Franco Di Giorgi

Franco Di Giorgi, eminente filosofo e scrittore, ha dedicato la sua carriera alla ricerca di connessioni profonde tra diverse discipline.

Ha spaziato dalla filosofia alla memorialistica, dall’esegesi biblica all’estetica letteraria e musicale.

Franco Di Giorgi scuola e CostituzioneIn qualità di insegnante di Storia e Filosofia, ha lasciato un’impronta duratura nel mondo della scuola.

E’ recente (2024) il suo testo Aporia, amicizia, attesa. Lezioni di filosofia. Una raccolta di studi iniziata negli anni ’90 rivisti e rielaborati.

Di Giorgi si distingue per la sua significativa riflessione sulla Shoah.

In particolare su Primo Levi.

È autore di otto libri.

Nel suo lavoro “Lettera da Mauthausen e altri scritti sulla Shoah” del 2004 e “A scuola di Resistenza” del 2006, esplora la memoria concentrazionaria e resistenziale, offrendo una prospettiva unica e approfondita su uno degli eventi più tragici della storia umana.

La sua versatilità intellettuale si riflette nella sua capacità di connettere la filosofia con la memorialistica, l’esegesi biblica con l’estetica letteraria e musicale.

Inoltre opere come “Giobbe e gli altri” del 2016 e “Il Luogo della Vita. Riflessioni sul Vangelo di Tommaso” del 2018 testimoniano la sua profonda immersione in temi biblici e filosofici.

Oltre alla sua produzione di libri, Di Giorgi ha contribuito a numerose riviste di prestigio, tra cui Testimonianze, Fenomenologia e Società, Nuova Rivista Musicale Italiana e altre, consolidando la sua reputazione come pensatore e saggista di spicco.

La sua influenza si estende anche all’ambito online, dove ha contribuito a riviste come Scenari, Carte di Cinema, volerelaluna.it e SergioDalmasso.com.

Il professor Franco Di Giorgi, con la sua elevata erudizione e la sua dedizione alla comprensione critica della storia e della filosofia, continua a lasciare un’impronta significativa nel panorama accademico e nella riflessione intellettuale contemporanea.

Ha pubblicato nel 2023 il volume intitolato:

Il negativo e l’attesa. Riflessione intorno alla Shoah a partire da Primo Levi”,  Mimesis Milano, luglio 2023.

Articoli

Giornata internazionale CONTRO la violenza sulle donne

25 novembre, 2020.

L’altra storia di Lilìth di Franco Di Giorgi

L’altra storia di Lilìth, commento al video

No violenza

No violenza. Lo stupro, opera di Caterina D’Amico, scultura in gesso dipinta con colori acrilici, misure reali, anno 1994).

Il sesso non ricambiato è violenza e reato.

L’opera di Caterina D’Amico è a grandezza naturale e intende denunciare la sconvolgente esperienza dello stupro. Ricoperta di frammenti di specchio, la veste ribaltata sul volto della donna evidenzia la non partecipazione all’atto sessuale.

Secondo alcune testimonianze, il corpo violentato della donna rimane come un involucro privo di forza e di volontà di vivere, tale per cui l’essere umano si sente sporco, dentro.

Assaliti dalla curiosità, durante le esposizioni alcuni uomini si avvicinavano chiedendo: “Chi è quel purcun che ha fatto questa scultura?” La risposta che si poteva dare era: “Il purcun è colui che anche davanti a questo corpo violentato e abbandonato vede solo sesso, solo un’ulteriore preda da usare come vittima”.

Durante la fruizione ravvicinata dell’opera, facendolo rispecchiare in quei cocci di vetro spezzato, l’artista cerca di mettere in grado lo spettatore di ribaltare il senso della vergogna su un potenziale stupratore, su colui che ha potuto o che, date certe condizioni, potrebbe osare quella violenza.

Sull’opera si veda il video su YouTube “Sguardo oltre la pelle” (2005) di Lino Budano.

No violenza, Lo stupro, opera di Caterina D'Amico

Video Sguardo oltre la pelle di Lino Budano:

No violenza

L’altra storia di Lilìth

di Franco Di Giorgi

 Sin dall’inizio nel giardino apparvero in due. Le prime parole che lui le rivolse quando se la vide dinanzi furono queste, ispirate da un poeta dell’amore eterno: «Mi piaci quando taci perché sei come assente. Distante e dolorosa come se fossi morta». Dentro di sé, infatti, cercava il silenzio primigenio, desiderava la solitudine originaria, l’integrità fisica, il primato e il privilegio dell’unicità, quella beatitudine di cui aveva goduto ancor prima di quell’inizio e che Dio purtroppo gli aveva negato pensando che egli, Adam, si annoiasse e che non stesse bene che fosse solo. Lui, il solo a non essere stato generato da una donna, lui che non conosceva madre, ora se ne trovava invece una davanti, molto simile a sé, Lilìth, la madre di tutte le altre madri, la quale per di più pretendeva di essere la madre anche di lui, di Adam, perché ogni uomo, e a maggior ragione anche il primo, è destinato a una donna che ricorda la propria madre. Con la stessa pasta, con la medesima ’adamàh, Dio aveva creato due esseri, di cui uno, l’essere femminile, riteneva di essere la madre dell’essere maschile. Era lui, invece, che voleva essere la madre anche di lei, della donna. Non ci mise molto a disfarsi di Lilìth e addormentandosi si dispose in modo che Dio gliene formasse un’altra secondo l’immagine che avrebbe visto in sogno, però utilizzando questa volta la propria ’adamàh, la sua stessa materia maschile. Da lui, da Adam, dall’ish nacque così, subito dopo il primo femminicidio, lei, Eva, l’ishàh.

L’occhio pietoso dell’arte, però, ritorna sul corpo abbandonato di Lilìth, procedendo a una specie di silente “exoscopia”, a un esame dettagliato dell’epidermide, della pelle, sotto la pelle, oltre la pelle, a un’amorosa perlustrazione purificante della carne violentata, mentre il rumore del mondo scorre via veloce come il tempo e qualsiasi parola diviene luogo comune, betîse, chiacchiera, sfondo sonoro neutro che alla lunga neutralizza anche quel corpo abusato e persino la stessa violenza, ormai accettata da quasi tutti gli uomini come qualcosa di inevitabile, come una dannazione. Sì, una maledizione, un destino ineluttabile come la morte, incancellabile come una stimmate, insanabile come la gelosia, quella «piaga biforcuta», quella specie di peste che ci viene inflitta nello stesso istante in cui nasciamo, ebbe a dire nel frattempo un altro poeta eterno. Ma ogni gesto, soprattutto quello suscitato dal dubbio, quello arrogante e aggressivo che non vuole e non riesce a riconoscere l’assoluta indipendenza dell’altro da sé, della donna dei suoi sogni, è il prodotto di una ferinità che la cultura umana, specie quando si rende dogmatica, ha più volte suscitato sperando di rimuoverla. La quotidiana violenza sul corpo femminile, sull’altro genere umano, ha quindi la sua spiegazione nel nostro lontano passato, sia nella preistoria immaginata che nella storia vissuta, specialmente in quella riportata nei testi sacri, come pure in quelli non sacri ma che da quelli sacri hanno tratto ispirazione.

La comunicazione del misfatto, poi, quanto più sembra essere preoccupata, tanto più diventa nefandezza, favorendo e accelerando in tal modo la liquefazione e il definitivo oblio del corpo offeso, sul quale, naturalmente, una volta erasa l’immagine umana, l’evento brutale si traduce in affare commerciale soggetto alla legge del mercato, da cui, com’è noto, dipende la saldezza dei sistemi economici e delle stesse nazioni.

Non resta allora che l’attento esame delle lividure esterne e interne, sopra, sotto e oltre la pelle, per cercare di andare oltre il dolore; non rimane che la comprensiva osservazione di quella carne lacerata, di quelle ferite immedicabili, cercando, attraverso quei deboli riflessi di luce che nella notte dei tempi ancora rivelano il corpo ribelle di Lilìth, di ricavare segni con cui formare pazientemente parole, parole nuove per un linguaggio nuovo, grazie al quale gli uomini, i discendenti di Adam, possano finalmente apprendere il modo per superare la loro dannata violenza innata, che è il vero peccato originale.

Questo testo vuole essere una libera interpretazione del video (Sguardo sotto la pelle: https://www.youtube.com/watch?v=mcpDyo9XG4E) che l’artista Lino Budano ha realizzato nel 2005 in collaborazione con Caterina D’Amico e che quest’anno hanno voluto riproporre in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne.

Dopo escursioni nel campo della pittura e della scultura, da circa 20 anni Lino Budano si occupa di “ricerca visiva”, dedicandosi al lavoro dell’immagine come contaminazione di generi e di linguaggi diversi.

Il mondo della pictoscultura di Caterina D’Amico sottolinea «il senso di straniamento e disagio dei personaggi che mostrano di subire, senza speranza, un mondo che li opprime, mortificando la libertà e soffocando l’unicità e la personalità individuale, in vista di una ampia, omogenea realtà massificata e senza anima» (Enzo De Paoli).

Ivrea, 26 novembre 2020

Franco Di Giorgi

 

25 novembre 2020

Scuola Costituzione

L’IDEA DI SCUOLA NELLO SPIRITO DELLA COSTITUZIONE

Franco Di Giorgi

Scuola e Costituzione articolo di Franco Di Giorgi

La scuola viene generalmente considerata come una fonte inesauribile di acqua alla quale, simili a otri vuoti o ad agnelli guidati da pastori istruiti, gli studenti vengono per un certo tempo a riempirsi o a colmare la loro potenziale sete di sapere.

A distanza di qualche anno dall’insegnamento mi rendo conto però che l’avevo sempre praticata diversamente, cioè al contrario.

Ho sempre insegnato infatti nella convinzione che l’aula di una scuola fosse una conca vuota situata al centro di un’arida agorà, libera e aperta a tutti e ad ogni discussione, una sorta di bacino verso il quale studenti e docenti confluissero ogni giorno per riempirla con la propria acqua, ognuno con le proprie energie intellettuali, con i propri flussi vitali, coi i propri vissuti.

In tal modo, ciascuno, come si dice, portava acqua al mulino della scuola, dissetandosi vicendevolmente con la medesima acqua, scambiandosi talvolta i bicchieri l’uno con l’altro,

acqua che nel tempo la scuola stessa distribuiva a tutti i futuri alunni e insegnanti sotto forma di esperienza didattica, competenza metodologica, ricchezza pedagogica e culturale.

Ma questo diverso modo di intendere e di praticare la scuola, non rispecchia forse l’idea che sta alla base della nostra Costituzione?

Ogni cittadino della nostra Repubblica, volutamente democratica e proprio in quanto democratica, non è forse esortato da questa Carta ad adempiere il dovere etico e quindi civico di recare allo Stato, secondo il principio della proporzionalità,

il suo personale contributo sia come esborso sia come impegno che come partecipazione attiva, diretta o indiretta, alla cosa pubblica, e ciò all’unico scopo di mettere lo Stato in grado di redistribuire questi beni, acquisiti dal senso del dovere, sotto forma di diritti?

Pertanto, se oggi, in questo aspro e lungo periodo di pandemia, in attesa del vaccino salvifico e del Recovery Fund, la scuola più che un comune abbeveratoio culturale si rivela purtroppo in una delle sue funzioni più criticate,

cioè quella di Recovery Place, ciò non deve indignare oltremodo, almeno o soprattutto in questo momento, poiché, pur determinando in parte un inevitabile aumento dei contagi, essa va incontro alle esigenze delle famiglie,

il cui lavoro, come sappiamo, è fondamentale e quindi indispensabile sia per esse, affinché possano dare il loro doveroso contributo allo Stato, sia alla stessa Repubblica, affinché possa redistribuirli ai cittadini in forma di diritti.

Non per nulla, infatti, il lavoro compare già al primo fra gli articoli fondamentali della Costituzione.

Sicché, come ogni studente e ogni docente, al di là di ogni programma e programmazione, ha il dovere di apportare nella propria classe il proprio singolare e personale contributo spirituale, così, in quanto facente parte di uno Stato, ogni cittadino, all’interno del comune di appartenenza, acquisisce e matura diritti di cui può godere solo dopo aver adempiuto al proprio dovere.

IVREA, 10 ottobre 2020

Franco Di Giorgi docente di storia e filosofia

Ennio Morricone al Parco della Cittadella di Parma nel 2018.

Ennio Morricone

 

Download Ennio Morricone

FRANCO DI GIORGI:

ENNIO MORRICONE E L’ALTERITÀ DELLA MUSICA

Compito della colonna sonora di un film, secondo Ennio Morricone, è di dar voce a ciò che nel film non c’è e non si vede.

Essa deve esprimere non il visibile ma l’invisibile, non il detto e il dicibile, ma il non detto e l’indicibile, non l’essere e nemmeno il non essere, ma l’altrimenti che essere, non la realtà e neppure il sogno, ma l’utopia, non il se stesso e tanto meno il si stesso, bensì l’altro, non la luce, non la penombra, ma l’ombra.

Solo incarnando un tale compito un prodotto della creatività umana diventa opera d’arte, opera cioè non dell’uomo, dell’artista, di colui che si trova ad essere artista, ma dell’arte stessa che è in lui.

Giacché è proprio in lui, con lui e in virtù del suo genio ereditato che ha inizio quel compito rivelatore di tutto ciò che, come altrimenti che essere, in quanto invisibile, indescrivibile, inesprimibile, irrappresentabile, permane e ha il suo regno nell’ombra.

Qualsiasi arte è vera quando si assume questo compito, il quale comporta sempre un lavoro straordinario, simile a quello in cui è impegnato nottetempo l’artigiano leopardiano del Sabato del villaggio, un’attività che si svolge nell’oscurità silente della coscienza, percorrendo sentieri ignoti alla ragione perché sfuggono alla sensibilità e restano inimmaginabili per la rappresentazione.

Cos’è d’altronde che rende speciale la fotografia, se non il fatto che come istantanea essa riesce a cogliere in un istante ciò che mai la realtà tangibile e visibile rivelerebbe ai nostri occhi?

Cos’è che rende così sorprendenti i romanzi di Flaubert se non quella misteriosa inclinazione a trascurare l’essere visibile e a costringere l’autore, divenuto un vero apologeta del non essere, a soffermarsi con le sue infinite iperdescrizioni proprio sull’impercettibile e sull’indicibile? E non era proprio a questa dedizione all’Auftrag, al difficile lavoro rivelativo, a questa tendenza a mantenersi nel difficile che Rilke esortava i giovani poeti?

Tutta quanta la Recherche proustiana non rappresenta proprio questo lungo e difficile travail, questo sforzo continuo teso a recuperare e a valorizzare i mille elementi di tenerezza che preesistevano già allo stato frammentario nell’anima dello scrittore e che la memoria volontaria ha eliminato dalla coscienza? E ancora lui, il poeta delle Elegie duinesi, non ha forse voluto fare del mondo interiore, del Weltinnerraum, il luogo utopico in cui conservare e salvare proprio l’essenza invisibile delle cose visibili?

A dare sostanza spirituale ai romanzi di Dostoevskij e di Tolstoj non sono forse proprio quei rari momenti di trascendenza che con la loro debole e subitanea luminosità riescono a gettare un po’ di luce perfino nelle tenebre più fitte?

E cosa ci colpisce poi dell’Angelus di Millet, uno dei pochi pittori apprezzati dall’autore di Anna Karenina, se non quell’assenza celeste che aleggia sulla terra faticosamente coltivata e che assieme all’aria tiepida del meriggio estivo e all’immenso cielo sovrastante invita i due giovani contadini a sospendere il lavoro, a congiungere le mani e a piegare le loro fronti sudate, disponendoli così devotamente all’attesa, all’ascolto, all’accoglienza e soprattutto all’accettazione della loro appartenenza ad essa, cioè alla divina assenza?

Che cos’è poi di un’opera d’arte che strappa al nostro spirito il giudizio estetico del tutto spontaneo e disinteressato – “Bello!” – se non il fatto che essa riesce a cogliere e a rendere visibile quella bellezza aderente alla realtà che semplicemente sfugge alla sensazione? Oggi, che nemmeno l’occhio di un bambino è più capace di cogliere l’aspetto “altro” della realtà, solo l’arte, quella vera, quella che ha che fare con l’inappariscente, col non essere e con l’utopia, può svelarci la bellezza della realtà esteriore e interiore, offrendoci così la possibilità di valorizzare e insieme di salvare l’essere, tutto l’essere, e quindi anche se stessi.

Ciò che non è, dunque, i non essenti, i ta me onta, scriveva Paolo di Tarso nella Lettera ai Romani, potranno allora ancora una volta salvare gli onta, ciò che è, gli essenti? Forse.

Ma ancora: che cosa se non la musica, con la sua essenziale inconsistenza e con la sorprendente e inquietante immaterialità, con la sua intima fuggevolezza, svelandoci la sua bellezza proprio quando ci svela, cosa, dunque, se non essa, questa sempre benedetta arte dei suoni, riesce a ricondurci in quelle utopiche alterità, in quella vita vera, nella nostra vita, che l’esistenza reale e unidimensionale nega?

Con Rilke si potrebbe dire che essa ci traspone dall’altra parte del mondo, in una dimensione altra e alternativa, consentendoci di compiere un’esperienza di pieno appagamento, pur non avendola tuttavia mai richiesta e ancor meno meritata.

Si provi ad esempio ad ascoltare la Terza sinfonia di Mahler lasciando fluttuare l’attenzione in particolare sull’ultimo movimento, il Langsam, Ruhevoll, Empfunden: ebbene esso ci rivelerà il luogo della vita, il luogo della nostra vita, ossia, appunto, l’altrimenti che essere, l’altro che si trova dall’altra parte del mondo, in quella dimensione utopica che ci apparirà assai debole e rilassata rispetto alla confusa e fragorosa, volgare e affannosa unidimensionalità delineata nel primo movimento, forte e deciso (Kräftig entschieden).

Pur senza averlo richiesto e meritato, per un puro gesto d’amore, questa musica ci seduce e ci conduce fuori dalla nervosa realtà della rappresentazione dominata dal tempo, dallo spazio e dalla causalità, e ci invita a vivere intimamente (Empfunden), cioè profondamente, una vita piena di quiete (Ruhevoll), in cui le distanze spaziali, aprendosi all’infinito, si fanno sterminate e la lentezza temporale sembra desiderosa d’eterno.

Dopo essersi slegate dal groviglio affannoso delle marcette iniziali, con l’incessante estensione dello spazio e del tempo anche le note si allungano, si legano e si appoggiano l’una all’altra liberamente, in un legato unico, quasi in un’unica appoggiatura; ora esse generano nell’anima una lentezza e una larghezza inaudite che le consentono di distendersi a piacere, di rilassarsi e di avvertire un piacere mai provato prima. In questa imprevedibile distensione essa prende coscienza della differenza tra temporalità ed eternità, tra il qui e l’altrove, tra il finito e l’infinito, tra la realtà e l’utopia, insomma, per dirla con le parole del maestro Morricone, tra ciò che in un film si vede e appare, tra ciò che in esso viene raccontato, e ciò che in esso invece non si vede e non può apparire.

Questa estesa lunghezza di note legate in un tempo disteso e rilassato è tipica delle sue colonne sonore, delle sue composizioni: pensiamo, solo per fare qualche esempio, a opere cinematografiche come Mission (1986), La leggenda del pianista nell’oceano (1988), Nuovo cinema paradiso (1989), Baarìa (2009), La migliore offerta (2013), il primo del regista anglo-francese Roland Joffé, gli altri quattro sono di Giuseppe Tornatore; essa è la cifra che connota il suo stile musicale, una cifra che, oltre che nei Langsam mahleriani, si può cogliere altrettanto marcatamente anche negli Adagi di Rachmaninov, nei Preludi wagneriani, negli stessi Corali bachiani e persino nei canti gregoriani.

Come questi musicisti appena citati, infine, a cui certo non si può non aggiungere anche il suo preferito Mozart e Beethoven, le cui arie emergono dalle profondità dell’anima come perle preziose e perfette, anche Morricone, in virtù di una misteriosa alchimia, ignota persino a lui medesimo, sapeva donare alla lunga e quieta lentezza delle sue note anche la dolcezza del canto, ossia quella bellezza spirituale che, insieme alla Ruhe, alla quiete, commuove alla bontà e alla pace.

Questo saper donare è proprio del genio dell’arte, la quale si serve di alcuni uomini, di suoi spiriti eletti, spesso di quelli più problematici e fragili, per annunciare all’umanità l’utopia, una terra promessa.

Franco Di Giorgi – Ivrea, 11 luglio 2020

Condizione postmoderna scuola

 

Condizione postmoderna della scuola

Franco Di Giorgi

LA CONDIZIONE POSTMODERNA DELLA SCUOLA

E IL DESIDERIO DI “NORMALITÀ”

 

Beato l’uomo che sopporta la tentazione [prova] (peirasmós), perché una volta superata la prova [egli, il dókimos, il provato, il saggiato, il messo alla prova] riceverà la corona della vita (stéphanon tes zoes) che il Signore ha promesso a quelli che lo amano (Gc 1, 12).

1. Nel 1979, ormai più di quarant’anni fa, nel suo famoso “Rapporto sul sapere” (meglio noto con il titolo La condition postmoderne) basato su studi di cibernetica e di telematica effettuati negli Stati Uniti e risalenti fino agli anni Trenta, Jean-François Lyotard, uno dei filosofi del pensiero postmoderno, aveva previsto e detto a chiare lettere che con l’introduzione del calcolatore elettronico, con il computer, il destino delle grands narrations sarebbe stato segnato.

Così come sarebbe stato compromesso parallelamente anche il destino dell’istruzione, dell’insegnamento e della trasmissione di queste metanarrazioni o del sapere in generale, con tutti i loro approcci e le loro metodologie. Si veda in particolare il capitolo 12 di questo saggio: “Insegnamento, legittimazione, performatività” (Feltrinelli 1981).

Dopo la delegittimazione posta in essere dalla “incredulità nei confronti delle metanarrazioni” (p. 6), cioè delle grandi ideologie politiche e filosofiche che legittimavano la modernità, il criterio ormai prevalente della performatività, ossia dell’ottimizzazione delle prestazioni resa possibile dall’informatizzazione delle società e del sapere, più che stimolare ideali di emancipazione mira a formare competenze funzionali al potere e quindi al sistema sociale che le sollecita per le sue riconfigurazioni.

Giacché, scrive Lyotard, “la questione nell’era dell’informatica è più che mai la questione del governo” (p. 20) o del potere, appunto. Uno degli esiti evidenti di una tale delegittimazione è ad esempio la riduzione della lotta di classe a “utopia”, a “speranza”, e l’impegno per l’insegnamento tradizionale a una specie di “protesta di principio” (p. 29).

Con l’annuncio della seppur “parziale sostituzione dei docenti con delle macchine”, la postmodernità in ogni caso anticipa e progetta la morte stessa dell’“era del professore” (p. 98).

Quasi a conferma di quanto aveva dedotto nelle pagine della Condizione postmoderna, lo stesso Lyotard nel 1984 pubblicherà un piccolo testo dal titolo significativamente provocatorio: Tombeau de l’intellectuel et autres papieres (Galilée, Paris).

Ora, dal punto di vista postmoderno, ben lungi dal creare un danno o una perdita, una tale sostituzione tecnologica comporterebbe piuttosto enormi vantaggi sia sul piano performativo o delle prestazioni sia sul piano economico, soprattutto per quegli Stati con un alto debito pubblico.

L’insegnamento basato sulla didattica relazionale poteva avere una sua specifica funzione didattico-pedagogica all’interno di quell’orizzonte umanistico che si può far risalire alla Grecia classica e ai Dialoghi di Platone, e che, con il suo progetto educativo e formativo, è riuscito a resistere alle intemperie del tempo e della storia, affermandosi lungo tutta la modernità.

Già però con la rivoluzione tipografica realizzata da Gutenberg nel 1445, cioè con l’invenzione della tipografia a caratteri mobili, all’interno dell’istituzione religiosa cattolica si era creato un profondo trauma, simile per certi aspetti a quello rilevato dal Fedro platonico a proposito dell’invenzione della scrittura, una profonda e dolorosa cesura, giacché in quella istituzione gli intellettuali erano riusciti a conquistarsi nei secoli una certa prerogativa nella trasmissione di un sapere religioso che, almeno fino al Seicento (ben oltre quindi la prima Rivoluzione scientifica), faceva tutt’uno con il sapere tout court (Machiavelli e Galileo docent).

Grazie poi a Lutero, che si avvantaggerà di quell’invenzione, e alla sua traduzione del testo sacro nella lingua tedesca, ogni singolo individuo poté leggere la Bibbia direttamente alla propria famiglia all’interno delle mura domestiche, senza dover andare necessariamente in chiesa, escludendo in tal modo l’intervento di quegli intellettuali ed evitando con ciò stesso anche le loro sottili e capziose interpretazioni.

Dopo circa mezzo secolo, un trauma simile è quello che la rivoluzione delle nuove tecnologie sta producendo all’interno di quell’ampio orizzonte umanistico.

Anche qui, ora, man mano che passa il tempo e con il continuo perfezionamento dei dispositivi tecnologici, i docenti si vedono scalzati nel loro antico appannaggio di comunicatori del sapere in una relazione diretta con i loro discenti (si veda a tal proposito il recente appello firmato da sedici intellettuali italiani contro la prospettiva di un “modello in remoto” e rivolto alla neo-ministra dell’istruzione Lucia Azzolina).

Secondo precise fasce orarie e a seconda dei più diversi interessi (da non chiamarsi più “discipline”), il collegamento programmato a una banca dati forniti dagli esperti delle varie materie o la connessione a un solo computer adeguatamente predisposto sarebbe in grado, volendo, di fornire in simultanea e in remoto un sapere manualistico o digitale a migliaia se non a milioni di utenti scuola.

La DaD, la Didattica a Distanza, resasi necessaria quest’anno a causa della pandemia di Covid 2019, è solo il passo intermedio dalla lectio ex cathedra alla lectio sine cathedra, ossia al libero approvvigionamento di un sapere non più obbligatorio secondo programmazioni preconfezionate, di un sapere “alla carta” (p. 91), dice Lyotard, e non più “costituito da uno stock organizzato di conoscenze” (p. 93).

Sebbene attraverso lo schermo di un computer e con l’ausilio di piattaforme comunicative, mediante una didattica domiciliare (da casa a casa, intramoenia si potrebbe dire mutuando un termine dal comparto “Sanità”) oggi gli insegnanti possono continuare a mantenere la loro cattedra, il loro posto di lavoro.

E sarebbe proprio il caso di ricordare a tal proposito che quello che oggi, con il solito anglicismo, viene chiamato smart working non sarebbe poi una gran novità, giacché era già una realtà ben consolidata in Inghilterra fin dal tempo della prima Rivoluzione industriale (cfr. Giovanna Lo Presti, Non lasciamo ai tecnocrati e politici ignoranti il governo della scuola, “Il Ponte”, 20 aprile 2020).

Sicché, almeno dal punto di vista storico, più che di un’emancipazione, specie se guardiamo al ruolo sociale delle donne, si tratterebbe anzi di una regressione.

Ma, come si accennava, il récit emancipatorio presuppone una pragmatica o un gioco linguistico eterogeneo rispetto al récit performativo: il primo, ricordava Lyotard, si fonda su criteri etico-teoretici come vero/falso, giusto/ingiusto, il secondo su criteri di mercato come utile/inutile, efficace/inefficace, vendibile/invendibile (p. 94).

Comunque sia, pur a fronte di una tale prospettiva certo non rosea per il destino dell’istruzione (sia pubblica che privata), la ministra ha persino annunciato l’assunzione di altri 32 mila insegnanti attraverso i concorsi, la sistemazione di 4.500 precari e di 4 mila nuovi ricercatori universitari.

Ma fino a che punto tutti costoro potranno continuare a mantenere pienamente le loro cattedre?

E in generale, fino a che punto potrà continuare questo servizio essenziale garantito dallo Stato e previsto (ancora) dall’articolo 33 della Costituzione, se il destino della scuola sembra essersi ormai avviato verso la sola didattica a distanza, se non addirittura verso la connessione ad un unico dispositivo base in remoto, verso un solo computer-madre senza la presenza dell’insegnante, a delle “banche di dati […] collegate a terminali intelligenti messi a disposizione degli studenti”, diceva Lyotard (p. 93)?

D’altro canto, una volta superato il difficile confronto con i paesi membri dell’Unione europea sulla scelta della formula con cui ottenere i fondi europei, i debiti che i governi hanno dovuto contrarre per fronteggiare l’emergenza lavoro a causa del Coronavirus dovranno comunque essere pagati.

A tal riguardo, poi, il problema più urgente non è tanto l’ammontare dei 55 miliardi di euro che il governo riuscirà a stanziare per l’emergenza Covid 19, ma come i cittadini possono ottenere questi stanziamenti, poiché tra le leggi predisposte e l’effettivo godimento dei finanziamenti si interpone la solita burocrazia italiana che con le sua nota farraginosità rischia di bloccare la ripresa di un intero Paese.

Per questo molti politici italiani, a partire dallo stesso premier Conte, oltre che di responsabilità e di certezze, parlano di semplificazione delle procedure, di modernizzazione della macchina burocratica, di velocizzazione della pubblica amministrazione, specialmente adesso che, diceva proprio il primo ministro durante la sua recente relazione in Senato, la salute non può più continuare ad essere un corollario, bensì la “precondizione dello sviluppo del Paese”.

E se questa volta a farne le spese, come è purtroppo accaduto in passato, non sarà più il comparto “Sanità”, logica vuole che, proprio in virtù dell’utilizzo di quelle tecnologie, siano altri comparti a pagarle: ad esempio quello dell’“Istruzione”, specie, come si è detto, in Stati come l’Italia che presentano un debito più elevato a causa di un precedente indebitamento.

Pertanto, sebbene l’annuncio di quelle nuove assunzioni non lo lascino ancora intravedere, la graduale dismissione degli insegnanti è quindi nelle cose: in un prossimo futuro, prima della scomparsa delle sedi fisiche della scuola (così sono scomparse anche le grandi fabbriche), prima della chiusura degli istituti scolastici (con tutti i vantaggi economici che ciò comporterà per le casse dello Stato), si cominceranno dapprima pian piano dolorosamente a tagliare gli stipendi agli insegnanti e subito dopo si procederà anche ai tagli alle cattedre.

Si preannuncia pertanto un esercito di ex-cathedratici, di migliaia di disoccupati nel personale della scuola, la perdita di altrettanti posti di lavoro e quindi l’estensione della povertà.

Questa, dunque, la “minaccia tecnocratica” che incomberebbe sulle nostre scuole, la quale, come s’è visto, porterebbe con sé anche un’ulteriore ondata di precarizzazione del lavoro in generale.

Ma se queste sono le temibili previsioni, allora quel “nuovo modo di concepire la scuola, ben diverso da quello tradizionale”, quel “complessivo e articolato processo di riforma” cui fa cenno il testo di quell’appello, come pure l’aspirazione a un “nuovo umanesimo”, non potranno che rivelarsi ancora una volta come il sogno di una bella cosa, come un’utopia, una speranza, un’idea.

Inoltre, secondo la prospettiva qui delineata, che inclina inesorabilmente all’estinzione della scuola, anche la dignitosa idea dell’insegnare meno, insegnare tutti risulta quanto meno anacronistica, in ritardo in ogni caso coi tempi, se non addirittura fuori tempo massimo: poteva valere ancora prima della crisi del 2008, ma da allora in poi, con l’emergenza della crisi economica, con il rischio default e con il fantasma Grexit che soffiava sul collo degli Italiani, non fu più possibile nemmeno parlarne, al punto che colui che tentava di farlo veniva visto come un ingenuo, un’anima bella, un irresponsabile, un disfattista.

Sulla scorta o con il pretesto di quella emergenza, l’ex premier Mario Monti, con la flemma e l’aplomb che lo contraddistinguevano, proprio per mettere una pietra tombale su quel principio egualitario avanzò addirittura la proposta di aumentare l’orario di lavoro settimanale degli insegnanti da 18 a 20 ore.

Il che sarebbe stata ancora una fortuna se pensiamo che l’allora ministro dell’Istruzione e dell’Università Francesco Profumo voleva aumentarle di 6 ore, cioè fino a 24.

2. Sulla scorta di quanto precede, non dovremmo affatto, quindi, augurarci di tornare alla “normalità”, e non solo per quanto riguarda la scuola, perché quella “normalità”, proprio in quanto “normalità”, conteneva in sé qualcosa di vischioso e di scivoloso a cui da troppo tempo siamo stati costretti ad abituarci: conteneva visibilmente quella tendenza avversa e innaturale che ha origini lontane ma che nel giro di pochi giorni (anche in questo modo e con questa rapidità si manifesta l’irreversibilità dei processi naturali di cui da molto tempo ci parlano gli scienziati) ha fatto riprecipitare l’intero pianeta sul bordo del baratro, preda questa volta del Coronavirus.

Ma chissà quale altro baratro ci riserva il futuro.

Tornare allo “stesso”, insomma, sarebbe una vera sconfitta per il genere umano in questa lotta impari contro un siffatto virus coronato, il quale è stato capace con una sola mossa di mettere in scacco l’intera umanità.

Eppure, in virtù di una sempre imprevedibile eterogeneità dei fini, intesa come corollario del principio della necessaria priorità del negativo, in virtù di una sorta di positivo contrappasso cosmico, proprio questo virus inghirlandato, con tutte le migliaia di morti che continua a mietere in tutto il mondo – morti a cui ben presto ci abituiamo e che altrettanto rapidamente dimentichiamo –, esso, nonostante la sua subdola letalità, è riuscito ad aprire nel nostro duro carapace una breccia.

Proprio attraverso questa incrinatura, durante il periodo di isolamento abbiamo avuto modo di vedere sotto una nuova luce non solo il mondo esteriore, ma anche il mondo interiore: li abbiamo visti entrambi diversi, più pacificati, più abitabili, più accoglienti; simili al cielo limpido e immensurabile di Austerliz che in Guerra e pace il principe Andrej Bolkonskij vede su di sé in attesa di una possibile morte, o ai sublimi Firmaments e ai Planets di James Brown.

Li abbiamo visti come in un sogno da cui, proprio ora che si è entrati nella fase 2, avremo voluto quasi non essere più risvegliati; li abbiamo visti cioè così come ce li immaginiamo segretamente dentro di noi e come, volgarizzandoli, nel mondo “normalizzato” ce li presentano i dépliant turistici o i testi catechistici. In entrambi i mondi abbiamo colto nuove sfumature, nuove sfaccettature, nuove possibilità che per varie ragioni siamo stati costretti ad accantonare per realizzarne delle altre; possibilità che, essendo rimaste allo stato latente, risultavano persino ignote a noi stessi quando meravigliati le abbiamo ritrovavate in quel vuoto, in quel silenzio e in quella solitudine, sia esteriori che interiori.

Uno dei momenti più intensi e pieni di sconcerto che un po’ tutti, cercando di sfuggire alla morte, abbiamo avuto modo di vivere durante la lunga segregazione forzata, è stato certamente assistere al volo degli uccelli sulla campagna o sulla città, perché con il loro verso ecoico marcavano la tanto incredibile quanto benefica assenza degli esseri umani in esse.

Era insomma come se dentro di noi quel virus avesse destato quelle possibilità dal lungo sonno imposto ad esse dalla modernità e poi anche dalla postmodernità, dalle società evolute e dalle loro leggi, dalle loro ragioni, dalle loro scelte, dalle loro tendenze.

Tendenze che hanno reso quelle possibilità, oggettive e soggettive, sociali e individuali, delle utopie, le quali, seppure come mere illusioni, come visioni intorpidite, riuscivano tuttavia a guidare il nostro incerto cammino dentro i sentieri sempre più asfittici delle società opulente e distopiche.

Prigioniere della loro agitata veglia, ostaggi della loro devastante insonnia, queste società, insomma, riuscivano finanche a utilizzare e a sfruttare utopisticamente quelle idee per realizzare la loro distopia.

Sicché, pur volendo in teoria realizzare in terra il più perfetto dei mondi possibili, una sorta di paradiso terrestre, esse in realtà mettevano mano al perfezionamento continuo dell’inferno, di quella specie di gheenna, di gorgo infuocato, potenzialmente in grado di risucchiare l’intera umanità in una sola volta.

Voler tornare alla “normalità” significherebbe allora riportare quelle possibilità umane, sia quelle sociali che quelle individuali, allo stato di latenza, equivarrebbe a richiudere quello squarcio, a spegnere quel baluginio, quella luce nuova che da esso riusciva a filtrare e che ci ha consentito di scoprire il volto sommerso, represso e dolorante del mondo esterno e di quello interno; tornare allo “stesso” vorrebbe dire insomma estinguere il sogno e con esso anche l’utopia di un mondo diverso, di un’umanità nuova.

Sicché, anche in questo momento di scelte radicali, a fronte di un generalizzato e incontenibile desiderio di tornare alla vita “normale”, ora che proprio quel “benedetto” virus stephanódes, cioè a forma di corona, era riuscito ad aprire quella breccia di luce salvifica dentro la ferita purulenta dell’umanità, proprio adesso valgono ancora e sempre nella storia umana le parole dell’apostolo: “la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie” (Gv 3, 19).

Ivrea, 30 maggio 2020

 

Riccardo e Cecilia

Per un 25 aprile alternativo. Un contributo del professor Di Giorgi all’amico partigiano Riccardo Ravera Chion

 

Inviato da Mario Beiletti, Presidente ANPI Ivrea e Basso Canavese

Cari Riccardo e Cecilia

Riccardo e Cecilia Riccardo, Cecilia e Franco

ci piace ricordarvi sempre così, come in questa foto, scattata nell’estate di una decina di anni fa nell’ampio giardino antistante alla vostra bella e accogliente casa di Chiaverano.

Ogni volta ci riempie di orgoglio gioioso il poter rievocare assieme ad altri la vostra amabile e sorridente accoglienza fatta di premure e di affetto, di calore e di braccia aperte.

La vostra festosa ospitalità restava sempre imperturbabile e soprattutto convinta della propria vittoria, nonostante che i tempi cercassero di rimetterla in discussione.

Da voi e con voi ci si sentiva subito come a casa propria, tra persone care, specie dinanzi a un bicchiere di ottimo vino canavesano. Ci si sentiva più giovani e più ardimentosi, perché ci trasmettevate l’essenza dello spirito giovanile e rivoluzionario che muoveva il corpo e la mente dei partigiani.

Ecco perché ci facevamo latori e mediatori, vi mettevamo a confronto con i giovani di oggi: per vedere se, malgrado il mutar dei tempi, quello spirito ribelle e rivoltoso fosse in qualche modo ancora presente in essi.

I vostri racconti, così densi di avvenimenti decisivi, così pieni di vita, di dolore e di gioia estremi, ci stupivano perché ci facevano intravedere scenari che noi, dal nostro quieto e fosco presente, non avremmo mai neppure immaginato.

Eppure – ecco quanto più ci preme dire –, per quanto fossero così intrisi di sangue, di fango e di verità storiche, di verità che tutti noi abbiamo abbracciato e fatte nostre assieme alla Costituzione, questi vostri racconti ci commuovevano per la passione che trasudava dalle loro parole e per l’espressività vitale che le accompagnava.

Raccontavano di momenti decisivi della vostra vita che sono stati momenti fondativi di tutta la nostra vita associata.

Eppure lo stupefacente per noi consisteva nel fatto che azioni così nobili, importanti e pericolose fossero state compiute da persone assolutamente semplici come voi.

Ecco, più che la durezza delle difficoltà che avevate vissuto, sempre a bivaccare, in quel periodo, nel bivio tra la vita e la morte, era proprio questa vostra semplicità che destava in noi profonda meraviglia: una semplicità che per noi assurgeva subito a dignità, perché con il contributo di persone così, semplici e vere, uomini e donne dal cuore puro, e quindi naturalmente antifascisti, l’Italia era stata rifondata, era diventata una repubblica democratica.

Più che a debellare definitivamente il nazifascismo, cioè il virus della mente, con la vostra tenacia siete certamente riusciti quanto meno a resistere e a metterlo in quarantena.

Ed è sicuramente un futuro di quarantena che per noi già oggi si profila a causa dell’attuale conflitto contro il virus del corpo, il Covid-19. Virus, da vis, azione violenza, e vir, uomo (maschio).

(Franco Di Giorgi)

9 aprile 2020

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Riccardo e Cecilia Ricordo del partigiano Riccardo Ravera Chion - Franco Di Giogi

Franco Di Giorgi

Coronavirus

 

Coronavirus A che punto è la notte di Franco Di Giorgi

A che punto è la notte?

 

da’ al tuo dolore le parole che esige

(Macbeth, atto IV, scena III)

La velocità di diffusione di un virus che infetta le vie respiratorie di un essere umano fino a provocarne la morte è forse minore rispetto a quella con cui l’impollinazione e la disseminazione riproducono la vita. Quando però l’equilibrio coevolutivo tra differenti esseri viventi viene stravolto da una innaturale osmosi tra diverse specie di animali, allora la rapidità di quella diffusione aumenta rispetto alla riproduzione della vita. Da tempo, a fronte di segni evidenti di squilibrio naturale, gli esperti ci ripetevano quello che oggi purtroppo ci confermano: un tale squilibrio è provocato dall’evoluzione ecologicamente irresponsabile della specie umana, la quale ha nel frattempo imparato astutamente a difendersi da pericoli virali simili, cioè a differire nel tempo un’estinzione che meriterebbe per i danni che ha arrecato all’ecosistema, avendo approntato rimedi farmacologici in grado di proteggersi dai virus, ma non di liberarsene definitivamente. Già questo legittimerebbe a dire che la veloce diffusione virale della morte non è altro che il conseguente rovescio della medaglia, ossia il processo opposto a quello altrettanto veloce in cui si propaga la vita sulla terra; e che dovremmo almeno imparare a espiare le nostre colpe cominciando a ripetere le parole di Giobbe: «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore! […] Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?» (Gb 1, 21; 2, 10).

La natura dell’agente patogeno sembra allora essere analoga a quella che ha il male per gli Epicurei e per Lucrezio, vale a dire razionalmente contrastabile, ma non eliminabile. Incapaci di autoriprodursi, questi virus sono dei parassiti che per sopravvivere e moltiplicarsi hanno bisogno delle cellule, di microrganismi vegetali o animali. Sicché senza un vaccino che possa frenarne o arrestarne il veloce ciclo riproduttivo dopo un periodo di incubazione, la loro infezione, cioè la loro azione patogena, può provocare altrettanto velocemente la morte degli organismi ospitanti. Così facendo, queste entità, che sono dell’ordine dei nanometri e che si possono considerare al confine tra il mondo dei viventi e il mondo dei non viventi, riescono ad assimilare a sé gli esseri umani, trasformandoli, anche solo nell’attesa forzosa e ansiosa della quarantena in casa, in altrettanti enti eraclitei oscillanti tra il vivente e il morente. Molti degli infettati infatti non sanno di esserlo e questa ignoranza è lo stratagemma che il virus usa per aggirare la nostra astuzia e per potersi propagare. Ma è grazie all’intelligenza, si legge ancora nel Giobbe (Gb 28, 28), che l’uomo può schivare il male che gli giunge dalla sua ignoranza; l’uomo che, si legge nel secondo coro dell’Antigone, pur non trovando scampo alla morte sa tuttavia trovare rimedio anche ai mali immedicabili.

 Come si vede, anche a questo livello biologico, siamo dinanzi a una lotta intima fatta di mosse e di contromosse tra il vivente e il non vivente, tra la vita e la morte. E se con Macbeth ci chiedessimo «A che punto è la notte?», con Lady Macbeth potremmo rispondere: «Prende a lottare con il mattino, per decidere qual dei due prevalga». Solo che, direbbe Malcolm, «Lunga è quella notte che non riesce a trovare il giorno». Ci viene in mente il Macbeth solo perché lo abbiamo riletto di recente in vista della rappresentazione del 5 marzo al Teatro Stabile di Torino, saltata purtroppo proprio a causa del Coronavirus. Si tratta di astuzie, di inganni e tradimenti che in ogni tempo affliggono l’earthly world, il «mondo basso» in cui vivono gli uomini e nel quale, dice Lady Macduff, «le cattive azioni son spesso lodate, così come le buone s’hanno la reputazione di perniciosa follia»; un mondo (la Scozia degli inizi del Seicento) da cui il marito, il nobile Macduff, era fuggito disgustato dai vizi (evils) che ammorbavano la sua patria.

E in effetti, pur non potendo oramai sfuggire all’onda avvolgente del virus, a un simile autoesilio spingerebbero le basse astuzie di qualche nostro politicante, usando il proprio personale cavallo a dondolo come un cavallo di Troia: chi inserendo astutamente membri del proprio neonato partito nella compagine governativa, chi volendo a tutti i costi, in quanto opposizione, essere inserito nei prossimi dpcm, in modo da poter così predisporre le cose per il proprio futuro e, quel che è peggio, anche per quello dell’intero Paese. Sfortuna vuole infatti che tutta questa emergenza virus stia facendo andare le cose proprio nel verso che vorrebbero i sovranisti. Una volta superata questa crisi, approfittando dell’emergenza sbarchi, passata in secondo piano in questi giorni di lutto e di abbandono, essi sicuramente rimetteranno con maggior vigore il piede sull’acceleratore della paura e ogni loro richiesta in merito alla chiusura nei confronti di stranieri e migranti non potrà che essere assecondata. Dopo l’emergenza del Coronavirus riemergerà dunque l’emergenza dei flussi migratori, ma questa volta troverà ancora meno persone ad occuparsene, perché molti avranno timore di un qualsiasi contatto con gli stranieri, anche se il pericolo – questo ci ha almeno insegnato il Covid-19 – continuerà a provenire da noi stessi. Oltre all’emergenza virus e a quella migratoria, dovremo dunque ben presto ritornare a fare i conti anche con quella terza emergenza che abbiamo dovuto necessariamente accantonare, cioè quella altrettanto subdola dell’avanzata dell’estrema destra nel mondo. Anche questa è infatti una pandemia virale.

30 marzo 2020

Emergenze Castigo

La tempesta perfetta delle emergenze come castigo

di Franco Di Giorgi

Emergenze Castigo Download

«Non so quello che mi aspetta né quello che mi accadrà, dopo. Per il momento ci sono dei malati e bisogna guarirli. Poi, essi riflette­ranno, e anch’io. Ma il più urgente è guarirli; io li difendo come posso, ecco. […] se l’ordine del mondo è rego­lato dalla morte, forse val meglio per Dio che non si creda in lui e che si lotti con tutte le nostre forze contro la morte, senza levare gli occhi verso il cielo dove lui tace» (il dottor Rieux ne La peste di A. Camus (1947), tr. it. di B. Del Fabbro, Bompiani, Milano 1964, XIIª ed., pp. 121-124).

I

Prendo spunto dall’articolo di Marco Revelli (In medio stat virus, in volerelaluna, 11.3.2020), in cui si dice che se in Italia abbiamo solo 5.000 posti in rianimazione, rispetto ad altri paesi europei che ne hanno il quadruplo se non il quintuplo, ciò deriva da precise scelte politiche, e più precisamente da quelle che «hanno portato in dieci anni a negare 37 miliardi dovuti alla sanità e a tagliare 70.000 posti letto chiudendo quasi 800 reparti». Tagli che, come si sa, si sono dovuti praticare a causa della spending review resasi necessaria con la crisi finanziario-economica del 2008.

Chiaro. Ma se è in parte a questi tagli e ad un tale causa che si debbono in definitiva le evidenti difficoltà e le inaudite conseguenze che (dopo i Cinesi) noi Italiani stiamo subendo con la pandemia del Coronavirus, esiti che lo stesso studioso delinea nel suo contributo azzardando addirittura un confronto con la Selekcja di Auschwitz, non è forse agli stessi tagli e alle medesime cause che si debbono anche gli effetti visibilmente nefasti anche nel settore dell’istruzione e dell’educazione? Certo, non c’è paragone tra un effetto e l’altro quanto a pericolosità e forse non sarebbe neppure opportuno farne in momenti catastrofici come l’attuale. È tuttavia indubbio perlomeno che entrambe hanno la loro causa nella decisione di affrontare in quel modo quanto meno poco lungimirante la spending review.

Pur essendo pressati dall’emergenza virus, non bisognerebbe infatti dimenti-care che essa ha nel frattempo messo a tacere un’altra emergenza, quella contro cui, prima dell’abbattersi del Covid-19, non solo l’Italia ma l’Europa intera stava cercando di opporsi: l’affermazione dell’estrema destra, stimolata tra l’altro da un’ulteriore emergenza, quella dei profughi siriani espulsi dal governo turco. Si tratta di quella stessa destra che, a partire almeno dal 2015, con la questione della Grexit, continua ancora a mettersi in luce a Lesbo, là dove è stato detto «finisce l’Europa» (cfr. l’articolo di Annalisa Camilli A Lesbo finisce l’Europa, in volerelaluna, 5.3.2020).

Cosa c’entrano i tagli alla scuola con il neofascismo? C’entrano e come! Perché il fascismo in Italia, dice ad esempio Christian Raimo nel suo interessante lavoro (Ho 16 anni e sono fascista. Indagine sui ragazzi e l’estrema destra, Piemme, Milano 2018), sembra essere diventato quasi una moda, una posa, un modo d’essere e di comportarsi, non solo tra i millennials, tra i giovani dell’ultima generazione. E questo, avverte dal suo canto Luciano Canfora, ossia «Il fatto che giovani e giovanissimi, nelle nostre scuole – pur dopo lo sforzo illustrativo e commemorativo di ricorrenze capitali (da ultimo l’LXXX delle “leggi razziali”) –, si proclamino orgogliosamente “fascisti” non è una febbricola passeggera di cui disinteressarsi» (Fermare l’odio, Laterza, Bari 2019). Ora, il fatto che poco sappiano di storia, non dipende certo da loro. Non c’è dubbio, infatti, che da almeno una ventina d’anni, la scuola è visibilmente sotto attacco, sotto una specie di subdolo assedio da parte del «sovranismo nero», un assalto che «passa», dice lo storico, «attraverso la cosiddetta “autonomia”».

Insomma, se da un lato le conseguenze dei tagli alla sanità si notano soprattutto oggi, come dei dolorosi nodi al pettine, con le difficoltà incontrate dagli ospedali italiani per fronteggiare l’emergenza virus, dall’altro lato le conseguenze dei tagli alla scuola (meno 7,4 miliardi nel 2007, meno 10 miliardi tra il 2008 e il 2012, meno 4 miliardi nel 2019), e quindi dei mancati investimenti nel campo educativo e culturale in senso lato, si notano nella generale precarizzazione dell’insegnamento, nell’opzionalità dello studio, nel totale smantellamento del comparto scuola. In effetti, col passare degli anni, a partire dalla riforma Berlinguer, le scuole sono vieppiù diventate dei comodi Commercial Park Study Center, ossia Centri di Assistenza o di Accoglienza con l’Opzione allo Studio. Qui, in ultima analisi, anche a causa del taglio delle ore in alcune discipline formative come la storia, le conseguenze si registrano in una formazione e in una preparazione altrettanto incerte e poco strutturate dei giovani. Il metodo dell’e-learning, della didattica a distanza – impostosi in questi giorni a causa del pericolo della diffusione del virus nelle scuole, ma prefigurata già una quarantina di anni fa da Jean-François Lyotard ne La condizione postmoderna, 1979), rientra anch’esso in questa tendenza smaterializzante e ipervirtualizzante, in questo progetto di “liquidazione” della scuola. Sicché se era già difficile, anche con la compresenza di docenti, testimoni e storici, riuscire a insegnare ad esempio la Resistenza o la Deportazione, ancora più difficile se non impossibile lo sarà attraverso una piattaforma didattica. E così il cerchio, come si vede, si chiude. Tout se tient.

Ciò consente pertanto di dedurre che anche quella dell’odio razziale, proprio come quella del Coronavirus, non è una semplice e normale febbriciattola da prendere sotto gamba. A fronte di questa tempesta perfetta, in cui le emergenze si sommano anziché elidersi, al fondo di tutte queste urgenze resta una domanda, dice Domenico Gallo: «una civiltà che precipita un popolo di profughi nell’area dei sommersi, ha le risorse morali per salvarsi dal virus del pipistrello?» (cfr. La doppia epidemia, in volerelaluna 6.3.2020). Una domanda che trova una risposta e una conferma altrettanto pessimistica in una frase lapidaria di un superstite della Shoah, una sentenza che fa un po’ da sintesi a tutte quelle emergenze: «Auschwitz non sarà stato altro che fumo, se l’umanità non saprà trarne la sua lezione; e del resto, se Auschwitz dovesse essere dimenticato, come se non fosse esistito mai, l’uomo avrà dimostrato di non meritare che la sua esistenza si perpetui» (Ka-Tzetnik 135633, La fenice venuta dal Lager, Mondadori, Milano 1969).

II

Comunque sia, il Coronavirus rappresenta una netta smentita delle convinzioni razziste o sovraniste, perché si sta prendendo dolorosamente coscienza del fatto che il pericolo non giunge più soltanto da un particolare “altro”, da una particolare etnia o anche da uno “strano” tipo di essere umano, ma da ogni essere umano, divenuto potenziale portatore del virus, potenziale untore. Potrebbe provenire quindi da ogni “straniero”. Ma il medesimo batterio sta cancellando inesorabilmente anche l’idea stessa, la categoria mentale non solo di straniero o di “forestiero”, ma anche di “frontiera” o di “muro” dietro cui fino a ieri era possibile limitare (anche dietro lauto compenso) gli eventuali effetti indesiderati della sua semplice presenza. Giacché dinanzi al Covid-19 si è non solo tutti uguali, ma si è diventati anche “stranieri a se stessi”. Non siamo più infatti quelli che credevamo di essere: siamo “altro” da noi stessi, “altro” da come eravamo. Per certi versi, se pensiamo a tutto il personale sanitario, più solidali come il dottor Rieux, più veri, più pudichi, e per altri versi, comunque, anche più egoisti a causa dell’inestirpabile istinto di conservazione. Forse in ogni caso migliori di come ritenevamo di essere. Ma – domanda – si può essere migliori e più solidali solo di fronte a una pandemia? Non possiamo esserlo anche senza o prima della pandemia o prima di una guerra? Questo tipo di predisposizione mi sembra rimetta sul tappeto una questione formativa e culturale fondamentale che spesso resta inevasa.

Proprio nel senso di quell’eguaglianza, si può altresì affermare che siamo in tutta evidenza di fronte a una pandemia, ossia a un contagio di portata universale: un banale microbo, un microrganismo semplice ed elementare dispone di una epidemicità planetaria, capace di contaminare potenzialmente tutta quanta (pan) la popolazione (demos) del mondo. Esso assimila nella potenzialità contagiante. Non affratella ancora nell’amore, ma lo fa almeno nella possibilità della morte. E ci ricorda che noi, come tutti gli esseri viventi, le apparteniamo, apparteniamo alla morte, quasi nello stesso modo arcano in cui il popolo di Israele apparteneva a Yahweh. Come Dio, infatti, crea l’uomo attraverso l’adamàh, la terra e il fango, nello stesso modo noi discendiamo dalla morte, cioè dall’inorganico, a cui ritorniamo, perché vi apparteniamo, misteriosamente, enigmaticamente, magmaticamente.

Non solo. Grazie a questo germe stiamo altresì divenendo consapevoli del fatto che il pericolo non giunge solo dall’uomo in generale, dall’uomo in quanto tale, ma anche dal mondo che esso ha fin qui gestito e predisposto, nonché da tutti gli oggetti che, avendoli prodotti e nominati, li ha con ciò stesso contagiati. Non ci resta, così, che gestire e toccare noi stessi, non senza però esserci per bene ripuliti le mani con detergenti che, peraltro, non certo a tutti, ma per taluni risultano anche nocivi. Ora scopriamo insomma che anche noi, in quanto appunto uomini, siamo contagiosi a noi stessi, costituiamo un pericolo per noi medesimi.

