus e a quella migratoria, dovremo dunque ben presto ritornare a fare i conti anche con quella terza emergenza che abbiamo dovuto necessariamente accantonare, cioè quella altrettanto subdola dell’avanzata dell’estrema destra nel mondo. Anche questa è infatti una pandemia virale.

30 marzo 2020

Hodós eirénes

di Franco Di Giorgi

Hodós eirénes

Presentazione di “Hodós eirénes”

Non c’è nessuno che sia giusto, neppure uno.

Non c’è uomo che sia sensato, non c’è chi cerchi Dio.

Tutti deviarono, insieme si ridussero a inutilità.

Non c’è chi faccia il bene, neppure uno (Salmi 14, 1-3).

Sepolcro spalancato la loro gola, con la loro lingua tramavano inganni (Salmi 5, 10).

Veleno di serpenti sotto le loro labbra (Salmi 140, 4).

Piena di maledizione e di amarezza la loro bocca (Salmi 10, 7).

Rapidi i loro piedi a versare sangue. Distruzione e disgrazia sui loro cammini.

E il sentiero della pace lo ignorarono (Rm 3, 10-17).

Vivere e non accorgersi di ex-sistere, di star fuori.

Esservi o essere già in questo sentiero e tuttavia non saperlo, ignorarlo, non poterlo (non potersi) raggiungere e quindi essere costretti a cercarlo (a cercarsi) continuamente: ecco l’essenza dell’hodós eirénes.

Un sentiero che passa dall’essere e dall’esserci: li accomuna, li collega, li mette in relazione, in comunicazione.

Informazione del libro

Edizione : 2a
Anno pubblicazione : 2019
Formato : 11,4×17,2
Foliazione : 324 pagine
Copertina : morbida
Stampa : bn

Spero sia di vostro gradimento questa nuova segnalazione libraria.
Un cordiale saluto.
Franco Di Giorgi

Giobbe di Roberto Anglisani

di Franco Di Giorgi

Davvero commovente il Giobbe di Joseph Roth proposto al teatro civico di Chivasso dall’attore Roberto Anglisani nell’adattamento teatrale di Francesco Niccolini.

Giobbe di Roberto Anglisani

 

A proposito del “Giobbe” di Roberto Anglisani

 

Davvero commovente il Giobbe di Joseph Roth proposto al teatro civico di Chivasso dall’attore Roberto Anglisani nell’adattamento teatrale di Francesco Niccolini.

Stupefacenti anzitutto due cose.

La prima: la capacità sintetica del Niccolini, il quale è riuscito con maestria a ridurre quel meraviglioso romanzo dello scrittore ucraino-austriaco, nel quale si condensa una molteplicità poliedrica di vicende che riflettono in parte la vita di Roth vissuta quasi da “ebreo errante”.

La seconda: l’abilità narrativa dell’attore, il quale ha saputo raccontare l’essenza di ogni singolo personaggio, prestando ad essi la voce e adattandovi l’inflessione tonale, senza mai cadere nel banale e nel ridicolo.

Anche perché la storia che egli raccontava, pur riguardando persone umili e semplici come Mendel Singer – ulteriore pseudonimo di Giobbe, che nel testo sacro viene presentato come ‘ish tam veiashàr, uomo integro e retto –, tratta in realtà di una tragedia, ossia della banalità attraverso cui si insinua e si manifesta non solo il tragico e il male, ma anche la dolorosa insensatezza dell’esistenza.

Sia Giobbe di Uz, sia Mendel Singer di Zuchnov, infatti, sono la simbolica attestazione del fatto che dinanzi alle dure prove che la vita riserva, l’uomo è tentato di negare un senso a ciò che invece, seppure difficile a vedersi, un senso ce l’ha e come.

Sono la rappresentazione del tentativo di voler ridurre e ricondurre, anche inconsapevolmente, il senso solo all’umano e non al divino, come se la dimensione del senso dipendesse solo dall’agire dell’uomo, ossia da un agire calcolabile e programmabile e non anche invece dall’intervento miracoloso del divino o del divino caso.

In fondo, malgrado la loro pur evidente e persino ostentata sottomissione al Signore, nonostante il loro timore e tremore dinanzi a Dio, i loro “perché?” – Làmmah? Maddùa’? – innalzati dai due sventurati come suppliche al loro Signore non esprimono altro che questa specie di hýbris ferita, ossia l’arroganza umana che si vede di punto in bianco privata della propria (illusoria) autorità in merito alla costituzione del senso.

Sia il dramma biblico sia la ripresa rothiana di esso, con modalità e con efficacia differenti, sono la drammatizzazione di questa specie di pólemos, di contesa sul senso: una drammatizzazione che gioca narratologicamente sulla possibilità del miracoloso e del sorprendente, capace di umiliare l’uomo (che è humus, polvere e cenere, è terra, adamàh) e di persuaderlo, malgrado la sua ostinata protervia, circa il fatto che non tutto dipende dalla volontà umana, e che quanto c’è di più importante per lui, vale a dire la sua vita e la sua morte, dipende sempre da altro.

Certo, sia Giobbe sia Mendel Singer sono profondamente devoti al Signore: la loro vita e la loro morte sono quotidianamente rimesse nelle sue mani.

Ma in virtù di questa assoluta devozione essi, ragionando con l’unica logica di cui possono disporre, ossia quella umana, che è quella del do ut des, del dare per avere, si aspettano con una certa pretesa che Dio li tratti diversamente dagli altri che sono meno fedeli di loro.

Quanto meno, dopo l’abbattimento su di essi dello spaventoso inatteso, dell’incalcolabile, dell’imprevedibile, insomma del disumano, essi si attenderebbero che Dio si abbassasse verso di loro e spiegasse per filo e per segno i motivi di cotanta durezza, mostrasse loro dove esattamente e cartesianamente hanno sbagliato per meritare questo castigo, questa pena insoffribile, questa assurda prova.

Come se l’essere umano, gettato in un mondo in cui tutto è destinato alla consunzione, potesse con i suoi pharmakoi, con i suoi cataplasmi medicamentosi sempre più efficaci, sfuggire alla distruzione e all’annientamento.

Eppure, non si avvede l’uomo che la vita altro non è che un diuturno sfuggire alle grinfie della morte?

Non si accorge Giobbe che molti dei miserabili che tenta di salvare scompaiono nel nulla?

Eppure egli, secondo il Job di Fabrice Hadjadj, non sembra essere così ipocrita come i suoi amici.

E poi, non si rende conto Mendel di quanto egli sia debole e impotente di fronte al destino dei suoi figli e di Menuchim in particolare?

Egli infatti non ha la forza dell’Abdia (altro nome per Giobbe) di Adalbert Stifter né quella di sua moglie Deborah, non sa comprendere la saggezza della femme de Job nella pièce di Andrée Chedid.

La speranza è l’ultima a morire: questo ci trasmette il mito giobbico, specie nella bella e luminosa versione di Joseph Roth.

Il messaggio che esso ci tramanda, pur in quest’epoca della postverità e dell’assenza del divino, ribadisce un principio che sembra essere inscritto nel dna dell’uomo, un principio che, proprio per questo, la dura realtà satanica non riesce a smontare e a cancellare, non riesce a farla passare come una fake news: il principio della necessaria priorità del negativo, secondo cui il senso si può rivelare all’uomo solo nel e attraverso il dolore.

28 febbraio 2019

 

GIOBBE Storia di un uomo semplice / Teatro d'Aosta 2017: