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icona pdfGIURAMENTO DI INFEDELTÀ ALLA COSTITUZIONE

di Franco Di Giorgi

FRANCO DI GIORGI

Alla luce della fiducia posta dal Senato al governo sul decreto ‘sicurezza bis’ (con 160 voti favorevoli, 57 contrari e 21 astenuti), sarebbe stata del tutto inutile la proposta che i padri costituenti avevano avanzato (e poi definitivamente cassato) in merito all’estensione del giuramento di fedeltà alla Costituzione anche ai deputati della Repubblica.

Alla fine si decise infatti che “I deputati, per il solo fatto dell’elezione, entrano con la proclamazione immediatamente nel pieno esercizio delle loro funzioni.

Tale immissione non è più subordinata alla condizione del giuramento”.

A questo giuramento rimasero invece vincolati il capo dello Stato, i membri del governo, i magistrati e le forze armate. Ecco la formula protocollare: “Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservarne lealmente la Costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione”.

Ora, è del tutto evidente (tranne a quelli che non la conoscono e non l’hanno mai letta – ma, nel caso in specie, anche a quei ministri e a quei deputati che su di essa hanno solennemente giurato) che quel decreto (approvato dal Consiglio dei ministri a giugno e dalla Camera a luglio) non è affatto fedele alla Costituzione, poiché viola manifestamente almeno l’articolo 10, il quale al terzo comma suona: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge”.

Un decreto che, sul classico modello della carota e del bastone, serve solo ad alimentare e in parte anche ad appagare l’inestinguibile sete d’odio che aumenta nella maggioranza delle persone con il delinearsi sempre più netto e sconfortante del dissesto economico, sociale e politico del Paese; un decreto pertanto che sa solo parlare alla pancia degli Italiani, sempre tanto desiderosi di un uomo (e mai di una donna, almeno in questo senso) che, in qualsiasi modo, sappia assicurare loro, come un buon padre, il cibo. Un alimento, a proposito di pancia, che ha la medesima ingannevole consistenza di quello che ogni giorno viene ammannito sulla mangiatoia virtuale dalle televisioni.

Un provvedimento, pertanto, non solo illegale (non sono bastati due mesi alla Corte costituzionale per rilevarne l’illegittimità?), ma anche immorale, perché del tutto contrario al principio etico della solidarietà cui si ispira sia quell’articolo sia tutta quanta la nostra Carta costituzionale, la quale da questo punto di vista si può considerare un vero e proprio trattato di etica – così, cioè come un articolato di valori etici universali e sovrastorici, essa dovrebbe essere studiata nelle scuole.

Un provvedimento inoltre del tutto inutile, perché non risolve affatto il problema degli sbarchi (tra l’altro in diminuzione proprio in questi mesi), e utile solo come pretesto per dimostrare quanta parziale e limitata verità vi sia nell’idea dei partiti di governo.

Ma proprio in tal modo gli esponenti al governo di questi partiti derogano e hanno derogato sia al testo del giuramento di insediamento sia al comma dell’articolo 10, perché se da un lato svolgono solo in apparenza le loro funzioni “nell’interesse esclusivo della Nazione”, dall’altro anziché creare le condizioni per la realizzazione della legge enunciata da quell’articolo ne creano viceversa delle altre che rendono impossibile l’espressione dello spirito solidaristico.

La questione dei migranti, poi, per l’Italia è del tutto relativa se si pensa che nel 2018, secondo i dati dell’Unhcr, vi sono sbarcate un po’ più di 23 mila persone (il nostro ministro in una lettera a Giuseppe Conte vi fa cenno in termini di “soggetti irregolari presenti nel territorio nazionale”), mentre in Grecia le persone salvate sono state 33 mila e in Spagna 64 mila.

Paesi che, come si sa, si trovano in una situazione economica non certo migliore della nostra.

In ogni caso, lo stupore rispetto a quel decreto nasce più che altro dal fatto che nessun organo dello Stato abbia saputo constatarne tempestivamente l’illegittimità, abbia saputo in altri termini ravvisare ed eventualmente sanzionare in maniera efficace ed esemplare, nelle forme consentite dalla legge, la conclamata infedeltà di ministri e deputati alla Costituzione.

Una di queste forme, anzi la forma etica per eccellenza prevista per questa legge è contenuta nell’articolo 54, al cui spirito etico si ispira esplicitamente il testo del giuramento al momento dell’insediamento, e nel quale si dice in maniera limpida: “Tutti i cittadini [oprattutto coloro che, in quanto ‘eletti’ dovranno esserlo in modo ‘esemplare’] hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi.

I cittadini [si ribadisce infatti nel secondo comma] cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge” (i corsivi sono nostri).

All’interno di uno Stato laico e repubblicano un siffatto giuramento (jus), ossia un tale senso della justitia, non può che fondarsi dunque sul dovere richiamato in questo articolo, dovere che obbliga a una fedeltà alle leggi previste dalla Costituzione e non a quelle divine che discenderebbero dalla Beata Vergine Maria (spesso evocata dal nostro ministro per rafforzare i suoi interventi e per far breccia nell’animo dei suoi fedeli).

L’assenza di decise reazioni istituzionali di fronte a questo molteplice e sfrontato atto di infedeltà costituzionale genera un vuoto surreale che amplifica l’eco di quelle evocazioni.

Ebbene, quando si tradisce la Costituzione fino a questo punto – in quel decreto si legge ad esempio che dovrà essere punito non colui che si astiene ma colui che si impegna a salvare la vita altrui – allora sì, non si può che dar ragione al presidente di Magistratura democratica, Riccardo De Vito, il quale avverte che in tal modo si ripropone, sebbene con procedure differenti, la medesima antilogica che vigeva nei Lager, in cui il mondo, come testimonia Levi, girava ‘alla rovescia’; non si può non condividere inoltre la convinzione della presidente dell’Anpi nazionale, Carla Nespolo, secondo la quale, così facendo, con quel decreto non solo si disattende il dettato costituzionale, ma viene altresì svuotato il significato della democrazia, che ha nell’eguaglianza uno dei diritti umani fondamentali.

Rispetto a ciò, ogni minimo allontanamento da questo valore prelude a una simmetrica approssimazione al razzismo, anche quando questo si presenta nella sua declinazione suprematista. “Quando si tradisce la Costituzione – afferma in particolare la presidente Nespolo – è il momento della Resistenza”.

Anche perché, come un buon nazionalsuprematista, il ministro degli Interni (che non è ancora premier, ma così lo vedono e lo chiamano già alcuni network amici) si serve dei suoi collaboratori (come ad esempio la sindaca di Monfalcone) per mettere il bavaglio a giornali (quali Manifesto e Avvenire) e a riviste (come Civiltà cattolica) che si mostrano restii ai suoi diktat e ai sui sermoni, spesso corredati da rosari e da vangeli, e fatti di battute sarcastiche tanto care alle masse sempre così bramose di divertente semplicità.

Già, di nuovo è il momento della Resistenza.

Perché l’Italia è un Paese in cui la Resistenza non si è mai potuta considerare un capitolo chiuso della storia.

Un Paese in cui alla guerra civile degli anni ‘40 è stata opportunamente applicata la sordina.

Nonostante la memoria storica e l’esperienza acquisita in passato (la storia per gli Italiani non è mai stata maestra di vita), incapaci di migliorare se stessi, sempre suscettibili di un odio vivo, preda di uno schietto entusiasmo per la violenza contro l’altro, contro lo straniero, contro il diverso, essi vivono nella costante attesa di un uomo, di un ‘duce’ scriveva già agli inizi degli anni Trenta Hermann Broch nei suoi Sonnambuli, anche solo di un ‘capitano’, che possa fungere in qualche modo da motivazione, ma anche da comoda giustificazione per possibili azioni che, “senza di lui”, sottolinea lo scrittore austriaco (che ha conosciuto la realtà del carcere nazista), risulterebbero senz’altro folli.

In tal senso non ha tutti i torti Rino Formica quando, a fronte dell’attuale “decomposizione” delle istituzioni italiane, del “deperimento anche delle ultime sentinelle, l’informazione, la magistratura”, in una recente intervista asserisce che “si sta creando il clima degli anni ‘30 intorno a Mussolini” (manifesto 8/8).

Ma come organizzare questa Resistenza, senza far cadere i manifestanti nelle trappole dissuasive preparate ad hoc dal ministero degli Interni con quel decreto?

Questo il compito che attende i movimenti di opposizione democratica nei prossimi giorni.

Due comunque sembrano essere le strategie per affrontare questo nuovo pericolo per la democrazia e per la Costituzione.

Una è quella che sollecita una nuova politica ‘frontista’, cioè quella che, ispirandosi allo spirito della Resistenza, pone come obiettivo primario la nascita di un fronte comune della sinistra: una sorta di “fronte umanitario” che, davanti a questa emergenza delle nuove destre, sappia riunire i partiti della sinistra o del centro-sinistra mettendo da parte le asfittiche differenze.

L’altra è quella che si pone come meta la rifondazione di un nuovo e più moderno soggetto politico che, pur non disdegnando i valori della tradizione della sinistra, sappia confrontarsi con i problemi posti dalla realtà digitalizzata e globalizzata, in cui quel pericolo si radica e si sviluppa.

Considerato il convulso precipitare degli avvenimenti, la prima auspica di raggiungere il proprio obiettivo nel breve e nel medio tempo; la seconda, con l’elaborazione di un nuovo progetto politico, prevede naturalmente tempi più lunghi.

Le due strategie sono poi reciprocamente critiche, perché mentre l’una, avendo a che fare con l’immediato e con le emergenze incalzanti del presente, non ha certo tempo da perdere nelle lunghe ed estenuanti analisi, in cui alla sinistra piace cullarsi, l’altra sottolinea il fatto che ogni tentativo di un mero assemblaggio delle forze è immancabilmente destinato al fallimento.

Per quanto metodologicamente opposte e sebbene ideologicamente convergenti, tutte e due le posizioni contengono elementi di verità.

Vero è che il pericolo è immediato e che la pianta andrebbe recisa prima del suo abbarbicarsi; ma è altrettanto vero che il problema può essere affrontato alla radice non politicamente ma culturalmente, cioè invitando gli Italiani, non solo i giovani, a studiare meno cucina e più etica, a partire soprattutto dalla lettura della Costituzione.

Perché solo così essi, non solo i cittadini comuni, ma anche quelli che essi eleggono al governo del Paese, potranno apprendere il valore etico del giuramento davanti alla Costituzione e capire cosa vuol dire, quali oneri comporta adempiere una funzione pubblica con disciplina ed onore.

Suvvia, dunque, ognuno secondo le proprie possibilità e le proprie inclinazioni, anche sull’esempio dei rilievi posti al decreto dal presidente della Repubblica, dia il proprio contributo in questo compito indifferibile, in questo nuovo progetto per un’Italia migliore.

Giuriamolo dinanzi alla Costituzione!

Venerdì, 9 agosto 2019

Libertà di insegnamento

La crisi delle istituzioni e la libertà di insegnamento

 

di Franco Di Giorgi

Libertà di insegnamento

Alle Istituzioni di un Paese alle prese con una crisi sistemica (propria cioè del sistema capitalistico) che non sa come fronteggiare e che non riesce strutturalmente a risolvere e a superare (una crisi che lo relega ormai da più di un decennio fra gli ultimissimi posti tra gli Stati membri dell’Unione europea), di un Paese che non sembra visibilmente capace di uscire dalla recessione in cui quella crisi l’ha gettata, soprattutto per l’enorme peso del debito pubblico accumulato e che continua ad accumulare;

a queste Istituzioni che, proprio a causa della loro inettitudine gestionale e soprattutto progettuale, vengono da tempo irrise e sbeffeggiate sia dalle loro omologhe europee sia dalla stessa cittadinanza mugugnante di cui dovrebbe occuparsi, specie quando si atteggiano e si incarnano in figure come quella del “cavaliere della libertà” o del “capitano di ventura” e in ogni caso in quella del “Robin Hood” al contrario;

ebbene, a queste Istituzioni così piene di livore verso se stesse in ragione proprio di questa loro inabilità, a cui non resta che fare i forti con i deboli, a queste Istituzioni, insomma, viene spontaneo punire la classe degli insegnanti.

Perché dopo aver ridotto quasi al silenzio operai e pensionati, con i loro rispettivi sindacati, depotenziata e impoverita la classe media, stanno tentando da un po’ di tempo a questa parte (almeno dall’inizio del nuovo millennio, piano piano, un po’ alla volta, per non lasciar intravedere il disegno demolitivo e disintegrante) di spegnere il libero pensiero critico nei giovani, nei cosiddetti “millennials”, e quindi, ovviamente, principalmente nelle scuole:

stanno in altre parole cercando di cancellare quella stessa libertà di insegnamento e di formazione che la nostra Costituzione sancisce all’articolo 33.

Giacché è qui, è solo qui, nelle scuole, che nonostante tutto, nonostante cioè il loro sfascio ormai manifesto, il loro lento ma inesorabile deragliamento, è soltanto qui, nelle scuole, che sopravvive a fatica la possibilità di progettare e costruire il futuro di un qualsiasi Paese, è solamente qui che si formano individui pensanti e cittadini consapevoli.

Senza dei quali non resta che la squallida miseria del presente, che è prodotto o dell’assenza atrofica o dell’eccesso ipertrofico di memoria, è prodotto dello svuotamento dei contenuti progettuali per il futuro, cioè della stessa possibilità di concepire e di immaginare un futuro.

Le Istituzioni sanno bene dell’esistenza e delle potenzialità insite in questa libertà che la Costituzione (frutto della Resistenza) prevede e conferisce all’insegnamento e alla scuola.

Ed è per questo che, anche con il pretesto spiazzante dell’inarrestabile rivoluzione tecnologica, vorrebbero spegnerla. C’è dell’incompiuto, diremmo con Paul Ricoeur, nella nostra Resistenza, nella nostra Costituzione, come pure nel nostro ’68.

Un incompiuto che andrebbe compiuto.

In questo senso, diceva, il filosofo francese, bisogna fare non solo storia, ma fare la storia: bisogna compiere la storia incompiuta.

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Articolo 33 della Costituzione italiana:

L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento.

La Repubblica detta le norme generali sulla istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi.

Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.

La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad essa piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali.

È prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale.

Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato.

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p.s. Su “Scenari di Mimesis” potete trovare invece un mio lungo commento (in due parti) alla serata eporediese che Cacciari ha dedicato al tema dell’Europa.

 

 

 

La liberazione

La Liberazione libera anche chi ne abusa

Franco Di Giorgi

La liberazione libera anche chi ne abusa

Ivrea, partigiani in piazza di città

Senza la Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, compiuta il 25 aprile del 1945 in virtù della resistenza e della lotta opposta da una minoranza eroica sostenuta dagli Alleati, a nessun Italiano oggi sarebbe possibile esprimersi liberamente anche contro di essa.

Ad ogni modo, proprio in quella data fondativa (che gli storici preferiscono indicare in cifre romane), la Liberazione diede la libertà a coloro che, malgrado i governi liberali di una monarchia illuminata, non sapevano nemmeno che cosa fosse, anche se, specie durante il Ventennio, ogni tanto la vivevano meravigliati in sogno o la incontravano altrettanto stupiti tra i versi di qualche poeta classico, negli sguardi e nei giochi dei bambini, oppure ne sentivano intimamente il gusto ascoltando della musica o intonando qualche motivo popolare.

Per secoli gli Italiani erano stati avvezzi alla sudditanza, e quindi all’inizio, sebbene la Costituzione parlasse molto chiaro, non sapevano come fare con quella libertà, con quella nuova possibilità esistenziale, non sapevano come approcciarla e in che misura disporne.

Ecco perché, come Adamo nell’Eden, presi dall’ingordigia, dalla tracotanza, andarono incontro ai primi erramenti, commisero le prime intemperanze, si abbandonarono ai primi eccessi.

Giacché la intesero come la libertà di dire e di fare tutto ciò che si voleva, anche, appunto, contro la stessa Liberazione.

Col rischio pertanto di perderla, come era in parte già successo circa un secolo prima ai contadini siciliani di Bronte.

La Liberazione, dunque, conferì innanzitutto ad ognuno la libertà di esprimersi liberamente, però entro una certa misura prevista dalla legge e dalla Costituzione, che è quanto di più misurato ed equilibrato un documento fondativo possa rappresentare ed esprimere. Ma non mancò subito qualche ribaldo che, approfittando delle garanzie offerte dalla democrazia, non perse tempo ad eccedere capricciosamente quella misura.

E poi, al di là di ciò e nonostante ciò, la Liberazione libera tutti. D’altronde deve essere così, se no non è libertà.

Essa ha infatti liberato sia quelli nati prima del fascismo, sia quelli nati durante sia quelli venuti al mondo dopo la dittatura fascista.

Ha persino liberato dopo quelli che prima volevano negare la libertà agli altri facendone una cosa propria.

Come pure liberò quelli che, durante, in vario modo, restarono a guardare, ad attendere, con le braccia conserte o con le mani giunte e nervose, che passasse la nottata e che uscirono solo alla fine sui balconi a salutare i giovani partigiani dal volto serio che scendevano finalmente in città lasciandosi alle spalle le vicine montagne.

La Liberazione del 25 aprile ha in altre parole amnistiato gli Italiani dal reato di minorità (di Unmündigkeit diceva Kant), emancipandoli ed innalzandoli di colpo a uno stato giuridico responsabile e di maggiore consapevolezza.

Anche se non tutti, naturalmente, raggiunsero e maturarono quella cognizione, quel senso di responsabilità, insomma quella coscienza necessaria per il giusto uso della libertà.

Non tutti riuscirono ad elevare la propria realtà umana a quell’ideale spirituale di libertà.

Come tanti piccoli e grandi Prometeo, i partigiani avevano lottato per strappare quell’ideale agli dei e ora lo recavano agli uomini, solo che non tutti ne furono all’altezza.

Essa liberò pertanto anche quelli che ne hanno abusato e libera quelli che ancora ne abusano; quelli che in generale hanno concepito egoisticamente il dono come un “condono”, perché a differenza di coloro che l’avevano sperimentato sulla propria pelle, questi altri non sanno, non hanno ancora piena cognizione di quel dolore che comporta il non essere liberi, questi ancora oggi non si sono emancipati perché, pieni e inebriati dalla propria tracotanza all’interno della stessa libertà che respirano, non hanno ancora superato quello stato di minorità.

Come i Millennials sono nati nell’epoca del web, così tutti quelli che sono nati dopo il 25 aprile del ‘45, dopo il 2 giugno del ’46, dopo il ’47 e soprattutto dopo il 1º gennaio del ‘48, sono nati alla libertà e alla democrazia.

Pur vissuti nella povertà, nei rifugi antiaereo e tra le macerie dei bombardamenti, per tutti costoro è stato e continua ad essere naturale disporre della libertà, perché la trovano come un dato naturale.

Anche perché nessuno gliene rende conto, nessuno vuole niente in cambio per essa.

Se non il giusto rispetto della legge e dei valori sanciti dalla Costituzione.

Con la libertà si ha infatti a che fare con un valore inalienabile, perché si tratta di un vero dono disinteressato ricevuto sia dai partigiani, che hanno messo a disposizione non la vita genericamente intesa ma la loro propria vita, sia dai padri e delle madri costituenti che, sebbene con visioni politiche differenti e per quanto necessitati a sedersi attorno a un tavolo sotto la grave pressione dello scontro Usa-Urss, si sono dati, sacrificati e impegnati per far sì che tutti quei loro sforzi trovassero finalmente un solco comune e sintetico (perché solo l’intelligenza è capace di sintesi), affinché quel dono spirituale prendesse forma, anima e corpo nella nuova Costituzione (che è sintesi delle sintesi) e nella Repubblica democratica (che esprime quella forza sintetica capace di conciliare gli opposti, la singola res con la pluralità del démos).

La scuola e l’istruzione, specie la disciplina della storia, hanno in particolare il delicatissimo compito di ricordare ai figli e ai nipoti dei liberati (mentre se ne servono respirandola avidamente come l’aria, come qualcosa di cui non possono più fare a meno) che la libertà di cui si giovano pur essendo un dono, una donazione, una per-donazione, non è affatto un dato naturale, bensì sempre e a qualsiasi latitudine il frutto, il risultato di una lunga e dolorosa conquista dello spirito umano.

La scuola, peraltro, ci può anche far comprendere che la libertà così acquisita può avere anche un prezzo, nel senso che può venire limitata e condizionata anche dagli stessi Alleati.

Ecco perché, crisi o non crisi, la formazione culturale e intellettuale, cioè non solo tecnica, dei giovani dovrebbe essere considerata dal sistema politico non come la ruota di scorta, ma come uno degli assi portanti della Repubblica.

Ma forse, nonostante i molti annunci con aumenti-elemosina da parte del ministero della pubblica istruzione, a qualcuno delle cosiddette “élites” italiche fa comodo che la scuola nel nostro Paese resti ben chiusa nel cofano del carrozzone Italia.

Ci si libera sempre in ogni caso con le proprie mani, ognuno con il proprio cric – lo sapevano bene i partigiani e tutti coloro che li hanno sostenuti – e ciò vale sia per il singolo che per i popoli.

La libertà si raggiunge solamente quando si è mossi, si viene mossi da un ideale, in ogni caso da qualcos’altro da sé, da qualcosa che avvertiamo dentro di noi e che pure ci trascende mettendo in crisi il nostro ego, la nostra esistenza buia, bassa e senza scopo.

Ecco perché essa, la libertà, in quanto frutto di una lotta di Liberazione, non è soltanto una questione politica, ma è anche e soprattutto una “questione privata”.

La prima questione è sempre intrecciata con la seconda.

Non si può difatti lottare per la Liberazione degli altri se prima non ci si è liberati del proprio egoismo, né viceversa possiamo liberarci del nostro egoismo se non facciamo l’esperienza purificante e autentificante della lotta di Liberazione per tutti gli altri. È in questo chiasmo esistenziale che matura l’auto-emancipazione dell’uomo e degli Stati.

La via che ha condotto alla libertà e che noi vediamo (quando la vediamo) sempre percorsa da un lungo e interminabile tappeto rosso, è in realtà cosparsa del sangue purpureo donato da quella minoranza di maturi e di auto-emancipati che ci ha preceduto, come pure da quegli Alleati caduti per il nostro Paese, povero ma ricco d’arte.

Quella via, per noi esseri viventi liberi, è in realtà ricoperta di morti, la cui cenere il vento ha disperso da tempo. I loro nomi tuttavia si possono ancora leggere andando per via o girovagando per le piazze.

Le loro immagini, i loro sguardi, le loro azioni e le loro parole sono ancora incise nella memoria di chi ha sentito o letto quelle parole, ammirato quelle azioni, scrutato quegli sguardi, conservato quelle immagini.

Una memoria che, per il timore di perderla, ora può venire conservata su supporti informatici, forse meno insicuri delle umane capacità ritentive.

Ad ogni modo, malgrado le sbruffonate di qualcuno che si prende e si arroga la libertà di inneggiare alla non libertà, di qualcuno che non ha ancora maturato in sé la comprensione di quello che significa non esser liberi, speriamo che in futuro non ci sia più bisogno di un’altra lotta di Liberazione (anche per noi, purtroppo, diventata pure guerra civile), intesa come ennesima lezione, come ripasso da dare agli immaturi irriconoscenti dalla coscienza inguaribilmente divisa e divisiva.

Non si può scherzare, non si può giocare infine con la libertà. E sarebbe meglio non transigere su queste irriverenti spacconate. Sebbene ne offra seriamente la possibilità, la libertà non è affatto un gioco.

Soprattutto non è un gioco solitario, individuale, perché la sua serietà presuppone sempre l’altro, tutti gli altri e quindi la solidarietà e il rispetto. O si è liberi tutti oppure nessuno lo è.

Giacché si è uguali nella libertà. Essa si realizza pertanto solo attraverso l’eguaglianza.

E quindi non ci può essere vera e concreta libertà senza uguaglianza dinanzi alla legge, senza parità di diritti, senza solidarietà.

La nostra Repubblica non deve poi aver paura di affermare con giustizia, chiarezza e rigore questi suoi valori costituzionali, questi preziosi e inestimabili doni ereditati dalla Resistenza, giacché la sua lenta e incerta azione sanzionatoria può talora essere intesa come invito a continuare ad abusare della libertà.

(27.04.2019)

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Lelio Basso San Gimignano

Conferenza di Sergio Dalmasso su Lelio Basso, a San Gimignano

Lelio Basso San Gimignano

Sergio Dalmasso, storico e studioso del Movimento Operaio, con la presentazione del libro “Lelio Basso.

La ragione militante: vita e opere di un socialista eretico” a San Gimignano per Sinistra&Culture ha ripercorso fasi decisive di storia della sinistra eretica dal dopoguerra ad oggi.

La lettura non conformista del marxismo di Basso, vicina a quella di Rosa Luxemburg, propone domande attualissime alla sinistra contemporanea.

Introduce il dibattito Ernesto Nieri, Presidente di Sinistra&Culture. 4 aprile 2019.

Video di Dante Pallecchi.

 

LELIO BASSOSergio Dalmasso

La ragione militante: vita e opere di un socialista eretico

Prefazione di Piero Basso

«Quando Lelio Basso morì / contammo gli anni passati / della nostra giovinezza / e adulti ci inerpicammo / sugli impervi sentieri / del movimento operaio / alla resa dei conti con la storia» (Antonio Lombardi).

Sinossi

Non aveva ancora compiuto 25 anni, Lelio Basso, quando venne tratto in arresto e confinato all’isola di Ponza.

La sua “colpa”, nel 1928, era quella di essere un convinto antifascista e di comportarsi come tale.

Un’attitudine che, nel corso di un memorabile esame di filosofia morale sostenuto da Basso, costrinse il professore da cui era interrogato ad affermare:

«Io non ho alcun diritto d’interrogarla sull’etica kantiana: resistendo a un regime oppressivo lei ha dimostrato di conoscerla molto bene.

Qui il maestro è lei.

Vada, trenta e lode».

E se allo studioso Lelio Basso si dovrà, tra le tante cose, la diffusione del pensiero di Rosa Luxemburg in Italia, fu grazie alla sua visione della lotta partigiana se la Resistenza guadagnò un respiro di massa.

Ancora, per comprendere la complessità e l’importanza del personaggio, è a Lelio Basso, in quanto membro della Costituente, che si devono gli articoli 3 e 49 della Costituzione mentre, da strenuo difensore dei diritti umani quale fu, diede un contributo fondamentale alla fondazione di organismi quali il Tribunale Russell, chiamato a giudicare i crimini statunitensi in Vietnam.

Con partecipazione e competenza, Sergio Dalmasso rievoca la vita di Lelio Basso, dà voce alle sue lotte e entra nei particolari del suo lavoro politico, spiegando le rielaborazione bassiana del materialismo storico e restituendo il giusto merito a una delle figure più importanti della storia italiana contemporanea.

***

Dal 19 gennaio 2023 è stato reso disponibile il primo capitolo del libro Lelio Basso

Download “Primo capitolo del libro Lelio Basso” Capitolo1-Lelio-Basso-La-ragione-militante.pdf – Scaricato 32752 volte – 308,09 KB

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LELIO BASSO TRA IERI OGGI E DOMANI

DI FRANCO DI GIORGI

LELIO BASSO TRA IERI OGGI E DOMANI Franco Di Giorgi alla sede ANPI di Ivrea 6 dicembre 2018

Franco Di Giorgi

1. Il testo che Sergio Dalmasso dedica a Lelio Basso (Lelio Basso. La ragione militante: vita e opere di un socialista eretico, Red Star Press, Roma 2018) non è solo una monografia politica, è anche una biografia che, attraverso la ricostruzione della vita di un’importante figura della scena politica italiana del recente passato – dal 1921 (anno in cui il diciottenne varazzino prende la sua prima tessera socialista) al 1978 (anno della morte) – ci parla sia del nostro più vicino presente sia dell’inquietante futuro che ci si prospetta.

L’orizzonte storico e culturale relativo a quel periodo, a partire almeno dal primo dopoguerra, presenta condizioni e aspetti che caratterizzano anche la nostra contemporaneità.

Pur cambiando i personaggi, le problematiche che tale orizzonte apre delineano un medesimo scenario – quello che vedrà l’insorgenza e l’affermazione del fascismo e con esso, naturalmente, anche la diffusione del razzismo come suo naturale corollario; vedrà, insomma, l’avvio di una fase drammatica della nostra storia.

In effetti, guardare al passato, dicono gli storici, «serve anche a comprendere meglio il presente» (Claudio Vercelli, Francamente razzisti, Edizioni del Capricorno, Torino 2018). Certo, è vero.

Ciò tuttavia solo in linea teorica, giacché ogni contemporaneità, compresa la nostra, mostra sempre a chiare lettere che la comprensione o l’interpretazione del presente non basta perché non serve a cambiare il modo di pensare negli uomini e a farli maturare, al fine di evitare di ricadere negli stessi errori da essi compiuti nel passato.

Ma c’è dell’altro.

C’è dell’altro nella vita di questo socialista eretico.

Eretico per vari motivi. Ad esempio perché pur criticando le posizioni liberali di Gobetti, – che vede nell’individuo il soggetto del mutamento della storia – del giovane letterato torinese il giovane Basso condivide la lettura storico-politica dell’Italia:

Paese nel quale il cattolicesimo, insensibile alla voce della coscienza protestante, ridotta da esso al silenzio (anche in questo senso Luigi Pareyson parlava di “coscienza muta”), rappresenta un presupposto dell’ubbidienza al fascismo, la predisposizione psicologica a mettere a tacere ogni rivolta nei confronti dell’autorità costituita, anche quando questa dimostra palesemente di avere come fine l’annullamento della volontà umana, sia quella che si è incarnata nel diritto sia soprattutto quella che si esprime nel dovere, inteso nel senso mazziniano e in quello kantiano e stoico.

Pur da posizioni politiche differenti, pertanto – Basso, marxianamente, vede nella classe operaia il soggetto della tanto auspicata rivoluzione –, essi, antifascisti per istinto, concordano nell’analisi dell’origine del fascismo, scorgendo nella mancata affermazione del protestantesimo in Italia il peccato originale che ha impedito a questo Paese la formazione di una coscienza responsabile e seria.

Per una ulteriore conferma di questa mancanza, di questa hamartía, è utile rifarsi anche al saggio del 2010 di Maurizio Viroli, La libertà dei servi, nel quale si esaminano le varie forme di intransigenza, vale a dire di quell’atteggiamento etico proprio di Gobetti e di Basso.

A proposito di intransigenza, pur in tutta la sua cieca disperazione, pur con il suo andare “alla cieca” diremmo mutuando una bella espressione di Claudio Magris, fortunatamente anche l’Italia di oggi non è solo quella che Alberto Moravia e Antonio Gramsci videro bivaccare nell’indifferenza, l’Italia che si metteva alla finestra ad aspettare e ad esultare a comando assecondando i desideri velleitari di qualcuno che amava parlare agitandosi ad arte da un balcone.

L’Italia, la migliore Italia, quella a cui oggi si deve continuare ancora a guardare, è anche e soprattutto quella di Mazzini e di Gramsci, di Lelio Basso e di Piero Martinetti.

A tal riguardo, dal testo di Dalmasso apprendiamo che a un esame di filosofia morale, il professor Martinetti (uno dei 12 docenti universitari che, su 1250, negò il proprio consenso al fascismo) diede il massimo dei voti al giovane venticinquenne di Varazze, perché con la sua condotta antifascista aveva saputo dimostrare che cosa intendesse in realtà Kant con l’imperativo categorico.

Ancora oggi, dunque, proprio come allora – si sappia! – l’Italia continuerà a contare sul modello di intransigenza esemplarmente fornito da questi “eretici”, da questi rappresentanti di una minoranza eroica.

2. Alla mancata formazione storico-culturale della coscienza in senso protestante corrisponde in Italia anche la mancata comprensione della praxis in senso marxista.

Giacché se la conoscenza è prassi – ovvero indispensabile condizione spirituale di cambiamento materiale e quindi rivoluzionario – , questa conoscenza non può essere prassi, non può costituire una tale condizione, se non, appunto, in quanto fondata sulla coscienza formata in senso protestante.

Vale a dire: non ci può essere vera edificazione storica del movimento operaio italiano e dell’Italiano in generale (edificazione anche nel senso kierkegaardiano), perché manca ad essi quel solido fondamento della coscienza pietista su cui poter edificare in sicurezza.

Gli Italiani sì, possono costruire – e in effetti molto hanno costruito in maniera variegata, manieristica e barocca, molte e diverse sono le torri che essi hanno innalzato –, ma tutte le loro costruzioni edili, proprio come quella del Costruttore Solness ibseniano, a causa della mancanza di un fondamento di serietà, di un vero Grund soggettivo e interiore, sono destinate a crollare perché è come se fossero state costruite sulla sabbia, come se si trattava solo di castelli di carta o, peggio ancora, di castelli in aria.

Sicché, come non c’è praxis, non c’è fare concreto e socialmente incisivo senza conoscenza, senza autentica gnosis (anche in senso gnostico, perché nella gnosi vi è un’eco viva dello gnoti seauton, del delfico “conosci te stesso”), così non si può dire sia conoscenza vera quella che non è capace di fare, di operare, di incidere pragmaticamente nella realtà.

Di conseguenza, una conoscenza non può mai essere pratica e operativa, nel senso di fattiva e attuativa, se non è fondata sulla libertà di coscienza o sulla coscienza libera.

Se questa coscienza non è libera, infatti, la conoscenza, per quanto teoreticamente profonda, non potrà mai fattivamente operare e incidere nella realtà concreta e sociale.

Ragion per cui il suo fare non potrà che essere falso, infondato e quindi apparente e appariscente.

E questa falsificazione del fare in una pseudo-praxis avrà come corrispettiva conseguenza non solo la perdita della personalità individuale, cioè del proprio Se stesso, ma anche la falsificazione della volontà, vale a dire la velleità.

E cos’è stato infatti il fascismo se non l’incarnazione e l’istituzionalizzazio­ne del velleitarismo, ossia di quella aspirazione, arrogante e prepotente, al fare, senza poter e senza saper fare?

Per questo ogni velleitarismo italiano è destinato a fallire, sebbene i danni che esso arrecherà saranno ogni volta tanto gravi quanto lungo sarà il tempo che passerà prima che gli individui prenderanno coscienza della propria servitù e passività.

Due sono stati i momenti della nostra storia nei quali gli Italiani si sono resi conto di questa loro soggezione: il Risorgimento e la Resistenza.

Pensiamo a Dei doveri dell’uomo di Mazzini, ma anche alla fatticità di un Pisacane a cui, tra l’altro, Basso guardava con ammirazione per il suo culto dell’azione.

Pensiamo ai partigiani, ai deportati, alle staffette e alle donne deportate, che hanno sovrumanamente resistito e combattuto per un’idea nuova di Italia.

Continua …

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LELIO BASSO TRA IERI OGGI E DOMANI

di Franco Di Giorgi

Per la presentazione della monografia di Sergio Dalmasso su Lelio Basso

Ivrea, sede Anpi – 6 dicembre 2018)

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Il volume è presente in libreria e su Amazon, ecc:

Libro Lelio Basso. di Sergio Dalmasso
Disponibile dal 19 gennaio 2024 il primo capitolo di seguito di Lelio Basso. La ragione militante: vita e opere di un socialista eretico:

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Diego Giachetti, Recensione libro su Basso di Diego GiachettiRiporto di seguito la recensione, presente su Amazon, dello storico Diego Giachetti, al mio libro Lelio Basso. La ragione militante.

La solitudine di un socialista luxemburghiano di Diego Giachetti

 27 giugno 2018

Lelio Basso. La ragione militante

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Il libro appena pubblicato di Sergio Dalmasso, Lelio Basso. La ragione militante: vita e opere di un socialista eretico (Roma, Red Star Press, 2018), aggiunge un Copertina Recensione libro su Basso di Diego Giachettinuovo importante tassello utile per comprendere le vicende legate alla sinistra politica e sociale italiana.

Con la solita pazienza per i fatti e la documentazione che lo contraddistinguono, l’autore propone una snella e approfondita biografia politica di un protagonista del socialismo italiano, morto quarant’anni fa.

Ritrovare e ripercorrere la vita di Lelio Basso significa entrare direttamente nella storia del socialismo italiano, nel periodo che va dal fascismo alla Resistenza, al lungo dopoguerra, con i dovuti e annessi riferimenti al contesto generale della seconda metà del ‘900.

Basso ha vissuto pienamente tutti quei decenni, li ha attraversati da protagonista nel senso di un militante che ha partecipato con le proprie idee e analisi alla lotta politica fuori e dentro il partito.

Lo ha fatto senza mai rinunciare alla propria indipendenza di giudizio e di critica.

Lelio Basso controcorrente

Che Lelio Basso fosse un uomo che amava nuotare controcorrente lo dimostra la sua scelta di iscriversi nel 1921 al Partito socialista, proprio nel momento in cui tale partito non godeva di ottima salute. Aveva appena subito la divisione dei comunisti che portò alla costituzione del Partito comunista, al quale la maggioranza dei giovani socialisti aderì.

La sua giovanile adesione al socialismo comportò conseguenze repressive ad opera del regime fascista: fu arrestato, processato e confinato.

Tra azione politica e teoria

Nel corso della Seconda guerra mondiale egli esprime riserve critiche sulla politica dei fronti popolari, perché la ritiene frutto di scelte operate dai vertici di partito e incapace di stimolare e valorizzare la spinta del movimento operaio verso rivendicazioni di classe.

Ugualmente critico è il giudizio sul governo Badoglio che lo porta a rompere per un breve periodo col Partito socialista, per poi rientrarvi nel 1944.

Favorevole all’unità d’azione coi comunisti, segnala però gli elementi che lo separano da quel partito: il problema della democrazia interna e il fatto esso si ponga al servizio della diplomazia sovietica. A chi lo rimproverava di coltivare l’illusione dello sbocco rivoluzionario della Resistenza,

Basso replicava che tra la rivoluzione socialista e l’inserimento dell’establishment conservatore, vi era tutta una gamma di sfumature non sfruttate, messe in sordina dalla svolta di Salerno che rappresentò invece l’accettazione della continuità con le istituzioni e il personale burocratico amministrativo che avevano servito il regime fascista.

Eletto all’assemblea Costituente, fu uno dei principali artefici della stesura della Carta costituzionale

Divenne segretario del Psi, carica che mantenne per qualche anno. Dopo si dimise e iniziò il suo percorso minoritario all’interno del socialismo.

Gli eventi del 1956 (XX Congresso del Pcus, critiche all’operato di Stalin, rivoluzione ungherese e invasione da parte dei sovietici) non lo colgono impreparato; non deve fingere il falso stupore di chi si maschera dietro il “non sapevo nulla” di quanto era accaduto sotto il regime di Stalin in Urss.

La denuncia di Stalin e dello stalinismo, fatta per altro da ex stalinisti, riconferma per Basso la validità del socialismo democratico e pluralista contro il modello di partito unico, l’importanza della democrazia all’interno del partito contro il burocratismo.

Denuncia quindi le deviazioni dell’Urss senza ripiegare su scelte socialdemocratiche di riformismo spicciolo. Pertanto è contrario alla politica di avvicinamento dei socialisti al governo con la Democrazia cristiana e nel 1964 aderisce al Partito socialista di unità proletaria (Psiup), formazione che raccoglie i socialisti contrari all’entrata nella maggioranza governativa.

Nel frattempo Basso prosegue e approfondisce la sua riflessione teorica, tesa a potenziare l’impianto analitico e programmatico di un progetto di trasformazione socialista della società basato sulla riscoperta di Marx, che elimini le interpretazioni socialdemocratiche attribuitegli dai teorici della Seconda Internazionale.

Un Marx libero anche da Lenin.

Entrambi sono indispensabili, diceva, non perché il leninismo sia il marxismo dell’età contemporanea, che ne racchiude tutta l’essenza, bensì perché Lenin costituisce la guida delle rivoluzioni negli anelli più deboli e Marx delle rivoluzioni occidentali.

Mentre Lenin aveva concentrato il fuoco della sua battaglia sull’anello più debole della catena capitalistica mondiale, la Luxemburg invece aveva una visione meno tattica e più strategica, a lunga scadenza sui problemi di una rivoluzione in una società capitalistica altamente sviluppata.

Il triste esito delle speranze suscitate dalla “primavera di Praga” del 1968, conclusasi con l’intervento militare sovietico, è per Basso motivo di amarezza anche per la posizione assunta dal suo partito, che giustifica l’invasione.

Non rinnova la tessera del Psiup, nel 1971 si dimette dal gruppo parlamentare perché anche in quel partito si sente ormai un corpo estraneo.

Sentimento che prova anche nei confronti delle nascenti organizzazioni extraparlamentari. Il suo dissenso riguarda la concezione del socialismo e della rivoluzione, la natura e il ruolo del partito, la strategia del movimento operaio. La soluzione, ribadiva, è nel pensiero di Marx e nel ritorno a Rosa Luxemburg.

Amarezza e orgoglio

Il bilancio che egli stesso traccia di cinquant’anni di attività politica è crudo e orgoglioso. Scrive infatti che avrebbe potuto fare la politica dei favori e delle amicizie, ma non ne ha mai avuto la tentazione. Gli ripugnava.

In ciò, dice, sta la causa della sua solitudine, non solo politica ma nel profondo dell’anima, senza amici costretti ad essergli fedeli per ragioni governative o sottogovernative.

Nei partiti, prosegue, mi sono trovato spesso in minoranza. Ma essersi dimesso dai partiti non significa aver rinunciato alle proprie idee alle quali resta attaccato: “sono un isolato, un uomo che non ha dietro di sé alcuna forza organizzata, ma soltanto il proprio passato politico di militante, non mi è facile portare avanti questo ruolo di indipendente, ma è contro ogni mia volontà che sono stato ricacciato ai margini della vita politica e ridotto al ruolo non di protagonista, ma di testimone”.

In quegli anni di “solitudine” politica, il suo impegno si consuma nell’organizzazione dei tribunali internazionali per i diritti dei popoli.

È del 1966 la sua adesione al Tribunale Russell per giudicare i crimini americani nella guerra in Vietnam.

Dal 1974 al 1976 promuove e presiede le sessioni del Secondo Tribunale Russell sulla repressione in America Latina.

Nel 1976 fonda la Lega per i diritti e la liberazione dei popoli. Continua la sua attività di studioso del marxismo e di promotore culturale.

Dal 1958 al 1976 dirige la rivista Problemi del socialismo. Nel 1969 fonda l’Istituto per lo studio della società contemporanea (ISSOCO), fornito di una preziosa biblioteca per la storia del movimento operaio.

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Dal 19 gennaio 2024 è disponibile il primo capitolo del libro Lelio Basso. La ragione militante: vita e opere di un socialista eretico:

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