Anche perché il mondo ci si è ridotto paurosamente attorno a noi e siamo obbligati a vedercela con noi stessi, a lottare, chiusi in una cella come tanti Giacobbe con noi stessi più che contro Dio. Siamo costretti, cioè, a un duro e concreto solipsismo, vissuto però come un castigo, come una palla al piede, specie per noi postmoderni, educati a vivere sempre “lontano” da noi stessi, con la mente “altrove”, a far passare il tempo nutrendo sogni e utopie, a trovare sempre qualcosa da fare e con cui trastullarci, “divertirci”, divergere comunque da noi stessi. Ah, il tempo! Per tutto quello che dovevamo fare prima del passaggio del virus il tempo non ci bastava mai: vivevamo sempre di fretta, correndo assai più veloce del tempo stesso. Ma il virus non ha nessuna fretta e ci costringe a una lentezza a cui non siamo affatto avvezzi. Ora, quasi per rieducarci, per farci scoprire quello che siamo sempre stati veramente e da cui ci eravamo illusi di aver preso definitivamente congedo, il Coronavirus ci costringe e ci riconduce a una condizione umana premoderna dimenticata e messa rapidamente da parte, perché è come se di fatto fossimo stati “arrestati”, bruscamente reclusi e forzati a convivere fianco a fianco, ora dopo ora, con noi stessi, a parlare con noi stessi e di noi stessi, indotti ad ascoltarci e ad accorgerci con amara sorpresa che tutto quello che dicevamo prima di quella pandemia, di quell’inatteso castigo, non era che suono cacofonico e per più versi insignificante, puro e inutile flatus vocis.

Ciò significa che la virulenza del virus ci costringe anche al silenzio, ad ascoltare i nostri silenzi e, assieme ad essi, quindi, anche il ronzio di qualche mosca, che proprio ora, in questi strani momenti si avverte confondendosi con il nostro respiro affannoso e quasi asmatico, una mosca che, svolazzando annoiata, si diverte rimbalzando da noi al nostro vicino. Questo era, direi a tutti gli esegeti che li criticano, il reale rischio che corsero gli amici di Giobbe quando andarono a fargli visita, nonostante che l’Uzita fosse stato toccato dalla piaga maligna, dalla tremenda shechìn ra‘ che Dio, su richiesta di Satana, acconsentì di fargli provare.

Ecco, sì: il respiro. Ma è proprio da quest’ultima essenza dell’umano e del vivente in generale, da quello stesso soffio, dalla ruàḥ che Dio ha insufflato nella nostra adamàh, nella nostra materia inorganica (a cui, virus o non virus, dobbiamo fare ritorno), che deriva il pericolo: è di esso che si nutre il virus, è grazie ad esso che si propaga, che ci tocca e che ci contagia.

Non dovremmo pertanto nemmeno respirare per non dargli la possibilità di diffondersi. Dovremmo paradossalmente pensare all’estinzione per sconfiggere il Coronavirus. Dovremmo creare il deserto attorno ad esso, giacché è degli uomini, della loro vita e della loro morte che esso ha bisogno per crescere e moltiplicarsi. Eppure non è così. Perché è proprio per aver creato un tale deserto sulla Terra, per aver desertificato il mondo, per aver reso il piccolo giardino delle delizie una immensa discarica a cielo aperto, che il virus ha avuto agio di propagarsi.

Alla fine, a farci da “altro”, da “prossimo” nel duro e incerto periodo della piaga maligna, del flagello, oltre alle noiose mosche, avremo ancora le locuste, le immancabili cavallette. Giacché ad essere allontanato e in qualche modo negato da questo virus è anche il cosiddetto “prossimo”, il quale, proprio per essere riscoperto nel suo profondo valore, dovrà mantenersi intollerabilmente a debita distanza, come la fidanzata per Kierkegaard o come l’essere per Heidegger. Dovremo abituarci a pensare che “prossimo” è ciò che ci si deve dare nella distanza. Il rapporto con il “prossimo” non potrà che essere virtuale e come tale inappagante. L’unico appagamento che potremo ancora avere è quello con noi stessi, perché noi stessi siamo stati costretti dal virus a ciò che ci è “più prossimo”, cioè a “noi stessi”, a noi viventi che viviamo nel costante pericolo dell’auto-contagio, in silenzio, in apnea, con la continua paura dell’auto-estinzione.

Ma avremo almeno il tempo per provare questo timore? Sapremo far fronte a questo pericolo dell’auto-estinzione? Ora infatti ne va non solo della vita del nostro futuro, ma del futuro della nostra vita. Tutti i nostri sforzi sono unanimamente tesi a scongiurare un tale rischio, mentre con il passare delle ore le note dell’inno di Mameli cominciano stranamente a commuoverci e la parola “patria” ad assumere il suo pieno significato. In questo disperato tentativo, come sempre, ci sostiene qualche residuo culturale, qualche frammento poetico. Ad esempio i versi di Novalis e del primo dei suoi Inni alla notte: tu mi hai annunciato la notte per la vita – mi hai reso uomo. Quelli celeberrimi di Hölderlin in Patmos (l’isola greca che fu terra d’esilio per l’apostolo Giovanni): Ma là dove è il pericolo, cresce / Anche ciò che ti salva. Quelli dalla sublime semplicità de La Quiete dopo la tempesta di Leopardi: Passata è la tempesta: / Odo augelli far festa, e la gallina, / Tornata in su la via, / Che ripete il suo verso.

Sì, grazie a questo virus, compresi e compressi come siamo nel nostro essere piegati su noi stessi, e dunque per necessità più prossimi a noi stessi, nella reale possibilità dell’auto-estinzione, in questo asfittico e repentino restringimento del mondo, sì ora, finalmente, siamo in grado di intuire e di prevedere con questi nostri amici poeti che la tortora continuerà a richiamarci – tutùutu! – emettendo il suo tubare lamentoso, la coccinella assieme alla cimice proseguiranno la loro lenta e insensata marcia verso il nulla, il gallo seguiterà a cantare nelle scialbe aurore del mondo e l’eco risuonerà invano per la campagna desolata.

IVREA, 16 MARZO 2020

Coronavirus eLearning

Franco Di Giorgi

Coronavirus eLearning

La lezione del Coronavirus

Tra le difficili misure adottate in questi giorni febbrili dal governo italiano per evitare e contenere la diffusione del Coronavirus c’è quella della didattica a distanza.

Si tratta di un rimedio emergenziale che certo mette in crisi il già claudicante sistema scolastico e che pertanto “dovrebbe” essere solo di breve durata.

Nel diuturno aggiornamento garantito dai media, durante il nostro isolamento domiciliare, una tale misura ci fa pensare che è già da diversi anni che il ministero dell’istruzione prende in considerazione l’e-learning, cioè, appunto, il metodo della didattica a distanza.

Coronavirus

Solo che, a fronte di quel sistema farraginoso, una tale possibilità non poteva apparire che remota.

Grazie però al Covid-19, facendo di necessità virtù, direbbe il buon Manzoni, si ha modo di metterla in atto. Sfruttando le nuove tecnologie, ciò potrebbe avere i suoi immediati vantaggi per lo Stato, almeno economici.

Esso potrebbe infatti risparmiare non poco potendo ridurre sensibilmente le spese nel comparto scuola, a partire dapprima da un “giustificato” taglio agli stipendi degli insegnanti e poi, con una graduale riduzione, degli insegnanti medesimi, visto che ora basterebbe un solo docente per ogni disciplina, il quale dalla sua unica postazione, dalla sua comoda piattaforma casalinga, potrebbe impartire le sue lezioni a centinaia di utenti-scuola.

Ciò conviene sia allo Stato centrale sia alle regioni, dal momento che con questo risparmio potranno affrontare la necessaria spesa per la sanità e per le tanto necessarie quanto impreviste assunzioni di medici e infermieri.

Si dissolverebbe così nel nulla, grazie a quel batterio, il mito della lezione frontale.

E in effetti, a cosa potrebbe mai servire ancora un insegnante in carne ed ossa se la rete è in possesso di una memoria e di un sapere mille volte superiore al suo?

Siamo quindi a una svolta radicale nel campo dell’istruzione?

È possibile; e se si considera la recessione economica che quel virus può comportare sul piano internazionale, anche auspicabile.

«Niente ansia. Uniti ce la faremo» ci è stato poi detto.

Giusto. Ma come praticare questa esortazione se la triste realtà ci costringe intanto alla disunità, ci intima di mantenerci a debita distanza?

E ciò proprio quando nel frattempo masse di esseri umani, di profughi, di innocenti vengono usate sordidamente come armi biologiche e di ricatto nella incessante lotta fra gli Stati.

Pare esaurito, dunque, il tempo della globalizzazione e dell’abbraccio globale: il Coronavirus ci dice a chiare lettere che quel progetto, realizzato in quel modo, era “innaturale” e che non poteva avere vita lunga.

E ciò vale anche per l’Unione europea. In questo tempo in cui le emergenze umanitarie e naturali anziché risolversi si sommano e si moltiplicano, anche la fraternità è pertanto costretta a virtualizzarsi.

Compresa, purtroppo, anche quella candidamente manifestata dalle Sardine.

Se non si trova il nuovo vaccino, il nuovo antivirus, tutte le idee di fratellanza culturale e di vicinanza fra i popoli sono destinate a svuotarsi.

Vorrà dire allora che si è lavorato per nulla, che tutto è stato vano, inutile?

Può darsi.

Non potrà in ogni caso esserlo per quella casa farmaceutica, per quella multinazionale che entrerà in possesso del tanto agognato antidoto, da cui potrà ottenere verosimilmente utili ragguardevoli.

Quegli stessi che i signori del mondo riescono ad accaparrarsi con le guerre.

Perché di questo si tratta con questo nuovo bacillo influenzale, con questo nuovo nemico invisibile, di una vera e propria guerra.

Ci ricordiamo dei cento milioni morti che aveva causato in tutto il mondo la “spagnola”, la pandemia che, esattamente un secolo fa, aggredì il pianeta dopo la fine della prima guerra mondiale?

E due secoli fa, la tisi, sempre con le goccioline di saliva, non ne fece forse altrettanti?

Vogliamo poi parlare della peste del Seicento e del Trecento?

Il discorso ci porterebbe lontano, all’origine dell’umano e della vita stessa sulla Terra.

A causa di questo microscopico parassita, dunque, di un batterio che oltre che nella sanità e nella vita ci accomuna e ci rende partecipi di tutto il vivente anche nella malattia e nella morte, si ritorna alla solitudine, all’ideale del monachus, alla sobrietà e alla vita solitaria del medioevo, a forme di esistenza tanto decantate da artisti e poeti, a una vita fatta di polvere e di cenere, di indumenti madidi e fetidi gettati nelle pire e affidati alle fiamme purificatrici.

Tanto ormai la postmodernità ci aveva quasi abituati alla rifeudalizzazione sociale.

E con essa anche alla monadizzazione, all’esistenza da monadi, da individui con porte e finestre ben sprangate. Finita quindi – almeno per il momento – l’idea dello zoon politikon e dell’agorà.

Da anni, infatti, i politologi ci ripetono che l’elemento politikos, che è alla base dei legami sociali, si è dissolto e la stessa politica si è perduta; resiste tuttavia da par suo lo zoccolo duro dello zoon, dell’animale.

Ci attendono, sembra, il midbar, il deserto, il deserto che avanza, e assieme ad esso anche le locuste, nostre compagne da sempre, sin dai tempi biblici.

Ma oggi che nel giro di poche ore ci si è spalancata la voragine del vuoto e del nulla sotto i piedi; ora che viene di nuovo messa in gioco la nostra vita, che la posta in gioco è tornata ad essere la vita biologicamente intesa, proprio quando molti, specie alcuni, credevano di avere avuto già tutto e di essere al riparo da ogni possibile tempesta sul mare nostrum, e che si illudevano di poter mirare dalla riva con una certa tranquillità l’altrui gravoso travaglio; ebbene in questi momenti che, senza alcuna vera umana ragione, scopriamo di essere noi stessi come quei tanti altri che solo fino a ieri consideravamo pattume e inutile merce di scarto, oggi, qui, in queste ore di solitudine, di reclusione forzata e di evitamento ritorna più vivo che mai, pur se in veste di solidarietà, l’umano, semplice e originario desiderio di continuare ad essere, di essere in salute, di avere una vita non tanto piena ma purchessia, il desiderio di Dio, la brama di salvezza, il tanto lodato quanto odiato ma certamente inestinguibile istinto di sopravvivenza.

E tuttavia oggi, come ci dicono a più voci i virologi, non abbiamo ancora raggiunto il “picco” dell’epidemia, la massima espansione del contagio, non siamo ancora in grado, come Renzo Tramaglino, di avvederci della varietà delle “erbacce” che popolavano la sua vigna.

Oggi, insomma, con la riduzione della nostra libertà e dei nostri slanci vitali, ci sembra di dover rinunciare a qualcosa che solo fino a ieri ci sembrava solo accessoria e che ora si rivela assolutamente vitale.

Ebbene sì, adesso «nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / nella miseria».

Sono le parole che nel celebre quinto Canto dell’Inferno (vv. 121-123)

Dante suggerisce a Francesca da Rimini, sono i versi che verranno ripresi nella storia da tutti coloro che, per diversi motivi, sono stati privati della libertà e della vita.

Ivrea, 8 marzo 2020

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Il Terribile

Ricordo del Terribile

Nella foto, a sinistra il presidente dell’ANPI di Ivrea Mario Beiletti, a destra il partigiano Riccardo Ravera Chion

LO SPIRITO PARTIGIANO DEL  “TERRIBILE”

di Franco Di Giorgi

Lo spirito partigiano del Terribile di Franco Di Giorgi

Quando il tempo si porta via persone come Riccardo Ravera Chion il vuoto che lascia è di tutt’altro genere di quello che ci si spalanca dentro quando perdiamo un parente o un genitore.

È un vuoto che non riguarda soltanto noi che l’abbiamo conosciuto e frequentato, ma anche, sebbene indirettamente, molti altri, se non tutti quanti gli Italiani.

Ebbi a dire la stessa cosa quando il turno toccò a due altri cari amici, prima Liana Millu nel 2005 e poi Cesare Pòlcari nel 2011.

Ma che cosa, almeno per me, li rendeva degli esseri speciali?

Non solo il fatto che sono stati dei partigiani e che, ognuno a modo loro, ha patito, resistito e lottato per la libertà di tutti noi e per la nostra Costituzione repubblicana e democratica.

No, non solo per questo, che è certo assai importante.

Ciò che li rendeva esseri straordinari era piuttosto il loro spirito partigiano che essi riuscivano ad esprimere attraverso le loro azioni e che sapevano trasmettere alle persone che li avvicinavano.

In che cosa consiste questo spirito partigiano?

Non certo nell’insulsa partigianeria. In essi a muoversi e ad attivarsi attraverso il corpo era tutta l’anima.

Ogni loro gesto era animato perché davvero sapeva di anima, aveva la forza infinita dell’anima, dinanzi alla cui manifestazione si restava sempre meravigliati e ci si chiedeva da dove mai attingessero tutta quella energia vitale, quella forza che invece mancava in noi.

Quando conobbi il partigiano Terribile, all’inizio del terzo millennio, mi sembrava indistruttibile, immortale e io stesso mi convinsi subito dentro di me che persone come lui non dovevano morire, non avrebbero mai dovuto essere dimenticate, perché in lui e attraverso lui si sprigionava quello spirito partigiano, quella grande anima che speravo anche altri potessero riscoprire dentro di loro.

Ecco perché, in quanto insegnante, mi impegnai a farlo conoscere agli studenti, a quanti più giovani possibile.

Ne nacque così nel 2004 un piccolo testo, A scuola di Resistenza, una raccolta di testimonianze che il Terribile assieme ad altri partigiani del Canavese hanno potuto rilasciare sia in classe, a scuola, al liceo scientifico “Gramsci” di Ivrea, sia a casa loro.

Qui, nelle loro abitazioni, che sapevano ancora di montagna, siamo andati a trovarli con gli studenti e ogni volta era una festa, perché dopo aver ascoltato i loro appassionati e appassionanti racconti, in cui il rischio e il pericolo si stemperavano tra i loro mezzi sorrisi, il tavolo si riempiva subito di cibi sobri e deliziosi.

Da allora, ogni anno la presenza dell’Anpi e del Terribile al liceo, non solo durante le celebrazioni della Giornata della Memoria e del 25 aprile, fu garantita e sostenuta da studenti e insegnanti.

Fu soprattutto sua e dell’allora suo amico Sarteur che, sempre in quell’anno, si decise, con la piena disponibilità di Mario Beiletti, di collocare una scultura nella nuova sede dell’Anpi di Chiaverano, un’opera che mia moglie aveva realizzato per esprimere la condanna contro ogni tipo di guerra.

L’anno dopo, a pochi giorni dalla scomparsa dell’amica Liana, per la Giornata della Memoria ci recammo assieme al Terribile a Genova, invitati in un liceo per parlare della signora Millu.

L’appuntamento a casa mia era per le sette, ma Riccardo mi disse che era lì già dalle sei e che nell’attesa si era fatto un giretto attorno al paese.

Durante il viaggio in macchina ci raccontò, con la passione che lo contraddistingueva, della sua seconda vita trascorsa in Africa, in Congo, e in tutte quelle vicende così avventurose e avvincenti si sprigionava sempre con intima gioia liberatoria il suo spirito partigiano.

Crebbe così nel tempo, grazie a questo spirito lampeggiante del partigiano Terribile – uno spirito oltremodo irruente che egli difficilmente riusciva a dominare, persino dinanzi ai discorsi di storici amici, spirito in ogni caso autenticamente socievole e socialista, accogliente, affettuoso e bonario proprio come quello della moglie Cecilia – crebbe così, insomma, grazie anche ad altri suoi compagni di lotta (ricordiamo fra gli altri Antonio Gianino, Marino Chiolino Rava, Giancarlo Benedetti, Amos Messori, Domenico Ariagno) la collaborazione tra l’Anpi di Ivrea e gli studenti, i quali si presentavano e partecipavano attivamente alle cerimonie e alle presentazioni del libro assieme a fratelli, genitori e nonni – in alcuni casi, questi, partigiani essi stessi: è il caso di Liano Brunero e della moglie Anita Baldioli.

Ciò per dire, in conclusione, che quella cooperazione con i giovani è essenziale e non secondaria, sostanziale e non solamente accessoria, perché ne va della stessa sopravvivenza della memoria dell’Anpi.

Giacché in questo consiste, a pensarci bene, il più volte evocato spirito partigiano del Terribile: nella sua estrema fiducia nella gioventù, nell’apertura alle nuove generazioni. Perché una cosa è certa: il futuro, qualsiasi futuro, il futuro di ogni cosa è nelle mani, nella mente e nel cuore dei giovani.

Ivrea, 27 febbraio 2020